La questione linguistica

LA QUESTIO LINGUISTICA

COSTRUZIONE DELLA LINGUA – REPRESSIONE DELLE LINGUE

 

Un populu / mittitilu a catina / spugghiatilu /
attuppatici a vucca / è ancora libbiru.
livatici travagghiu / u passapuortu /
a tavula unni mancia / u lettu unni dormi/
È ancora libbiru.
Un populu / diventa poviru e servu /
quannu ci arrobbanu a lingua/ addutata di patri/
è persu pi sempri.
Diventa poviru e servu / quannu i paroli non figghianu paroli /
e si mancianu tra d’iddi.
Mi n’addugnu ora, / mentri accordu a chitarra du dialettu/
ca perdi na corda lu jornu.
Mentri arripezzu / a tila camuliata /
ca tisseru i nostri avi / cu lana di peculi siciliani.
E sugnu poviru: / haiu dinari / e non li pozzu spenniri /
i giuielli / e non li pozzu rigalari / u cantu /
nta gaggia / cu l’ali tagghiati.
Un poviru / c’addata nte minni strippi /
da matri putativa / chi u chiama figghiu / pi inciuria.
Nua’tri l’avevamu a matri / nni l’arrubbarru /
aveva i minni e funtani di latti /
e ci vippiru tutti / ora ci sputanu.
Nni ristò a vuci d’idda / a cadenza / a nota vascia /
du sonu e du lamentu: / chissi non nni ponnu rubari.
Nni ristò a sumigghianza, / l’annatura / i gesti /
i lampi nta l’occhi / chissi non nni ponnu rubari.
Non nni ponnu rubari / ma ristamu poveri /
e orfani u stissu.

Ignazio Buttitta

 

 

Fino al 1300 nella penisola italiana e nelle isole maggiori che le stavano attorno, un’ entità politica emanava una influenza culturale e politico-militare estesa su tutta l’area del Mediterraneo e anche nel centro e nel nord d’Europa: il regno di Sicilia. Soprattutto sotto l’imperatore Federico II di Svevia, che regnò dal 1198 al 1250, ebbe a definirsi una monarchia che unificò in parte il territorio italiano, costituì uno Stato potente e caratterizzato istituzionalmente, e si diede a una sistemazione culturale e linguistica avendo bisogno di strumenti di questo tipo per estendere la propria egemonia politica sui vari territori che controllava. La diffusione della lingua siciliana, che aveva nella Scuola Siciliana il suo fulcro, corrispondeva a questa esigenza egemonica; essa attingeva ai vari dialetti locali ma assurgeva al rango di lingua nazionale. Dopo la morte di Federico, con l’esaurirsi del tentativo di costruzione di uno Stato accentrato nel segno di una monarchia assoluta, la lingua nazionale del regno subì un progressivo declino.

Quasi nello stesso periodo riscuoteva un grande successo la più importante delle opere di Dante Alighieri: quella Divina Commedia che diverrà ben presto modello stilistico e linguistico da imitare in ogni angolo della penisola italiana e delle stesse isole maggiori. Iniziava così una nuova egemonia linguistica, quella del toscano scritto, cui si adeguava lentamente tutto il volgare del tempo, rafforzato dalle successive opere letterarie di Petrarca e Boccaccio. Nell’arco di un secolo il volgare divenne la lingua dei poeti e dei letterati, ma in mancanza di una unità politica non s’impose come lingua ufficiale delle varie entità in cui era divisa l’Italia. Molti documenti, molte leggi venivano scritte in latino, spagnolo, tedesco, francese, siciliano, veneto, napoletano, ecc. I popoli continueranno a parlare i loro idiomi per altri sei secoli, marcando una barriera pressoché insormontabile fra lingua italiana scritta (da pochi) e lingua parlata (dalle moltitudini).

 

Alla vigilia del 1861, il regno di Sardegna aveva un assetto ufficiale rigidamente bilinguistico: francese nell’area transalpina e italiano in quella cisalpina; le popolazioni tuttavia si esprimevano in franco-provenzale, in occitano, in gallo-italico e naturalmente in sardo; lo stesso inno ufficiale (Conservet Deus su re, salvet su regnu sardu) era, appunto, in sardo. Il francese era la lingua ufficiale dei Savoia e delle loro istituzioni. La sua influenza, dopo la rivoluzione francese e l’impero napoleonico, aveva contaminato lingue e idiomi di vaste aree d’Europa, e al di qua delle Alpi era forte anche fuori dei confini del regno, presso gli altri stati della penisola, e lo stesso italiano ne era condizionato. Lo statuto albertino del 1848 perciò sanciva il bilinguismo, e continuerà a garantirlo anche dopo il 1861, nell’area piemontese.

