Il decennio infame

11 settembre 2001/2011

IL DECENNIO INFAME

Dall’11 settembre 2001 ad oggi, sventola sul mondo il vessillo del capitale su cui campeggiano due parole: energia – guerra.
L’attacco alle torri gemelle, pilotato, pianificato, o anche semplicemente subito dagli Usa, ha rappresentato l’alibi cinico per scatenare un nuovo periodo di predazione delle fonti energetiche mondiali, dall’Afghanistan, strategico per i gasdotti dall’ex Unione Sovietica, all’Iraq ubriaco di petrolio. Ma non è stata, come erroneamente previsto, una passeggiata.
Tutti gli stati occidentali più Onu e Chiesa cattolica, hanno issato la stessa bandiera e aiutato il capitale guerrafondaio a mascherarsi dietro una pseudo missione umanitaria: liberare il Mondo dal terrorismo islamico.
La guerra, “giusta”, “santa”, “umanitaria”, ha distrutto vite umane, territori, economie, ha condizionato le politiche internazionali: la povertà e la miseria di miliardi di persone; la siccità, la mancanza di cibo e acqua, la mancanza di libertà, sono passati in secondo piano. La guerra infinita ha sacrificato la Palestina, ha permesso a potenze come la Russia (vedi Cecenia) o come la Cina con le sue province ribelli, di gestire i propri problemi “interni” con le maniere forti. E’ rinato un clima da “guerra fredda” in cui ognuno, dentro il proprio “cortile”, gode della massima libertà di genocidio e di terrorismo di Stato, di tortura, e di impunità.
Sono stati10 anni di bagordi per l’industria bellica mondiale; di risorse sprecate in guerre di cui non si vede la fine, ma, visti i fallimenti delle strategie predatorie rapide, alla fine del decennio infame c’è stato bisogno di pianificare altri conflitti, di fomentare rivolte come quelle del Maghreb, dove il ruolo dei servizi segreti Usa e occidentali non è più un mistero, e di lanciare una nuova guerra in Libia, per stabilizzare il flusso dei rifornimenti energetici verso il “mondo civile”, rovesciando regimi considerati amici fino a ieri. Adesso, risolta la questione libica, rifatti i contratti petroliferi, a chi tooccherà? Forse al Venezuela, altra area petrolifera che si presta molto ad una nuova guerra per i “umanitaria”, per liberare il “popolo” da una dittatura.
Di questa politica ne abbiamo fatte le spese tutti; se ufficialmente dal 2008 i mercati hanno cominciato a vacillare e gli stati li hanno salvati con trasfusioni di capitali, nessuno ha fatto i conti dei costi di questo decennio di militarizzazione; l’Italia e la Sicilia ne sono la prova, da Vicenza a Sigonella, passando per Bari, Trapani, Napoli, gli investimenti per il rafforzamento delle basi Usa e Nato, per partecipare alle guerre, sono stati ingentissimi, e le servitù militari di oggi sono molto più forti, perché attuate anche con sistemi sofisticati che spesso esulano dalla semplice occupazionne fisica del territorio.
E’ molto difficile rispondere a questa strategia di fuoco e di menzogne; le resistenze afghana e irachena ne sono la prova: sulle macerie di questi due stati, qualora dovesse sorgere un nuovo paese, esso si porterà dietro ferite enormi, e l’integralismo quale sola medicina per sanarle. Lo stiamo già vedendo in Libia, dove un nuovo regime sorge dalle ceneri del vecchio, fatto di vecchi complici del regime decaduto asserviti al capitale multinazionalle.
Fino ad ora si sono scaricate le contraddizioni del sistema sulle classi più deboli, interne o esterne agli stati occidentali e alle potenze mondiali (Cina, Giappone, India, Russia comprese). Ma fino a quando il gioco al massacro potrà continuare? La pirateria internazionale degli stati contiene elementi di debolezza e di difficoltà che, se colti per il giusto verso, potrebbero fare intavvedere qualche spiraglio di luce oltre il buio profondo in cui il mondo sembra ricacciato. Agli alibi umanitari crede sempre meno gente. E c’è un mondo di sottomessi che, dal Maghreb al Medio Oriente, dall’America Latina a quella Centrale, dall’Africa dimenticata all’Asia, alle periferie delle metropoli dell’impero, ribolle, scende in piazza, si organizza, lotta, insorge, e probabilmente costringerà i signori del mondo a scatenare l’ultima guerra, quella degli sfruttatori contro gli sfruttati. Allora cadranno gli alibi, le coperture, le menzogne, e la posta in gioco sarà la libertà degli schiavi.

