Il film sulla strage di stato, il caso Pinelli e la sentenza D’Ambrosio

Era pressoché inevitabile che un film, finora l’unico, sulla strage di piazza Fontana, anche a quarantatré anni dall’evento, dovesse provocare dibattito e polemiche.

Le critiche hanno riguardato soprattutto il finale del film, in cui si ipotizza l’esistenza di due bombe collocate sotto il tavolo del salone della Banca Nazionale dell’Agricoltura: una finalizzata ad uno scoppio solo dimostrativo, che sarebbe stata portata da una persona infiltrata negli ambienti anarchici dall’eversione di destra, l’altra, stragista, portata dai nazi-fascisti veneti.

Il regista Marco Tullio Giordana ed uno dei produttori del film, Riccardo Tozzi, hanno difeso la fedeltà del film alla verità storica per ciò che concerne la tesi delle due bombe:

Quanto alla doppia bomba. Non è affatto vero che è un’ipotesi infondata. Lo dice, da ultimo, Giannuli, uno dei massimi esperti di questa storia. E nell’accurata e lunga ricerca compiuta prima di fare il film ne abbiamo trovato riscontri. Ricordiamo qui solo che vengono ritrovati frammenti di un timer e di una miccia. La miccia, repertata, sparisce dagli atti e dai processi. Così la seconda fibbia. Ci sono tracce di due tipi di esplosivo: la diversità degli esplosivi è alla base del fallimento dell’ultimo atto processuale. Non fa pensare? Non ci si deve pensare? Anche se non fossero due, non si avverte in quella zona un’ombra che nasconde qualcosa?”.

Insomma, Giordana e Tozzi non hanno ritenuto di considerare la possibilità di essere incappati in una delle azioni di depistaggio, disinformazione ed inquinamento delle prove messe in atto dai servizi segreti, peraltro come tale a suo tempo trattata dalla magistratura.

In ogni caso, la polemica che ne è scaturita ha oscurato altri importanti aspetti controversi della vicenda, come quelli relativi al caso Pinelli-Calabresi.

Al riguardo, nel film si dà per certo che il commissario Calabresi non fosse presente al momento della precipitazione di Pinelli dalla finestra della stanza al quarto piano della questura di Milano.

Il regista, in una intervista al giornalista Curzio Maltese, ha dichiarato:

Quando sono andato alla questura di Milano per indagare sulla morte di Pinelli ho constatato che l’incartamento è sparito, vuoto. Ma mi sono convinto che Calabresi davvero non fosse in quella stanza, com’è scritto nei verbali”.

Lo stesso regista ed il co-produttore Tozzi, in una lettera al quotidiano La Repubblica, hanno affermato testualmente:

Abbiamo reso giustizia a Calabresi, non per un trepidante sentimento privato né men che mai per senso di colpa (non siamo stati fra i persecutori), ma per limpidezza di sguardo sulla verità. Una volta compreso che NON era nella stanza, ne abbiamo tratto le ovvie conseguenze”.

È da notare come nella lettera si esprima non una opinione o una convinzione, ma una certezza. Il NON maiuscolo sta inequivocabilmente a indicare la sicurezza di chi non esprime una valutazione o un giudizio in qualche misura soggettivo, ma afferma, né più né meno, di aver capito qual è la verità. E però omette di precisare su quali elementi di fatto o prove si basino tali granitiche certezze.

Come noto, su questo come sugli altri aspetti del caso Pinelli, ha deciso ufficialmente e definitivamente la sentenza-ordinanza emessa il 27 ottobre 1975 dall’allora giudice istruttore del Tribunale di Milano Gerardo D’Ambrosio.

Si riporta di seguito la parte delle motivazioni della sentenza in cui il giudice si occupa della questione relativa alla presenza o meno di Calabresi nella stanza della precipitazione:

Prima di passare all’esame delle imputazioni va subito detto che l’esperita istruttoria lascia tranquillamente ritenere che il commissario Calabresi non era nel suo ufficio al momento delle precipitazione.

Tutti i testimoni presenti al quarto piano dell’Ufficio Politico sono stati concordi su tale punto, ad eccezione dell’anarchico Valitutti, che si trovava nel salone dei fermati.