 

Con la nascita dello stato unitario, viene preso a modello lo stato francese, con i suoi codici e regolamenti, senza considerare che Francia e Italia erano due realtà estremamente diverse per storia e costituzione. Parlare anche in Italia di “una nazione, una lingua”, come in Francia, significava operare delle forzature di natura politica e culturale non irrilevanti.

La Francia, infatti, aveva completato da molto tempo quel processo di unificazione linguistica iniziato nel 1539 con l’editto di Villers-Cotterets, che aveva imposto, con un’operazione di imperialismo linguistico, il latino dell’Ile de France (Parigi) su tutte le altre parlate latine e non latine, operazione legata alle esigenze dell’avvenuta unificazione politica del paese. Diversamente in Italia il centro politico dell’unificazione, che era Torino, non possedeva una base adeguata a livello linguistico per attuare l’unificazione anche sotto questo aspetto, essendo Firenze la culla linguistica; l’italiano diventava così lo strumento necessario a consentire ai Savoia di imporsi in tutto il nuovo territorio del nuovo Stato.

Nous avons fait l’Italie; maintenant nous devons faire les italiens, disse Cavour, che si esprimeva prevalentemente in francese.

Ma l’italiano, con l’eccezione della Toscana e di Roma, era sostanzialmente una lingua morta, utilizzata in letteratura e sconosciuta alla stragrande maggioranza della popolazione.

 

Le posizioni federaliste espresse da Pisacane e poi da Bakunin, da non pochi mazziniani, le idee di Cattaneo o quelle del siciliano Michele Amari, che vedevano un’Italia unificata ma non centralizzata, repubblicana e non monarchica, federazione di nazioni e di popoli e non stato centralista, stentano a farsi strada, e l’infatuazione risorgimentale fa il gioco della casa regnante che impone il suo modello “francese” schiacciando ogni esigenza e rivendicazione di autonomia proveniente dalle varie regioni man mano annesse.

 

Comincia così un lungo percorso di italianizzazione forzata. Italia è tutto ciò che sta al di qua delle Alpi; così la pensano gli strateghi di Casa Savoia, che avevano già sacrificato alla loro politica espansionistica la Savoia e Nizza, cedute l’anno prima alla Francia in cambio dell’appoggio politico e militare alle guerre dette d’indipendenza.

A cominciare dalle valli alpine dei due versanti, dove parlate e cultura, economia e costumi non conoscevano limiti frontalieri, vengono definite caratteristiche linguistiche calate dall’alto ed il bilinguismo ancora in vigore nell’area piemontese viene lentamente scoraggiato e negato per imporre, nello stesso Piemonte, una spiemontesizzazione linguistica dai non pochi riflessi politici interni, protesa a mostrare all’esterno un volto del regime non da conquistatore ma da unificatore.

 

Il censimento del 1861 si limita a conteggiare l’esistenza di minoranze linguistiche albanesi (42.113), catalane (7.036), greche (20.268), tedesche (3.649), senza prevederne alcuna tutela, riservata ancora solo ai ”francesi”; croati, franco-provenzali, sardi e occitani non vengono censiti come minoranze linguistiche, alcuni essendo considerati francesi ed altri italiani, anche per i limiti della stessa glottologia dell’epoca. La popolazione del nuovo regno, comunque non parla, anzi disconosce, l’italiano; il 78% è analfabeta. Per italianizzare questa massa non bastano leggi e decreti, occorrono scuole e maestri, che la nuova Italia non possiede. L’Accademia della Crusca avrà pronto il primo volume del dizionario di italiano nel 1863, ma nel 1923 si era ancora alla lettera “O”. Lo sforzo di costruire un identità nazionale cozza con l’assenza di una lingua nazionale.

