A sud di nessun nord

Molti di noi stanno avendo il torcicollo di questi tempi a furia di girarsi all’indietro per cercare di guardare al Nord Africa, al Medio Oriente, a quell’intrigo di paesi che con grande ignoranza abbiamo chiamato “arabi” pensandoli e vedendoli, con i nostri occhiali distorcenti, tutti uguali, senza riuscire a coglierne differenze, peculiarità, culture. E così, presi dal lacerante dolore al collo, non riusciamo a concentrarci ancora per tentare di vedere oltre i luoghi comuni, per tentare di recuperare il gap tragico conseguente ad una acculturazione a senso unico, intrisa di razzismo eurocentrico.
Cresciamo, ci istruiamo, guardando a Nord; il Nord è il “davanti”, tutto il resto è il ”dietro”, è il Sud: oltre il mare, l’ignoto, un Sud lontano, quando invece la Capitale è molto più lontana; la Tunisia, per esempio, non è neanche a Sud della Sicilia, ma ad Ovest, e ci sono zone della nostra Isola situate più a Sud di Tunisi. Ma loro sono Sud e noi Nord. Distinzione non tanto geografica, ma politica. O, se si vuole, geopolitica.
Poi ci svegliamo un mattino e scopriamo di essere immersi in quel Sud più di quanto non potessimo immaginare. Un risveglio brusco, perché finalmente quel mondo, a furia di gridare alta la propria insofferenza, è riuscito ad attirare l’attenzione su di sé, e manco il tempo di rendersi conto di quel che succedeva, che quei popoli cacciavano due dei caporioni che li avevano governati nella maniera più terribile: Ben Alì e Mubarak, amici del Nord ricco e delle potenze economiche dominanti. Manco il tempo di aggiornarci sugli avvenimenti di un Maghreb così vicino e così lontano, che quegli uomini e quelle donne irrompevano in massa sulle nostre coste, in quantità superiore rispetto a quanti sono arrivati nel corso di decenni e si sono inseriti nelle nostre terre dapprima in maniera tranquilla, poi, man mano che aumentava il numero e si concentravano fette di popoli i più disparati, anche dall’Est Europa, in modo sempre più complicato, difficile; occasione ghiotta per sfruttatori senza scrupoli di carne umana.
Ma quelle persone che fino a ieri arrivavano qui, o che morivano inghiottiti dal mare che ci separa, non ci sbattevano in faccia i loro problemi sociali: chi non li voleva vedere, non li vedeva. Questi di oggi, invece, si portano dietro un bagaglio di sommosse, ribellioni, repressioni, insomma, ci costringono a prendere atto che il Sud si mischia al Nord, che anche noi siamo coinvolti, e che le nostre certezze si sono definitivamente arenate a Lampedusa, tanto che ora non sappiamo più se siamo il Sud dell’Europa o il Nord dell’Africa.
Lo avevano ben capito gli strateghi del male, i bracci armati delle potenze mondiali, che da tempo avevano stabilito qui da noi le loro basi militari, le seste flotte, i centri radaristica, le basi Loran, gli arsenali nucleari per tenere sempre sotto il mirino quei paesi ricchi di petrolio e di gas, frontiere di un continente che prima o poi avrebbe presentato il conto all’Occidente. L’Italia questa strategia l’ha subita dal dopoguerra in maniera profonda, esagerata, umiliante. Il comando Nato di Napoli, le basi militari sparse in Puglia, Sardegna, Calabria, e in Sicilia alcune fra le più importanti: Sigonella, Trapani Birgi, Pantelleria, Augusta, Niscemi, tutte al centro delle aggressioni più recenti (Iraq, Afghanistan, ex Jugoslavia), oggi ci avvinghiano ai destini dei nostri dirimpettai con le bombe e i missili che i caccia e le navi da guerra occidentali sganciano giornalmente sulla Libia, dopo essere partiti da questi buchi neri che ci siamo tenuti da troppo tempo, di cui non ci siamo riusciti a liberare. Questo delle basi sì, invece, è un altro mondo, Sigonella non è la Piana di Catania, Birgi non è il Val di Mazara, ma un mondo a parte, invalicabile, con le sue regole, le sue leggi, i suoi piani. Il canile dei Padroni del mondo, coi suoi mastini pronti a sbranare i “nemici” dei potenti, è qui da noi. E molti che hanno fatto finta di non vedere e non sentire, oggi sono costretti a farlo dagli sbarchi quotidiani a Lampedusa, dalle deportazioni verso i Campi e le tendopoli sparsi nell’Isola e fuori, dal villaggio degli aranci di Mineo, un altro di quei non luoghi americani basati sul nostro territorio, trasformato in lager a 5 stelle. E soprattutto dal fragore dei cacciabombardieri.
