Perché non posso essere italiano (e meno che mai festeggiare il 17 marzo)

Nell’anno scolastico 1974-75 ebbi la fortuna di avere un insegnante di italiano eccezionale: Giorgio Flaccavento; studiavo all’Istituto per Geometri “Fabio Besta” di Ragusa, e anche se la lingua italiana non era materia centrale, per me, che in definitiva ero poco interessato a fare il geometra, invece lo fu tantissimo.
Giorgio (ci davamo del tu col professore) all’inizio dell’anno ci fece scegliere se studiare Dante o “La Questione Meridionale”. Quasi tutta la classe optò per la seconda, anche se qualcuno sicuramente lo fece solo per evitarsi “La Divina Commedia”. Non si trattò tanto di leggere Gramsci – cosa di per sé edificante – quanto di analizzare la nostra realtà, conoscerci, cercare di capire in che mondo vivevamo. Fu un aprire gli occhi. Io e qualcun altro mio compagno entrammo in possesso di un altro testo “rivelatore”: “Contro la ‘Questione meridionale’”, di Capecelatro e Carlo, due studiosi che criticavano da sinistra le tesi gramsciane. Ricordo ancora con quanta passione ci tuffammo in quelle pagine, discutendone in classe con Giorgio, e come scoprimmo che il problema del sottosviluppo del Sud non derivasse dalla sua arretratezza strutturale o dalla mancanza di una borghesia industriale, ma dalla maniera in cui si erano evoluti i rapporti Nord-Sud dopo l’Unità d’Italia. In pratica la tesi dei due autori, suffragata da numerosissimi documenti e dati, e che in seguito ho riscontrato in moltissimi altri testi, era che l’irruzione della borghesia “piemontese” nella vita economica e sociale del Mezzogiorno aveva ridimensionato il ruolo della borghesia locale, subalternizzato le strutture produttive, in buona parte spegnendole o trasferendole, facendo del paese meridionale un territorio da cui ricavare risorse economiche e umane per lo sviluppo del Nord. Il sottosviluppo del Sud altro non era che l’altra faccia dello sviluppo del settentrione, diciamo la condizione; quindi era un sottosviluppo dinamico, cioè inserito in un contesto nazionale, con un ruolo ben preciso: quello di rappresentare il carburante per far marciare la macchina nordista. Il carburante non avrebbe dovuto esaurirsi, quindi il “giacimento” andava certamente coltivato (assistenzialismo, produttività secondaria, agricoltura), per far marciare al massimo l’economia del Nord.
Ricordo una vignetta di Roberto Zamarin negli anni ’70, in cui il personaggio “Gasparazzo”, un emigrato meridionale, si chiedeva: “Se non ci fosse il Sud ci sarebbe il Nord?”.
Quel periodo di studi mi fece capire tante cose; ad esempio perché non avrebbe funzionato la pretesa industrializzazione del Sud; perché non avrebbe funzionato la Cassa per il Mezzogiorno, e così via. Perché erano tutti strumenti atti a consolidare quella relazione diseguale instaurata con l’Unità d’Italia.
Fu più o meno in quegli anni che un compagno francese con cui ero in corrispondenza, in una delle sue prime lettere mi chiese: “ma tu ti senti più italiano o siciliano?”. La domanda mi colse di sorpresa. Nonostante quell’attenzione alla Questione Meridionale, non avevo riflettuto sulla faccenda. Risposi, un po’ istintivamente: “siciliano”. Dopo di che volli approfondire la nostra storia; andare oltre il raccontino dei Mille che si imbarcano a Quarto e sbarcano a Marsala, e a furia di battaglie vittoriose sconfiggono i Borboni e consegnano l’Italia a Vittorio Emanuele di Savoia. E così ho scoperto le gesta eroiche dei “picciotti” siciliani unitisi a Garibaldi; gente che aveva fatto rivoluzioni nel ’20, nel ’48, nel ’60 per la libertà e per una via migliore; gli stessi che furono disillusi presto dall’andamento delle cose nell’Italia Unita. Ho scoperto le stragi di Bronte, di Fantina, e tante altre, ad opera degli uomini di Bixio, che repressero contadini rei solo di voler accelerare il cammino della giustizia contro i nobili oppressori da sempre (e scoprii anche “La libertà” di Verga). E che i “piemuntisi” c’imposero la leva militare di 6 anni, che significava per il nostro popolo la fame e la miseria, con gli uomini e i figli migliori lontani a combattere (e a morire) per il nuovo re; e che da qui nacquero il brigantaggio siciliano, lo stato d’assedio ed altre stragi. Una canzone popolare recitava: “Vittoriu Emanueli chi facisti – La megghiu giuventù ti la purtasti – Ti la purtasti luntanu a Turinu – Vittoriu Emanueli l’assassinu”.