Il problema si aggrava dopo il 1866. Si viene a precisare il carattere del regno sabaudo di Stato occupante il Sud, con la repressione dei moti insurrezionali di Palermo e la guerra al brigantaggio nell’Italia meridionale; mentre entrano a far parte del nuovo Stato, in seguito alla conquista delle loro regioni, popolazioni linguisticamente non latine abitanti il Veneto e il Friuli, precisamene tedesche e slovene, alle quali, assieme ai friulani, bisogna imporre/insegnare una lingua straniera: l’italiano. In vista del plebiscito-farsa di annessione, gli sloveni vengono allettati con promesse di scuole gratuite che avrebbero mantenuto l’insegnamento della lingua nazionale, come già avveniva sotto l’Austria; poi, una volta comprato il loro consenso, già due giorni dopo la vittoria nel plebiscito vengono impartite precise istruzioni prefettizie per l’italianizzazione forzata di quelle zone. “L’Italia è una: ha un’unica religione, un’unica lingua, una patria sola” dice Alfonso La Marmora, presidente del consiglio e capo dell’esercito nella III guerra d’indipendenza.

Rimane solo il servizio militare a rappresentare l’opportunità più spicciola per costringere una parte degli abitanti ad abbandonare il dialetto o le lingue non italiane, in conseguenza dello spostamento di centinaia di migliaia di giovani verso le regioni più lontane, mescolandoli fra di loro, con l’unica possibilità, per comprendersi, di cominciare ad arrangiarsi in italiano.

 

La colonizzazione linguistica andrà avanti nei decenni successivi con grandi difficoltà, causa il permanere dell’analfabetismo a livelli altissimi, ma anche per le resistenze delle minoranze linguistiche e la grande vivacità delle parlate dialettali L’italiano era e rimane la lingua della classe egemone, contrapposta alle lingue della classe subalterna, così che quella linguistica si caratterizza come una delle tante divisioni sociali fra le classi.

L’esistenza di isole linguistiche sparse per il paese non crea, comunque, problemi seri, perché quelle minoranze vengono considerate a tutti gli effetti “italiane di diversa madrelingua”. Gli albanesi, una delle comunità più grosse sparse in tutto il meridione e la Sicilia, dov’erano approdate già da secoli in seguito all’invasione turca della loro terra, tutt’al più tentava all’inizio del secolo di organizzare “comitati” per promuovere la liberazione della madre patria Albania dalla dominazione turca, ma rispetto allo Stato e al Governo italiani non nutrono particolare avversione.

 

Ma dopo la fine della prima guerra mondiale le cose cambiano con le annessioni del Sud Tirolo e del Trentino, che fanno confluire nell’italico regno popolazioni chiaramente non italiane, verso le quali lo Stato inizierà una pesante opera di colonizzazione linguistica, collegata ad una campagna patriottica esasperata volta a trasformare agli occhi dell’opinione pubblica, quelle terre in “suoli sacri alla Patria”, per i quali erano morti migliaia di italiani. Infatti le idee e gli alibi del Risorgimento, tutti tesi alla ricomposizione dell’unità dei popoli italiani, non possono giustificare la conquista di territori non italiani, e questo crea grandi contraddizioni e disaccordi perfino in una sinistra abbastanza alleata delle politiche governative in tema di cose belliche.

Così diventano “italiani” i tedeschi del Sud-Tirolo e di alcune valli trentine e friulane, i ladini delle Dolomiti, i friulani dell’est, gli sloveni sparsi in diverse aree attorno a Gorizia e Trieste, i croati e i romeni dell’Istria. Tuttavia per agevolare la diffusione dell’italiano è ancora necessario lasciarvi aperte le scuole e dotarle di libri di testo nella loro lingua, perché si possa più facilmente transitare verso la nuova.

Il censimento del 1921 fotografa un’Italia in cui 800.000 cittadini parlano ufficialmente un’altra lingua; fra essi non sono conteggiati i sardi, i ladini del Friuli, gli occitani, tutti considerati italiani.

 

Alla fine del 1922 viene varata la Riforma Gentile, influenzata dal pensiero di Lombardo Radice, che affronta la questione linguistica secondo il metodo “dal dialetto alla lingua” riferito all’insegnamento primario. Ad influenzare la riforma è anche l’opera del maggior dialettologo italiano, Graziadio Isaia Ascoli, secondo il quale essere bilingui equivale a godere di una condizione privilegiata e più adatta allo sviluppo dell’intelligenza nei bambini. In realtà essa prevede una strumentale protezione dei dialetti quale base imprescindibile per l’insegnamento dell’italiano; in pratica, l’iniziale difesa del dialetto nella scuola, che fa illudere non pochi difensori delle culture locali, è solo funzionale alla sua distruzione. Ma tre anni dopo, il 22 novembre del 1925, il fascismo, con la legge n. 2191, sopprime definitivamente l’insegnamento di tutte le lingue minoritarie e dei dialetti.

