L’UNICO SENSO

Internazionale. Antimperialismi a senso unico

Se c’è un modo coerente di sentirsi partecipi dei problemi dei popoli oppressi che cercano di liberarsi dalle catene dello sfruttamento, questo è quello di sentirsi tutt’uno con essi, di vivere le loro difficoltà e i loro drammi come propri, di sentirsi offesi e umiliati quando ad essi si infligge un’offesa e un’umiliazione, e di mettere in atto ogni mezzo per contribuire al superamento della loro situazione. Questo è il senso della solidarietà internazionalista. Ma non il solo. Le dinamiche politiche spesso sono talmente diverse caso per caso da richiedere molta attenzione quando si fanno degli approcci. Noi che viviamo in questa parte di Mondo sotto il dominio delle potenze occidentali, e degli Stati Uniti d’America in particolare, siamo cresciuti combattendo la NATO e l’imperialismo americano, e ci è capitato spesso, non ultimo durante la lotta contro l’installazione della base missilistica di Comiso (primi anni ottanta del secolo scorso), di essere accusati di fare il gioco degli avversari degli USA, in quel caso l’Unione Sovietica e il Patto di Varsavia. Non era così, perché in quanto anarchici e antimilitaristi, la nostra battaglia assumeva – per noi – i caratteri di un’opposizione alla guerra e all’imperialismo. Eravamo antiamericani (nel senso di nemici della potenza statunitense) ma in quanto antimilitaristi, e non viceversa, altrimenti avremmo finito per mettere da parte la nostra avversione per ogni forma di militarismo una volta cessato il bisogno di schierarci contro gli USA.
Ma non tutti la pensano così, e non tutti riescono a comprendere la posizione di chi non simpatizza per nessun potere e quindi gioisce a metà quando uno scontro militare finisce, ma dalle sue ceneri sorge magari un nuovo stato, se-dicente rappresentante di chi lottava contro la grande potenza. L’esempio più classico fu il primo maggio del 1975, quando in tutto il Mondo si festeggiava la fine della guerra in Vietnam del giorno prima, con la sconfitta degli USA; un conflitto che aveva caratterizzato il ventennio precedente, ma che nell’ultimo decennio era stato uno dei temi scottanti attorno a cui si era formata la generazione dei ribelli che darà vita al Sessantotto. Solo gli anarchici, nonostante avessero anch’essi speso energie a iosa contro l’infame guerra in Indocina, quel primo maggio misero in guardia dalla nascita del nuovo Stato vietnamita, un nuovo potere che si annunciava militarista e condizionato da due grandi tirannie, quella russa e quella cinese.
L’antimperialismo a senso unico ne ha fatto di vittime nel tempo; basti pensare a Cuba, nella cui guerriglia non pochi furono gli anarchici impegnati, mitizzata oltre ogni dire (mito ancora duro a morire), emblema di una durissima resistenza allo strapotere statunitense, ma dentro i cui confini si consumavano, tuttavia, delitti politici contro dissidenti ed eretici del regime castrista.
Non va nemmeno dimenticato il dibattito seguito alla cacciata dello Scià in Persia e alla nascita della repubblica islamica dell’Ayatollah Khomeini nel febbraio del 1979; la sinistra internazionale lesse quegli avvenimenti in chiave antiamericana e simpatizzò con la rivoluzione che portò al potere i religiosi sciiti. Gli esempi potrebbero continuare, ma ci interessa tornare all’oggi poiché tali dinamiche si riscontrano nella pratica odierna di un internazionalismo ancora a senso unico.
La Palestina vive nel cuore di tutti noi come l’esempio vivente di una resistenza di lunga durata e di un grande sopruso, di una violenza senza fine tollerata, coperta, supportata, da tutti gli Stati, compresi quelli falsamente amici, che hanno solo appoggiato il popolo palestinese per strumentalizzarne a fini propri il suo sacrosanto diritto ad una propria autodeterminazione. L’antimperialismo a senso unico porta a considerare formazioni come Hamas, in quanto schierate contro lo Stato fascista di Israele e il suo grande protettore USA, degne del sostegno militante, dimenticando l’ideologia di fondo di questo movimento: retrograda, patriarcale, specularmente fascista, tutte premesse che in un futuro eventuale stato palestinese rappresenterebbero inaccettabili condizioni per chi si batte per una liberazione effettiva dei popoli oppressi.