Egli infatti escluse, in maniera categorica, di aver visto passare, negli ultimi quindici minuti precedenti la precipitazione il commissario Calabresi attraverso il breve tratto di corridoio che una finestra aperta nella parete del salone dei fermati gli consentiva di vedere, tratto che il commissario Calabresi avrebbe dovuto necessariamente percorrere dal suo ufficio per raggiungere l’ufficio del dott. Allegra.

Ora, a prescindere da ogni considerazione sull’attendibilità dell’una o delle altre testimonianze, va detto che, nell’economia della versione ufficiale del suicidio data dalla Polizia e di cui si è detto prima, calzava molto meglio, ai fini del rapporto di causalità fra la contestazione ed il gesto disperato del colpevole, la figura del commissario Calabresi presente nella stanza.

Se Calabresi fosse stato presente non si riesce a vedere quindi perché, ufficialmente, si sarebbe dovuto dire che egli non c’era, con tutti i notevoli rischi derivanti dal probabile crollo della menzogna (se non altro per la presenza di varie persone appartenenti a diverso Corpo di Polizia).

D’altra parte è veramente difficile sostenere e ritenere che il Valitutti, pur ammettendo che la sua attenzione fosse stata destata dai sospetti rumori sentiti (rumori che in mancanza di prova diversa devono attribuirsi, data l’ora di collocazione, alla reazione motoria, che normalmente segue al termine di uno stato di attenzione e tensione, delle numerose persone presenti nella stanza al momento in cui il dott. Calabresi terminò di dettare il verbale) dopo un quarto d’ora, non possa essersi distratto neppure per quelle poche frazioni di secondo occorrenti al commissario Calabresi per attraversare il breve tratto di corridoio che la finestra nel salone dei fermati consentiva di vedere”.

Ora, per quanto forse a qualcuno possa apparire incredibile, la frase “Tutti i testimoni presenti al quarto piano dell’Ufficio Politico sono stati concordi su tale punto, ad eccezione dell’anarchico Valitutti, che si trovava nel salone dei fermati” è puramente e semplicemente falsa.

Infatti, non è stato solo Pasquale Valitutti, ma anche il brigadiere Attilio Sarti, a testimoniare che Calabresi non si era mosso dalla sua stanza, per andare nell’ufficio di Allegra, come invece il commissario dichiarò.

Sarti, che si trovava sullo spigolo della porta dell’ufficio di Calabresi da almeno venti minuti prima della precipitazione di Pinelli, rese la sua testimonianza nel corso del processo per diffamazione del 1970 contro Pio Baldelli ed il giornale Lotta Continua.

Oltre a ciò, è da rilevare che le dichiarazioni di Luigi Calabresi, Savino Lograno, Giuseppe Caracuta, Vito Panessa, Carlo Mainardi e Pietro Mucilli, imputati di omicidio volontario, e di Antonino Allegra, imputato per reato connesso, non avevano alcun valore di prova.

L’incompatibilità, per legge, della qualità di imputato con l’ufficio di testimone, nel Codice di procedura penale vigente all’epoca della vicenda Pinelli e della sentenza, era stabilita dal comma 2° dell’art. 348:

Non possono essere assunti a pena di nullità, come testimoni gli imputati dello stesso reato o di un reato connesso.

Una sentenza di Cassazione del 1959 aveva altresì chiarito che l’interrogatorio dell’imputato non era da considerarsi mezzo di prova:

Il giudice istruttore non deve insistere né comunque costringere l’imputato ad agire contro la sua volontà data la natura dell’interrogatorio che è un mezzo di difesa e di informazione per l’imputato e non già mezzo di prova.

Nel nuovo come nel precedente diritto processuale penale, l’imputato, qualora consenta ad essere ascoltato dal magistrato, non è tenuto a dire la verità o tutta la verità e neanche a rispondere alle domande che gli vengono rivolte e, comunque, le sue dichiarazioni non costituiscono mezzo di prova. Peraltro, diversamente da ciò che accade negli ordinamenti giuridici di altri paesi, l’imputato non può neanche essere condannato per offesa alla corte, nel caso si rifiuti di rispondere al proprio giudice o questi accerti che gli abbia mentito.

Come già sottolineato, ai fini probatori le dichiarazioni delle sei persone presenti nella stanza e del commissario capo Allegra equivalevano ad una somma di zeri e, quindi, valevano zero.