Comincia un altra era di italianizzazione forzata e violenta che impone la modifica di nomi, cognomi, toponimi; sud-tirolesi, croati, sloveni, valdostani sono oggetto di campagne particolarmente aggressive, vengono bruciati i centri di cultura delle minoranze linguistiche (sui tram di Trieste cartelli intimano il divieto di sputare per terra e parlare sloveno); si esaspera l’invio in terre lontane dei giovani di leva, si pianifica l’immigrazione forzata di popolazioni italofone in questi territori per snaturarli linguisticamente. Si intende colpire non solo la parlata, ma anche la coscienza etnica di questi popoli. Un accordo tra Mussolini e Hitler pone i sud-tirolesi di fronte all’aut-aut: o mantenere la propria lingua e abbandonare la propria terra, o rinunciare alla propria appartenenza etnica e potervi rimanere.

Quello iniziato nel 1861, si profila sempre più come un vero e proprio genocidio culturale.

 

La resistenza antifascista, che nelle isole linguistiche del nord Italia è particolarmente vivace, non trascura l’aspetto etnico. Con la dichiarazione di Chivasso del 19 dicembre 1943, sei rappresentanti delle vallate alpine insorte definiscono una rivendicazione di carattere autonomista e federalista per il nuovo stato post-fascista, in cui siano rispettate le tradizioni culturali e le lingue delle popolazioni alpine, divise da confini artificiali, mentre quelli naturali non hanno mai ostacolato la loro caratteristica etnica né le loro abitudini comunitarie. Eccone alcuni passaggi importanti: “a) la libertà di lingua come quella di culto è condizione essenziale per la salvaguardia della personalità umana; b) il federalismo è il quadro più adatto a fornire le garanzie di questo diritto individuale e collettivo e rappresenta la soluzione del problema delle piccole nazionalità e la definitiva liquidazione del fenomeno storico degli irredentismi, garantendo nel futuro assetto europeo, l’avvento di una pace stabile e duratura; c) un regime federale repubblicano a base regionale e cantonale è l’unica garanzia contro un ritorno alla dittatura, la quale trovò nello stato monarchico accentrato italiano lo strumento già pronto per il proprio predominio sul paese (…)”.

 

Subito dopo la fine della guerra le istanze autonomistiche in alcuni territori pongono la questione della salvaguardia identitaria in maniera forte, anche se differente da località a località. La Valle d’Aosta, ad esempio, minaccia di richiedere l’annessione alla Francia, e viene tacitata ancor prima della Costituente, con la concessione dello statuto d’autonomia, che oltre a prevedere una serie di privilegi economici e amministrativi, ne salvaguarda le peculiarità culturali e linguistiche. La Sicilia, dove il Movimento per l’Indipendenza gode di consensi molto ampi e organizza anche un suo braccio armato – l’EVIS – viene accontentata divenendo regione a statuto speciale; seguiranno nel tempo la Sardegna, il Friuli Venezia Giulia, Il Trentino-Alto Adige, le province autonome di Trento e Bolzano.

 

Ma è l’Assemblea costituente, che inizia a riunirsi dal 25 giugno del 1946, ad affrontare la questione delle minoranze linguistiche, affidandola ad una sottocommissione presieduta dall’on. Lucio Luzzatto, la quale individua una fetta di popolazione, composta all’incirca da 150.000 persone, da porre sotto la tutela della futura costituzione: si tratta di comunità di albanesi, croati, greci, walser (tedeschi), cimbri mòcheni, carinziani, catalani. Tutte realtà alloglotte che mai hanno posto in essere rivendicazioni di tipo nazionalistico, cui viene concesso lo status del bilinguismo. Poi si individua una popolazione più vasta, di centinaia di migliaia di persone, che, al contrario delle prime, avevano rivendicato la propria libertà linguistica e culturale e avevano pagato per questo un caro prezzo al fascismo: valdostani (definiti impropriamente francesi), valdesi (definiti anch’essi impropriamente francesi, in realtà occitani), sudtirolesi, ladini dolomitici, sloveni del confine orientale. Per essi il nuovo stato deve garantire un riconoscimento nazionale e uno sviluppo rispettoso delle loro peculiarità storiche, culturali e linguistiche, risarcendoli dei soprusi subiti durante il fascismo attraverso la concessione di una vasta autonomia amministrativa.