Ho cominciato a studiare: la rivoluzione del 7 e mezzo del 16 settembre 1866, la prima grande insurrezione di massa del popolo siciliano contro il nuovo potere dei Savoia, capeggiata dai capi squadra garibaldini; finita nel sangue dopo sette giorni e mezzo, con Palermo bombardata dalle navi da guerra inviate dal re, e poi occupata da migliaia e migliaia di militari; e fosse comuni, migliaia di morti, ancora stato d’assedio: uno degli episodi più importanti della nostra storia, e il meno conosciuto, perché semplicemente cancellato. Il grande movimento dei fasci dei lavoratori, anch’esso represso nel sangue; le tante continue lotte con cui il nostro popolo ha cercato di affermare il suo diritto alla libertà e alla terra. E’ stata una storia di rivolte e di sconfitte, di emigrazione oltre oceano, nel Nord Europa e poi nel Nord Italia: milioni e milioni di siciliani che hanno dovuto lasciare l’Isola, gli affetti, i progetti, per andare a perdersi in giro per il mondo. E questo perché il Sud doveva essere il serbatoio di mano d’opera del Nord; il suo granaio; la fabbrica di carne da cannone per le guerre dei Savoia:; l’invasione coloniale nell’Africa orientale e in Libia; la prima carneficina mondiale; la guerra di Spagna; la seconda carneficina mondiale. Con in mezzo il fascismo, avallato da Casa Savoia, e poi rinnegato quando era alle corde.
Ripercorrendo questa storia, ed il modo in cui al suo interno è stata degradata la nostra cultura, ridotta a sottocultura macchiettistica fino al punto da farcene vergognare; ripensando alla nostra lingua “proibita” (“Un populu diventa poviru e servu – quannu i paroli nun figghianu paroli – E’ persu ppi sempri” – Buttitta); rivedendo la vita toccata ai nostri nonni, ai nostri padri, condannati alla schiavitù e alla miseria, eppure mai domi e pieni di dignità, ho rivendicato il mio essere siciliano e il mio non riconoscermi in questa Italia frutto di una colonizzazione del Sud da parte del Nord. Dieci anni di emigrazione hanno finito per rafforzarmi in questa convinzione.
Ma sia ben chiaro: non nutro per questo sentimenti di avversione verso le altre popolazioni. I popoli sono una cosa e le istituzioni un’altra. Sono per l’unione fraterna di tutti gli esseri umani; per un legame federale su basi egualitarie fra le varie regioni. Lo Stato italiano invece è sempre rimasto lo Stato poliziesco piemontese, e continua ad essere uno Stato piemontese, centralista e nordista. Anche quando lo hanno servito siciliani come Crispi o Scelba, La Malfa o Mannino, o …Angelino Alfano. La classe politica siciliana (quella dei gattopardi), ha capito che poteva trarre beneficio dai nuovi assetti politici se solo avesse servito bene il nuovo padrone, cui occorreva una casta locale per tenere a freno una popolazione ribelle e indomita. Anche per questo (ma non solo, certo…) la mafia ha avuto un ruolo pesante nella nostra storia.
Ecco perché non mi posso riconoscere in questo 150°. Mio nonno, come centinaia di altri braccianti siciliani, ha disertato la grande guerra per poter continuare a nutrire i suoi figli: catturato, è stato torturato, rinchiuso all’Asinara, dove si è ammalato, e per quel trattamento è morto ad appena 40 anni. Perché non volle partecipare alla guerra dei Savoia.
Mio padre è morto d’aneurisma all’ospedale di Vittoria: aveva avuto la prenotazione per l’intervento; c’è andato con i suoi piedi, tranquillo e fiducioso; ne è uscito cadavere. Non sarebbe accaduto se ci fossimo trovati in una città e in una clinica del Nord.
Mio figlio finirà gli studi universitari e sappiamo già che qui da noi non troverà nessun lavoro; se gli andrà bene lo troverà nel Nord Italia, sennò all’estero.
Cosa c’è, dunque, da festeggiare?

Pippo Gurrieri

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