Lavoro zero

Ogni anno Primo Maggio la “festa dei lavoratori” va trasformandosi in “la festa ai lavoratori”, e la demolizione di conquiste e garanzie va avanti inesorabile, lasciandosi dietro una scia di precarietà, di subalternità, di sfruttamento.Matteo Renzi non poteva essere da meno, ed uno dei primi provvedimenti annunciati è stato il cosiddetto “job act” (ormai è diventata consuetudine presentare tutte le prese per il culo in inglese, da spending review in poi). Si tratta dell’ennesimo colpo d’accetta alle normative sul lavoro: i contratti a termine potranno durare fino a 36 mesi, all’interno dei quali saranno rinnovabili fino a 8 volte senza intervallo, e non sarà più necessaria una causa che li giustifichi; il numero dei lavoratori a tempo determinato dentro un’azienda si eleva al 20%, limite che i contratti potranno ancora innalzare. I padroni, a ogni scadenza, potranno sostituire i lavoratori, i quali aspetteranno invano un lavoro stabile.

Il contratto di apprendistato viene alleggerito dagli obblighi formativi e potranno esserne introdotti di nuovi senza bisogno di assumere a tempo indeterminato il 30% dei precedenti apprendisti. E’ il via libera alla sostituzione dei giovani in maniera illimitata, sfruttandoli con contribuzioni al 35% della tariffa tabellare, più un’elemosina offerta dal padrone. Con la scusa del superamento della rigidità contrattuale, si concede il via libera alla flessibilità indiscriminata e alla precarietà a vita.

E’ da tempo che ci invitano a scordarci il “posto fisso”;un dato per tutti: nel quarto trimestre del 2013 i contratti a tempo determinato attivati sono stati ben 1.539.435 su 2.266.604, circa il 70% del totale, mentre quelli a tempo indeterminato sono stati solo 364.972, corrispondenti al 16,1%. Milioni di persone sono alla costante ricerca di un lavoro che, se va bene, durerà solo pochi mesi, mentre per accedere all’indennità di disoccupazione (oggi Aspi e mini Aspi) saranno obbligati ad accettare offerte di lavoro provvisorie e miserevoli; parallelamente si restringe la platea di chi può usufruire di cassa integrazione e mobilità in deroga.

Le norme sull’apprendistato e quelle sul lavoro in generale erano state ormai ridotte a delle vere tagliole per i lavoratori; ma i padroni non sono mai paghi e i loro fedeli burattini al governo, mentre continuano a concedergli defiscalizzazioni, incentivi e favori (che pagherà la collettività con nuovi tagli ai servizi), marciano spediti verso l’azzeramento delle garanzie della mano d’opera; visto che non tutte le attività si possono trasferire in Cina, trasferiamo in Italia il sistema di produzione e di regole cinesi, cancellando non solo l’art. 18, ma tutto lo Statuto dei lavoratori e eliminando i contratti nazionali. Libertà di licenziamenti, obiettivo finale per ottenere la libertà di sfruttamento.

Tutto questo marcia di pari passo con la riforma delle pensioni, che riduce ad uno stato di precarietà a vita milioni di giovani e si accanisce ancora di più sulle donne, doppiamente penalizzate in quanto prigioniere di tetti pensionistici assurdi e dedite al doppio lavoro casalingo-sociale e “normale”.

Il risultato di tutto questo si traduce in lavoro nero, evasione fiscale, emigrazione; i dati ufficiali sull’ultimo decennio parlano di 500.000 emigrati all’estero, non solo “cervelli” ma anche “braccia”, mentre i flussi sud-nord sono ripresi in maniera vertiginosa e i paesi del Mezzogiorno tornano a svuotarsi.

Questo quadro testimonia della complicità del sindacalismo di Stato e dei limiti di quello di base e di lotta. Il primo ha partecipato al saccheggio delle conquiste e alla castrazione del diritto di sciopero, barattandoli con privilegi e regole sulla rappresentanza atte a garantire le burocrazie sindacali; il secondo non è riuscito a trasformare il disagio sociale in movimento diffuso che rompa gli equilibri sistemici e imponga obiettivi di classe. La drastica riduzione delle aziende, l’ampliamento esponenziale dell’area del non lavoro e del disagio sociale, hanno ridimensionato la pratica sindacale, la quale, se non vuole rischiare di diventare una sorta di guarnizione malridotta utile solo a limitare i danni, deve rivedere completamente metodi e strategie. Non si tratta solo di avere il coraggio di porre con più forza di prima obiettivi come la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, investimenti utili ai territori (disinquinamenti e bonifiche, messa in sicurezza, risparmio energetico, ecc.), riconversione delle industrie di armamenti e di quelle altamente tossiche, ma di sottrarre ai ricatti occupazionali milioni di individui, rimettendo al centro i bisogni, la sicurezza, l’utilità di ciò che si produce, l’equa distribuzione dei redditi. Nella prospettiva della rivoluzione sociale.

Pippo Gurrieri

Questa voce è stata pubblicata in Editoriale. Contrassegna il permalink.