Pippo Gurrieri

 
Crisi. Parola magica, usata a più non posso da molti anni per indicare uno stato di difficoltà della società e dell’economia. Ma il suo significato puramente ideologico servi a inculcare concetti come:”siamo tutti sulla stessa barca”, o “la società attraversa un brutto momento”, o “tutti rischiamo qualcosa”, eccetera.
Ma forse prima, quando non c’era la crisi, “eravamo tutti sulla stessa barca”, “attraversavamo tutti un buon momento”, “le cose andavano bene per tutti”?. No: prendiamo la metafora della famosa barca – la cantava Giorgio Gaber quarant’anni fa; per renderla più credibile, adesso Tremonti l’ha descritta come il Titanic, ovvero: stavolta possiamo finir male tutti. Sopra, in prima classe, ci stanno i ricchi a gozzovigliare e puttaneggiare, a spassarsela e sperperare; di poco sotto, i loro collaboratori a controllarre – ben pagati – che l’organizzazione proceda efficiente e senza problemi; quindi ancora più giù, tutti gli addetti a far marciare il natante: operai, marinai, dirigenti, ufficiali, semplici manovali, e sbirri, che dopo il lavoro se ne tornano nei loro ambienti dignitosi a godersi lo stipendio e la loro piccola fetta di privilegi. Infine, sotto, nella stiva, in terza classe, come si diceva una volta, il mondo dei precari, dei senza lavoro, dei senza futuro, dei migranti, dei poveri, ammucchiati in maniera indecorosa, senza diritti e senza quel minimo di servizi essenziali, a vomitarsi addosso e a imprecare, magari a elemosinare i resti delle mense dei piani superiori.
In realtà, la crisi per la stragrande maggioranza della popolazione, è compagna di viaggio di una vita; è dramma conosciuto. E quando ministri super abbronzati o marcegaglie in ghingheri, vengono a spiegarci le ricette per uscire dalla crisi, è chiaro di cosa stanno parlando: i poveri, i precari, i lavoratori, i pensionati, devono ancora pagare, devono ancora stringere la cinghia, devono sforzarsi di salvare il sistema, ovvvero i privilegi della classe al potere.
Sì, c’è stato il crollo delle borse; c’è stata la crisi degli stati, indebitati fino al collo con le banche internazionali e sempre più vicini a livelli di insolvenza. Ma mentre tutto questo si verificava, i capitali giostravano nel vortice della finanza allegra e spensierata, cambiavano di tasca, affossavano territori, imprese, posti di lavoro, e arricchivano pescecani vecchi e nuovi. A volte questi si sbranano fra loro, ma è una vecchia legge del profitto e dell’accumulazione capitalistica. Perché poi, quando c’è da azzannare la preda proletaria, si mettono tutti d’accordo e sono lacrime e sangue.
La crisi. Ancora una volta non è la nostra crisi, non è quella che conosciamo in quanto subalterni, in quanto classe di oppressi. E’ la loro crisi, sono i loro imbrogli, i loro mercati, i loro sistemi monetari, i loro PIL, le loro banche. E’ una crisi di classe, un momento di assestamento ai vertici del potere economico-finanziario, spacciato come “di tutti”, per uscire dal quale “tutti” dobbiamo pagare. E si puntano gli occhi (e i grilletti) sui pensionati, sui lavoratori, sui giovani, sulle amministrazioni locali, sul welfare, sui diritti acquisiti, conquistati con anni di battaglie e di sacrifici. E si varano manovre di rapina convinti che tanto il “popolaccio” ingoierà anche questro rospo, brontolerà per un po’, farà qualche sciopero generale, magari in qualche località oserà di più facendo le barricate e bruciando qualche copertone, ma poi alla fine verrà lentamente cloroformizzato dal sistema di controllo di massa, dalle tv, dai ricatti, dalle promesse, dall’azione delle burocrazie politico-sindacali, dal “pacifisno” cattolico. Alla fine dimenticherà anche questo, fra una partita di pallone e un festival di sanremo, tra un omicidio di paese e un grande fratello, fino alla prossima rapina statale.
Così va avanti da anni. Anni in cui i ricchi hanno accumulato fior di fortune, hanno comprato e scialato, mentre tutti gli altri hanno perso la speranza nel futuro e si sono visti rubare anche il passato, ovvero le loro vecchie conquiste, pur sancite da leggi e contratti.