L’articolo 2 della Costituzione, approvata nel 1948, genericamente affermerà che “La repubblica garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nella formazione sociale ove svolge la sua personalità (…)”, mentre l’articolo 3 preciserà che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Ma sarà l’articolo 6 che seccamente dichiarerà che “La repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”.

Nonostante i dettami costituzionali parlino chiaro, essi sono rimasti, come tantissimi altri articoli della Costituzione, parzialmente o totalmente inattuati, e verso le minoranze linguistiche sono rimaste in atto, per decenni, politiche di discriminazione e di rifiuto. Solo quelle comunità all’interno delle quali si sono sviluppati movimenti di forte contestazione verso lo Stato italiano, come il Sud-Tirolo, hanno indotto il governo a fare delle concessioni. Questo concetto è condensato in una lettera del ministro Pastore, inviata nel 1962 a Gustavo Buratti, latore di una petizione firmata da sindaci e amministratori delle comunità tedesce del Piemonte con la quale veniva richiesto il ripristino del bilinguismo in vigore prima del 1915: “La concessione di una seconda lingua oltre quella materna (sic!) è stata finora accordata esclusivamente a quelle regioni a statuto speciale che potevano rappresentare nell’immediato dopoguerra una grave minaccia per l’integrità dello stato”. (si noti la confusione tra lingua madre e italiano).

Sloveni, ladini, walser, occitani si vengono così a trovare senza tutela, oppure tutelati a macchia di leopardo e a secondo del territorio amministrativo sotto cui cadevano i comuni. La battaglia di queste realtà non è praticamene mai cessata e le cronache degli ultimi decenni sono piene di atti, azioni, processi, legati al tentativo di affermare il diritto a parlare in pubblico ora in sardo ora in sloveno.

 

Ma lasciando da parte le minoranze linguistiche, cosa accade alla restante parte del popolo italiano? Ancora in larga parte analfabeta, continua a servirsi della propria lingua o dialetto per comunicare, riservando l’italiano, lingua artificiale, alle occasioni ufficiali.

Tuttavia lo sviluppo dell’emigrazione dal meridione e dalle isole verso il nord Italia ha lentamente imposto l’utilizzo dell’italiano quale strumento comunicativo tra le diverse realtà che si incontrano. Matrimoni misti, trascorrere del tempo, nuove generazioni, faranno affievolire lentamente l’uso dei dialetti, aggrediti ancor più dallo sviluppo di radio, televisione, pubblicità.

 

E giunti a questo punto bisogna fare delle considerazioni generali.

In primo luogo la distinzione tra lingua e dialetto è artificiosa e arbitraria, potremmo aggiungere anche “politica”. Spesso lo stesso idioma viene considerato dialetto in una zona e lingua in un altra (ad esempio il dialetto gallego in Spagna è la lingua portoghese in Portogallo, o l’olandese che nelle Fiandre francesi è dialetto, o il ladino, lingua ufficiale nel Canton dei Grigioni svizzero è dialetto nelle valli dolomitiche, ecc.).

Ancora oggi l’accanita lotta contro i dialetti non è finita, nonostante certi spunti presenti all’interno del mondo dell’istruzione, e nonostante il leghismo, che si è arrogato la difesa di una presunta cultura “padana” impregnata di contenuti antisolidaristici e razzisti, avvelenando quanto di positivo e costruttivo c’era nella resistenza linguistica.

 

Certamente non possono esistere una lingua o un dialetto puri, poiché sarebbero destinati a morire di sterilità; una difesa ad oltranza di una tale purezza diventa reazionaria e conservatrice. Ogni lingua è il prodotto di interferenze, mescolamenti, stratificazioni che ne sostanziano la ricchezza e la vitalità, proiettandola verso un cammino dinamico soggetto a continui mutamenti ed evoluzioni. Nell’incrocio fra le lingue, “le parole figliano parole” (Buttitta) e in questo parto ogni sterilità viene ad essere annullata.