E mentre accade tutto questo, in Giappone il terremoto e lo tsunami riaprono altre pagine dolorose; pagine che viste da qui ci ricordano le falde sismiche su cui poggiano le nostre città, ci riportano ai nostri terremoti più catastrofici: 1693, Val di Noto, 1909 Messina, con il violento tsunami che lo seguì e che provocò migliaia e migliaia di vittime; Belìce 1968. In quello stesso territorio di Messina i padroni e i mafiosi vogliono costruire il ponte più inutile e devastante della storia. Ma sono le pagine nucleari che dal Giappone rievocano Chernobyl, a mostrarci l’impotenza dell’uomo verso i mostri che ha costruito per soddisfare il dio consumo ed il dio denaro. E poi facciamo due più due e ci accorgiamo che anche il Giappone non è poi così lontano: per i terremoti, per lo tsunami, e per le centrali nucleari che vogliono costruire anche qui: prima si parlava di Palma di Montechiaro, adesso di Marina di Ragusa e di un’altra località tra Licata e Gela. Il Giappone non andrà più via da qui, per il cesio 137 sparso nell’aria e nei mari, per la catena alimentare avvelenata che coinvolgerà il mondo intero. Anche se i sondaggi hanno consigliato al governo italiano di varare una moratoria di un anno sullo sviluppo del nucleare, sappiamo che torneranno alla carica, perché gli interessi dei costruttori, dei mafiosi, dei politici devono essere soddisfatti a qualunque prezzo.
Qui una guerra per il controllo del petrolio e del gas, lì un disastro immane per controllare l’atomo. Le politiche energetiche puzzano di cadavere, sanno di sangue rancido, emettono i suoni laceranti delle migliaia di vittime lasciate sul terreno.
Questo è il mondo visto da qui, è il mondo precipitato a casa nostra. Ma il vento non ci ha portato ancora la protesta: quella che la crisi ha spinto a farsi forte in Grecia come in Croazia, quella che periodicamente agita Parigi o Londra, quella che ha infuocato le terre di Egitto e Tunisia, di Yemen e di Siria, di Bahrein e di Algeria e di decine di altri paesi, e che in Libia ha assunto il carattere più avanzato di insurrezione armata.
E’ vero, nel caso libico vanno considerate le tradizionali divisioni tra Tripolitania e Cirenaica, e ci sono state sicuramente le spinte sotterranee dei servizi segreti inglesi, francesi, della Nato. Ma senza la misura colma, senza la rabbia repressa della popolazione, senza la voglia di farla finita con una vita da caserma, avrebbero fatto ben poco.
Il vento della rivolta vola ancora alto su di noi, come la nuvola giapponese carica di radioattività: apparentemente non ci riguarda. O almeno così vogliono farci credere. Ma le cose stanno diversamente. I padroni del Mondo che bombardano la Libia, vogliono ipotecare il futuro di quel paese per controllare – in concorrenza fra di loro – le sue risorse petrolifere. Non bombarderanno mai la Cina e la Russia per le violazioni dei diritti umani e gli eccidi in Tibet o in Cecenia o Israele per la carneficina in Palestina, o gli USA per l’ecatombe in Iraq; i banditi che governano il Pianeta sono d’accordo tra di loro e non gliene frega niente del popolo libico o di qualsiasi altro. Essi sono gli stessi padroni che da molto, troppo tempo, ipotecano la nostra vita ed il nostro futuro, ci rubano le nostre risorse, usano la nostra terra come loro base militare e come pattumiera dei loro rifiuti tossici, ci costringono a emigrare, tengono sotto sequestro la nostra libertà. Quei bombardamenti colpiscono anche noi.
Contro tutto questo anche noi dobbiamo ribellarci, rivendicare il nostro diritto a una libertà vera, e riprendercela nelle piazze. Alla globalizzazione dello sfruttamento dobbiamo rispondere con la globalizzazione delle lotte, a partire dal posto in cui viviamo.

Pippo Gurrieri

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