Adesso cercano di far quadrare i conti, ma sempre in un verso: libertà di licenziare, nuovi tickets sanitari, aumento dei carburanti, blocco delle liquidazioni, aumento dell’età pensionabile, demolizione della contrattazione nazionale. Non si toccano i privilegi della chiesa, d’altronde utile strumento di rincoglionimento di massa, eppure sono oltre 9 miliardi di euro l’anno quelli che lo Stato concede alla santa casta sottraendoli ai contribuenti, ai cittadini (credenti e non credenti), agli enti locali. La chiesa che non paga l’ICI ed è la più importantte proprietaria immobiliare dopo lo Stato. Non si toccano le spese militari: l’acquisto dei cacciabombardieri F 35 costa da solo 16 miliardi, le missioni hanno dissanguato il paese; e ci stanno costando 3.600 euro al minuto, 4 milioni di euro al giorno (moltiplicando gli anni della loro durata si può quantificare lo sperpero). Si finge di toccare i privilegi della politica; si gioca a imbrogliar la gente con finti provvedimenti contro l’evasione fiscale (dopo che il regime l’ha incoraggiata, protetta e legalizzata, garantendo un furto da 120 miliardi l’anno). Ma finchè ci sarà un solo povero che possederà un centesimo, l’attenzione dei “salvatori” del paese sarà tutta rivolta a fottere quel centesimo a quel povero.
L’opposizione che ha garantito il sistema ora si candida a succedere al governo moribondo: missioni militari, guerre, soldi ed esenzioni fiscali alla chiesa, riforme delle pensioni, precarietà lavorativa, privilegi alla casta politica, grandi opere, corruzione diffusa, sono le prove della sua “diversità”.
Non ci interessa una missione di guerra, in Libano o in Libia, in Iraq o in Afghanistan, che costi di meno. Non ci interessa una chiesa che succhi meno denaro dalle casse pubbliche. Non ci interessa una casta politica meno parassitaria. Non ci interessa un ricco che paghi qualche tassa in più. Non ci interessa una banca che rubi di meno. Al punto in cui hanno spinto la situazione, ce ne possiamo uscire solo con un forte shock sociale. E’ ora di finirla con le moderazioni e le finte lotte, con gli obiettivi “realistici”, con le lotte prevedibili, ritualistiche, compatibili.
Oggi è il momento di rompere le compatibilità, di guardare al fondo delle cose, dal buio del tunnel in cui ci hanno cacciati. Diceva un compagno che chi è al buio vede pià chiaro. E allora bisogna approfittare di questa possibilità.
Di ricchi, privilegiati, ladroni, corruttori, è pieno il nostro ambiente: vivono attorno a noi, operano in mezzo a noi; il loro sistema per funzionare ha bisogno di incunearsi nei nostri quartieri, nelle nostre vite. Siamo circondati dalle loro malefatte, dalle loro prepotenze, dall’effetto e dall’oggetto dei loro furti. Vicino a noi ci sono le sedi ufficiali, le istituzioni, gli uffici, i santuari in cui questi animali amano vivere. Facciamo che questi ambienti diventino una volta per tutte invivibili a lorsignori; facciamoli diventare gli obiettivi della nostra rabbia. Il potere non è solo a Roma, o nelle sedi sfuggenti delle multinazionalli; esso è accanto a noi, i suoi tentacoli ci sfiorano ogni giorno; i suoi strumenti convivono con noi nelle città, nei paesi, nei quartieri, e persino dentro le nostre case. Cosa aspettiamo a scardinarli? Cos’altro dobbiamo attendere, che decretino la schiavitù permanente, il commercio degli schiavi, che ci diano in pasto ai leoni? Oppure che un altro Spartaco alzi la testa e guidi alla rivolta i nuovi schiavi?
L’insurrezione delle coscienze è alla nostra portata; indignazione e umiliazioni ne possono essere il motore; proviamo una volta tanto a fare cagare addosso i padroni e i loro compari. Scopriremo il gusto vero della lotta, la gioia della solidarietà, la soddisfazione della rivalsa, il piacere di avere osato, l’odore ammaliante dell’utopia che cresce dentro e attorno a noi.

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