Degradare una lingua o un dialetto al rango di serie B, o a elemento di folklore, vuol dire ucciderla, e disarmare così i produttori di tale strumento, che si verranno a trovare con un’arma caricata a salve, inservibile e ridicola. E i produttori sono “i poveri”, come scrivevano anche i ragazzi della scuola di Barbiana. E il linguaggio del popolo è sempre un linguaggio contro. Non è solo questione di quantità nel discorso fra le classi (della serie: Il padrone conosce 1000 parole, l’operaio 300, per questo lui è il padrone); la quantità è importante se si considera come accumulazione di informazioni e di cultura; è però anche un discorso di qualità, di particolarità: l’operaio non può e non deve parlare utilizzando le parole del padrone, perché non sono le sue, perché così facendo ha perso in partenza, perché da produttore attivo si viene a trasformare in consumatore passivo di una merce tossica.

 

La lingua non è neutrale. Come la storia della lingua italiana c’insegna, essa è nata come lingua delle classi dominanti, dei funzionari, e si è man mano affermata a scapito dei dialetti e delle lingue minoritarie, che invece erano (e sono) l’espressione delle civiltà contadine e subalterne in genere. Il fenomeno è stato definito dal sociolinguista della Sorbona Louis-Jean Calvet, glottofagia, cioè quando una lingua ne mangia un’altra, o per dirla con il nostro Buttitta dell’inizio “quannu i paroli si mancianu tra d’iddi” (quando le parole si mangiano tra di loro).

E quando una lingua ne divora un’altra quello che sta avvenendo non è soltanto un fenomeno di colonialismo linguistico, ma spesso un lento e inesorabile genocidio culturale, dietro il quale si nasconde l’obiettivo di annichilire le facoltà di un popolo di essere se stesso e di possedere strumenti di riflessione e comunicazione altri da quelli del potere.

Dietro queste operazioni, ovunque nel mondo, vi sono sempre strategie del capitale di assoggettamento delle classi subalterne, spogliandole della loro identità ed appiattendole sul proprio terreno linguistico-culturale: infatti dietro ogni lingua ufficiale vi è sempre il modello ideologico della classe dominante.

Pasolini assimilava questo all’avanzata del consumismo e gli dava – nel 1975! – un nome: nuovo fascismo. Quanto il processo si sia accelerato in questi 36 anni lo abbiamo tutti sotto gli occhi, e al colonialismo dell’italiano verso i dialetti e le lingue minoritarie è subentrato anche un imperialismo linguistico inglese verso l’italiano, che ha fatto sprofondare ancora più giù, verso una lenta rottamazione, il linguaggio del popolo. Nell’epoca della globalizzazione, la diffusione di lingue come l’inglese, mentre permette una comunicazione planetaria, si fa veicolo della cultura e degli interessi dei padroni del mondo. In quanto calata dall’alto, questa operazione apparentemente semplifica le relazioni fra i popoli, mentre di fatto ne annienta diversità e ricchezze.

Il neofascismo linguistico, cugino stretto dell’orwelliana “neolingua”, è oggi una realtà sempre più diffusa grazie anche alle nuove tecnologie informatiche, che tentano di completare l’opera di espropriazione della facoltà da parte degli oppressi di coniare propri strumenti di espressione, riflessione e comunicazione. Ma anche di autogestione contro il potere. Difenderli dall’annientamento è farne strumento di resistenza.

Perché non ha senso una proposta di autogestione, di decentralizzazione, di autonomia economica e sociale, se non è anche una proposta di autonomia culturale e linguistica.

La domanda finale non può che essere: attraverso quali strumenti dal basso i popoli potranno comunicare fra di loro in maniera antiautoritaria, in uno spirito internazionalista e tenendo conto dello sviluppo delle nuove tecnologie?

 

Pippo Gurrieri

Ragusa, 20 maggio 2011

 

Per la stesura di questo testo mi sono stati utili i seguenti saggi:

  • Sergio Salvi, Le lingue tagliate – Storia delle minoranze linguistiche in Italia. Rizzoli, 1973.
  • Giovanni Pirodda, Il sardo, l’italiano e l’educazione linguistica. In “La grotta della vipera”, a.I, n.3, Cagliari, autunno 1975.
  • Pippo Gurrieri, Per un dibattito sulla questione linguistica. In “Sicilia libertaria”, a.III, n.10, Ragusa, ottobre 1979.
  • Gustavo Buratti, Nazioni proibite e glottofagia. In “Etnie”, a.V, n.8, Milano, 1984.
  • Tullio De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita. Laterza, ultima edizione 2011.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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