Peraltro, i coimputati si erano ampiamente avvalsi della possibilità di mentire impunemente, cambiando e rimodulando a più riprese le proprie dichiarazioni, al mutare delle circostanze e con l’emergere di elementi in contraddizione con le deposizioni da loro precedentemente rilasciate.

In altre parole, non solo, a norma di legge, non erano tenuti a dire la verità, ma anche, di fatto, avevano a più riprese fornito dichiarazioni mendaci, mutevoli e contraddittorie, fino al limite dell’incoerenza e della pratica inintelligibilità.

È da rammentare, al riguardo, che essi avevano mentito, parlando di suicidio di Pinelli e di complicità del medesimo nella strage del 12 dicembre, anche quando ancora non erano imputati, eppure non erano stati ritenuti passibili di falsa testimonianza.

È lo stesso D’Ambrosio a rimarcare la perdurante propensione alla menzogna degli imputati, nella stessa sentenza istruttoria, laddove tratta delle dichiarazioni in precedenza fornite dalle persone presenti nella stanza di Calabresi circa le modalità ed i motivi della precipitazione di Pinelli:

Ora, la preoccupazione di cui si è detto e la più o meno consapevole certezza che la versione del suicidio era gradita «AI SUPERIORI», che l’avevano, senza esitazione alcuna, utilizzata come strumento per avvalorare la tesi della colpevolezza degli anarchici, ebbero un’influenza certamente notevole nella formulazione delle versioni dell’accaduto che ciascuno dei presenti dette al Magistrato del P.M. dott. Caizzi il successivo giorno 16 dicembre 1969.

Il brig. Panessa infatti parlò di «scatto felino», il ten. Lograno e il brig. Mainardi di «scatto verso la finestra», il brig. Mucilli di «tuffo oltre la ringhiera», il brig. Caracuta di «balzo repentino verso la finestra».

La riprova di tanto è data dal fatto che, quando i protagonisti vengono chiamati di nuovo a deporre nel corso del dibattimento Baldelli, allorché queste preoccupazioni e suggestioni sono cessate (era stato pronunciato decreto di archiviazione nel procedimento penale relativo alla morte del Pinelli ed il P.M. ed i Magistrati di Roma, che avevano proceduto all’istruttoria nel procedimento relativo agli attentati del 12-12-1969, avevano escluso qualsiasi responsabilità dello stesso Pinelli) abbandonano i toni prima tanto univoci, sicuri, sia sulla repentinità dello scatto che sul tuffo volontario oltre la ringhiera”.

Nonostante tutto ciò, sono proprio le dichiarazioni degli imputati a risultare decisive nel giudizio di D’Ambrosio, in virtù di una capriola logica, per cui egli afferma di prescindere da considerazioni di attendibilità e di basarsi sulla presunta e non dimostrabile convenienza degli imputati ad affermare l’assenza anziché la presenza del commissario Calabresi nella stanza.

Insomma, tramite un capzioso arzigogolo, il giudice eleva al rango di prova quella che, nella migliore delle ipotesi, potrebbe al più essere assunta come una sua opinione soggettiva.

Viceversa, la testimonianza del brigadiere Sarti non viene considerata e neanche citata nel corpo della sentenza-ordinanza del giudice D’Ambrosio.

Si ammetterà che è ben improbabile, se non impossibile, che possa essersi trattato di una mera e casuale dimenticanza.

Insomma, D’Ambrosio, onde rendere convincenti i propri ragionamenti, tratta surrettiziamente gli imputati come testimoni e dà nei fatti valore di prova alle loro dichiarazioni, a scapito dei veri testimoni, incorrendo a dir poco in indebite ed ingiustificabili forzature ed inesattezze.

Ancor meno si può giustificare la decisione di prescindere da ogni considerazione sull’attendibilità dell’una o delle altre testimonianze, dal momento che le dichiarazioni degli imputati non sono qualificabili come testimonianze.

Un tale comportamento è da ritenersi, in tutta evidenza, inammissibile, in quanto del tutto arbitrario, e di legalità quantomeno dubbia, oltre che assai difficilmente comprensibile in una efficace strategia di ricerca della verità sui fatti e le responsabilità di quella notte.