Cambiando area geografica, sono molti gli Stati nel “giardino di casa” degli Stati Uniti, cioè il centro e sud America, ad essere sotto il mirino dell’imperialismo a stelle e strisce, del Fondo monetario, della Banca Mondiale per la loro attitudine a voler gestire in proprio le risorse del paese. La loro collocazione in contrasto con i disegni degli USA e i tentativi di questi di fomentare rivolte e colpi di stato, attuando embarghi, ricatti, assedi, impongono condizioni di vita ai limiti dell’incredibile e seminano odio antimperialista. Tuttavia questa situazione fa spesso perdere ai solidali del Mondo, e a quelli nostrani in particolare, il senso critico, e sposare acriticamente cause come la bolivariana e chavista, oppure populiste o sandiniste, chiudendo gli occhi su ciò che avviene in quelle società, dimenticando che una autentica politica antimperialista va coniugata con un progetto di autentica liberazione sociale, che non può essere spesso solo slogan, oppure richiamo strumentale a lontane origini rivoluzionarie da tempo abbandonate.
In Venezuela lo Stato bolivariano fondato da Chavez, oggi in mano a Maduro, è un regime in mano a una casta di militari eredi di una rivoluzione contraddittoria, che ha affiancato a reali aperture ai poveri e trasformazioni sociali (oggi migliaia di gruppi popolari si autogestiscono la loro vita fuori dal controllo governativo), il rafforzamento di una nuova oligarchia petroliera. Affermare ciò viene considerato fare il gioco del nemico. L’attacco degli USA, del FMI, della BM e delle classi agiate locali, che sta provocando una grande e diffusa povertà, non fa altro che alimentare il mito di un Venezuela baluardo dell’antimperialismo, portando a giustificare un esercito, una polizia, le istituzioni totalitarie, il sistema da caserma, la casta al potere.
Poco distante, in Nicaragua, in nome del sandinismo un élite di ex rivoluzionari abbarbicati al potere e ai suoi privilegi, combatte contro forze giovanili e popolari stanche di subire le angherie di una casta che ormai non ha nulla da invidiare a quella legata al regime del dittatore Somoza rovesciata nel 1979. Ma anche in questo caso, gli internazionalisti a senso unico vedono solo ciò che vogliono vedere, e cioè che lo Stato nicaraguense rappresenta ancora un presidio contro l’imperialismo USA, e non  invece una società dove una classe di nuovi sfruttatori esercita il più antico dei domini di classe contro la popolazione, in nome …dell’antimperialismo.
Torniamo all’inizio: siamo antimperialisti perché rifiutiamo ogni forma di imperio, e non ci schieriamo con nessun tipo di sistema autoritario e statale; l’internazionalismo si definisce nella solidarietà ma anche nell’espressione di contenuti critici e nel supporto verso tutte quelle esperienze che oggi sono portatrici di progetti di liberazione e di ricostruzione sociale su basi effettivamente antiautoritarie, federaliste, femministe, ecologiste, come il Kurdistan, il Chiapas, con le varie esperienze in atto. La contingenza ci può portare senz’altro a sostenere lotte popolari sparse per il mondo, e in tal senso mai smetteremo di supportare, ad esempio, quella palestinese, o quella dei popoli venezuelano o nicaraguense, e di tante realtà che non rinunciano a resistere. Ma senza mai schierarci con i poteri che pretendono di guidarle, oggi nella lotta e domani in nuove caserme chiamate stato.

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