Di che colore sono i movimenti?

Detrattori interessati, falsi ingenui, attivisti in malafede e infiltrati non perdono tempo a bersagliare con insinuazioni, accuse, sospetti tendenti a screditarlo e a boicottarlo, ogni nuovo movimento apparso sulla scena sociale del paese. A volte gli prestano il fianco anche attivisti e simpatizzanti in buona fede cadendo nella trappola dei discorsi sulle strumentalizzazioni, la mancanza di democrazia, la linea a senso unico. Infine, arrivano gli extraterrestri, un tempo extraparlamentari di sinistra, con le loro sparate nelle assemblee per dare sfogo al loro protagonismo frustrato coi toni da professori che hanno capito tutto e devono dare lezioni a questi sprovveduti.

Una cosa è certa: se un movimento riesce a superare l’alito letale dei tanti che si “preoccupano” di lui, avrà acquisito gli anticorpi necessari a portare sino in fondo la propria battaglia.

I movimenti esistenti in giro per l’Italia (e, ovviamente, non solo per l’Italia), impegnati sui temi più disparati, dai NO TAV ai NO Mose di Venezia, dai NO Dal Molin di Vicenza ai No Radar sardi, ai NO MUOS siciliani, a tutti quelli protagonisti di battaglie su salute, nocività, ambiente, lavoro, vivibilità di quartieri e paesi, esistono per contestare decisioni calate dall’alto sulla testa dei diretti interessati; rifiutano le scelte devastanti di governi, regioni, enti locali, forze armate, multinazionali, padroni, ecc., consapevoli che senza una scesa nel campo di battaglia di quanti subiscono tali imposizioni, non v’è alcuna speranza che politici, sindacati, amministratori o imprese possano mutare posizione. Spezzoni di società, comunità, cittadini, si riappropriano della facoltà di poter dire l’ultima parola su scelte che li riguardano, contrapponendosi alla volontà e agli interessi dei potenti, dei mass media al loro servizio, e delle forze dell’ordine e della magistratura pronte ad imporre con la forza e con la legge, in maniera autoritaria, decisioni devastanti.

Questi movimenti si vengono a trovare prima o poi in rotta di collisione con quanti vorrebbero che la loro azione venisse incanalata entro i sentieri della legalità, supportata e spesso guidata dalle istituzioni amiche, privilegiando metodologie che non disturbino eccessivamente avversari e controparti, mantenendosi entro l’ambito dell’opinionismo e della concertazione, lasciando ai politici “amici” il compito di rappresentare le istanze della popolazione.

E’ chiaro che possano esservi in ambito locale fette di istituzione che condividono gli obiettivi dei movimenti, pur esprimendo critiche sui loro metodi, ma ognuno deve stare al suo posto, senza interferenze e condizionamenti che non siano quelli oggettivi scaturenti dai fatti che ognuno è in grado di provocare.

Allora qual è il colore dei movimenti? Come possono essere catalogati, ammesso che catalogarli sia possibile?

Difficile affibbiargli il colore di un partito qualsiasi; in genere le sigle politiche si fermano davanti la porta delle sedi dei movimenti, cui si va ad aderire a titolo individuale; questo non ne fa delle realtà qualunquiste o addirittura “apolitiche”, perché idee, posizioni, storie personali, si incontrano e scontrano, si intrecciano e confrontano nelle assemblee, condizione necessaria perché si arrivi a una sintesi il più possibile condivisa, senza imporre le idee di una parte, scavalcando anche le logiche di maggioranza e minoranza, che non solo mortificano le differenze, ma spesso derivano da costruzioni artificiali che minano alle fondamenta la partecipazione dal basso.

Molti non sono abituati alle dinamiche orizzontali che regolano il modo di agire interno a un movimento: si tratta sia di persone senza esperienze di lotta in prima persona, sia di altre non in grado di scrollarsi di dosso le zavorre gerarchiche con cui hanno convissuto all’interno di esperienze esterne (partiti e partitini, associazioni, chiese, sindacati). Eppure una delle caratteristiche a livello internazionale dei movimenti degli ultimi anni è proprio la democrazia diretta, il rigetto della delega permanente, il mandato affidato per brevi e ben precisi incarichi, il metodo della rotazione; l’assemblea è il luogo delle decisioni, e per quanto la lentezza di certi dibattiti possa far dire a qualcuno che l’assemblearismo sia caotico e controproducente, alla fine risulta invece il metodo più coinvolgente e incisivo.

Questi sono i colori dei movimenti; sono colori che non si riscontrano nel modo di funzionare di nessun partito; sono quei colori che esaltano le energie e le singolarità dei tanti che partecipano, e che difficilmente qualcuno potrà tirare da una parte o dall’altra.

Certamente i movimenti sono antifascisti; qualcuno vede in ciò una caratterizzazione di sinistra, rifacendosi a schemi di comodo di fatto superati. L’antifascismo è nei fatti, è nel rifiuto della prevaricazione, nell’abbattimento dei livelli gerarchici, nella libertà di espressione che si esprime dal basso e diventa una condizione non contrattabile. L’antifascismo è nel rifiuto di assoggettarsi a presunti leaders carismatici, di porre al centro della militanza l’obbedienza e i giuramenti. L’antifascismo è un colore indelebile che sta persino scritto in quella carta costituzionale cui i detrattori dell’autonomia dei movimenti dicono di rifarsi in quanto paladini delle leggi e delle regole.

Questi colori sono talmente forti, talmente vivi che nessun se-dicente salvatore, o portatore di ideologie “amiche” potrà intaccarli; i tentativi palesi o occulti di condizionare i movimenti sbattono (o sbatteranno) il muso contro la coscienza di un’autonomia, di un’autorganizzazione che rappresentano al meglio il bisogno e la volontà di partecipare e di lottare.

Chi pretende che i movimenti siano senza colori, in realtà mira a scolorirne le forme e le sostanze organizzative e metodologiche, a svuotarli dei loro contenuti sinceramente antagonisti, per incanalarli nei tristi sentieri del deja vu, della politica che, cacciata dalla porta tenta di rientrare dalla finestra per sfruttare le mobilitazioni dal basso a fini di lotte di potere e beghe elettorali, con l’obiettivo finale di rimettere la museruola alle persone, per riportare il gregge dentro l’ovile, per ristabilire l’ordine. Perché sanno bene che se c’è un pericolo è che degli individui, una volta imparato ad occuparsi di un problema, a gestirselo in prima persona assieme a tanti altri, possano fare un altro passo in avanti e riflettere sull’inutilità e la negatività del sistema gerarchico, dei partiti, dell’organizzazione autoritaria della vita pubblica e della società, cominciando a pensare che possa esistere un altro sistema improntato sulla democrazia diretta, sull’agire dal basso, senza intermediari, in una parola, sull’autogestione, e che è proprio questo che può realizzare appieno le aspirazioni umane.

Pippo Gurrieri

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