Un’altra prova nel senso della presenza di Calabresi al momento della precipitazione è costituita dal rapporto sulla morte di Pinelli inviato alla procura di Milano il 16 dicembre 1969, di cui si riporta il testo completo:

Di seguito a precedenti rapporti pari numero ed oggetto, si comunica che alle ore 0.15 di questa notte mentre il Commissario Aggiunto dott. Luigi Calabresi ed altri ufficiali di polizia giudiziaria, nelle persone dei sottufficiali di P.S. Panessa Vito, Mainardi Carlo, Mucilli Pietro e Caracuta Giuseppe, presente il Tenente dell’Arma dei Carabinieri LOGRANO Savino, procedevano, nei locali dell’Ufficio Politico, all’interrogatorio di PINELLI Giuseppe, nato a Milano il 21.10.1928 qui residente in via Preneste n. 2, ferroviere, anarchico, fortemente indiziato di concorso nel delitto di strage commesso contro la Banca Nazionale dell’Agricoltura in Milano, il medesimo, con repentino balzo, si precipitava da una finestra socchiusa nel sottostante cortile cadendo al suolo dopo aver urtato contro i rami di un albero. Immediatamente trasportato al vicino Ospedale Fatebenefratelli, veniva ricoverato con prognosi riservatissima per frattura cranica ed altro e vi decedeva alle ore 1.45.

Si fa riserva di ulteriore riferimento.

IL COMMISSARIO CAPO DI P.S.

Dr. Antonino Allegra

Allegra affermò all’epoca che il rapporto, nel quale l’ora della caduta è indicata a mezzanotte e un quarto e si dice chiaramente che in quel momento Calabresi stava procedendo all’interrogatorio, non avesse importanza, benché fosse l’unico trasmesso alla Procura sulla morte di Pinelli.

Allegra ammise che la firma era sua, ma disse che a scriverlo era stato un sottufficiale, di cui, però, non ricordava il nome, che si trattava di una semplice letterina di accompagnamento, non si è mai capito di cosa, che l’aveva firmata senza leggerla e che si trattava “di un’inesatta informativa”.

A favore della tesi opposta, ossia dell’assenza di Calabresi dalla stanza, sono le dichiarazioni di due testi (l’agente Serinelli e l’appuntato Quartarone), ritenute tardive, contraddittorie e inattendibili, che, però, proprio per questo sarebbe stato opportuno sottoporre a verifica nel corso di un dibattimento processuale, che, invece, la sentenza istruttoria ha impedito che si tenesse.

Nelle motivazioni della medesima D’Ambrosio sorvolò del tutto sul fatto palese che qualcuno dei testimoni certamente aveva mentito, così come dimostrò un inaccettabile eccesso di benevola noncuranza nei confronti delle sesquipedali frottole tirate fuori da Allegra riguardo alle circostanze della comunicazione alla Procura ed al contenuto della stessa.

Peraltro, il giudice non riuscì o non cercò di rintracciare l’estensore del rapporto e raccoglierne la testimonianza, nonostante l’insostenibilità della versione di Allegra.

Infine, ritenne di non acquisire una deposizione del brigadiere Sarti in merito alle dichiarazioni del testimone Valitutti circa quanto accaduto nella stanza qualche minuto prima della precipitazione di Pinelli: “alcuni minuti prima che Pino voli giù dalla finestra … succede qualcosa di eccezionale … qualcosa paragonabile a un trambusto, a una rissa, sembra che qualcuno stia rovesciando i mobili … avvertii le voci, concitate, alterate”.

Senza alcun fondamento probatorio o logico, il giudice ritenne di declassare quelli che un testimone tenuto a dire la verità a rischio di essere incriminato per falsa testimonianza descriveva come rumori eccezionali a livello di trambusto o rissa, al rango di normali movimenti di rilassamento post-riunione.

Se ne ricava l’impressione che il giudice non fosse affatto interessato ad accertare ciò che veramente era accaduto in quella stanza.

Il minimo che si possa dire è che si sia trattato di un ben strano modo di condurre l’inchiesta.

Si deve tuttavia constatare che, pur su una base tanto labile, ancora a quarantatré anni dagli eventi, gli effetti della disinformazione si fanno sentire in maniera pesante, tanto da indurre in molti, in buona o cattiva fede, non solo la convinzione, ma addirittura la certezza che taluni fatti, in realtà mai dimostrati, siano stati accertati come veri.

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