Rivoluzione e reazione

La parola rivoluzione è grossa se riferita ai fatti di Sicilia; forse è più corretto associare le centinaia e centinaia di blocchi stradali ad un inizio di stato di insorgenza.
L’azione diretta può far maturare un sedimento di autogestione in corso d’opera, ma può accadere che le rivolte pieghino verso qualcosa d’ignoto: qualcosa che si sa come comincia ma non si sa come finisce. A dire il vero, anche quando si possiede un progetto autogestionario si può non sapere come finisce, ma in questo caso ci si gioca la possibilità di provocare il mutamento auspicato; se poi a causa dei rapporti di forza, di errori o tradimenti, dovesse finir male, si può sempre riprovare. Ma quando si marcia senza un progetto, le motivazioni giuste non sono sufficienti a scansare il rischio di portare acqua al mulino di chi tenta di usare e incanalare le lotte. Questi sì che sanno dove farle finire.
Dai movimenti siciliani di queste settimane è emersa la disponibilità di una importante fetta di popolazione a rompere gli argini della passività; quando un popolo scende in piazza per difendere i propri diritti è sempre un fatto rilevante; il mix tra obiettivi spiccioli e rivendicazioni generali (giustizia, libertà, autonomia) ci consegna un dato di fatto: la presa di coscienza che solo la lotta paga. Questo è un terreno importante per i rivoluzionari; questo è il nostro posto.
Sappiamo anche che non è importante solo per noi, e che non è un posto solo per noi; molti sono gli occhi puntati sugli eventi, molti coloro che in questi casi pescano nel torbido; molte le regìe architettate o solo tentate, per canalizzare le proteste verso fini che nulla hanno a che vedere con le richieste e le esigenze di chi lotta. A maggior ragione, però, questo dev’essere il nostro posto.
Nella storia siciliana recente queste dinamiche si sono manifestate continuamente: i moti del “non si parte” del dicembre del 1944-gennaio 1945 videro all’inizio gli elementi fascisti mobilitati nel sobillare e cercare di pilotare gli eventi; che invece andarono oltre e li scavalcarono. La sinistra dell’epoca, in particolare il partito comunista, bollò l’insurrezione come “rigurgito reazionario e fascista” e dove potette, si organizzò per sabotarla. Gli anarchici e i rivoluzionari, invece, si ci tuffarono dentro (o ne furono in parte artefici) ritenendo centrale e prioritaria la volontà del popolo di non subire un’altra guerra; la base dei partiti di sinistra nella maggior parte dei casi prese parte all’insurrezione sconfessando le direttive dei vertici. I conti con i fascisti vennero regolati sul campo.
Nel 1980 la provincia di Catania fu interessata da una serie di assalti e incendi di municipi in seguito a rivolte popolari municipali per la mancanza di acqua, scoppiate a Palagonia, Ramacca, Castel di Judica; rivolte non catalogabili secondo canoni ideologici, ma esplosioni di rabbia diffusa, rottura degli argini della mediazione, grande determinazione di intere popolazioni a conseguire un obiettivo immediato. Nei primi mesi del 1986 esplose la lotta degli abusivi per necessità, forse la più simile per caratteristiche, metodi e coinvolgimenti, all’attuale, con mille sfumature diverse da zona a zona; confluirono nella rivendicazione specifica della sanatoria e nel rifiuto di pagare l’oblazione allo Stato, motivi generali, come anche interessi diversi in un’apparente unità impossibile, tanto che dal continente fu vista come una fiammata indipendentista contro lo Stato centralista italiano.
La lotta di questi giorni ha scoperchiato una pentola a pressione; gli effetti dell’esplosione possono continuare a lungo e travolgere anche assetti politici ritenuti consolidati. Superata la prima fase, i partiti si rifanno vivi e i ruoli dei vari leaders vengono allo scoperto; gli sbocchi istituzionali, i fini elettorali o gli pseudo antagonismi reazionari e conservatori si sono rimessi in moto; ma il fuoco cova sotto la cenere; la scommessa è farlo divampare e indirizzare le sue fiamme intanto contro i pompieri travestiti da incendiari.
Il nostro compito è quello di agire, come lavoratori, disoccupati, precari, artigiani, pensionati, tra la gente e da quella posizione rintuzzare ogni provocazione e provare a spostare sul terreno della progettualità autogestionaria frange sempre crescenti di malcontento diffuso. Progettualità e metodo sono necessari al movimento per continuare; ma non si possono calare dall’alto; solo in mezzo al popolo che lotta è possibile individuare e comprendere quali siano le trappole da schivare. Ognuno si scelga le modalità più adatte alla propria zona, alla propria esperienza, alla propria collocazione sociale, ma con una strategia e degli obiettivi chiari tendenti a far prevalere l’autonomia del movimento per la conquista del vero cambiamento.

Pippo Gurrieri

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