Ritrovare la conflittualità

Chiedersi qual è oggi il livello di conflitto sociale in Italia, potrebbe apparire domanda retorica, tanto è evidente la quasi assenza di una conflittualità che possa dirsi tale. Lo si è visto anche in occasione dello sciopero generale proclamato il 26 ottobre scorso da una parte di quello che un tempo era chiamato sindacalismo di base. Il quale, con una certa generosità ma anche con una qualche forma di coazione a ripetere, prova a mantenere in vita il ricordo della lotta sociale che è sempre più imbrigliata dall’imperante burocratizzazione delle relazioni sindacali. Lo sciopero infatti è stato uno sciopero minoritario di testimonianza, pur essendo l’unico previsto in questo autunno flagellato dalle piogge  e dalle alluvioni.

Le ragioni del venir meno del conflitto, inteso come possibilità di scardinare le disuguaglianze sociali attraverso la mobilitazione di massa, sono tante e profonde. La frammentazione delle società contemporanee, l’individualismo trionfante e per contro la sfiducia nella capacità della lotta collettiva di cambiare le sorti proprie e di tutti, la precarizzazione del lavoro e delle vite, la crisi economica oramai strutturale e perenne rappresentano altrettante cause/conseguenze, in un viluppo che appare inestricabile, di una condizione di sostanziale quiete sociale. Se a tutto questo si aggiunge il fatto contingente di un governo che si presenta come difensore delle istanze popolari, non ci si può certo stupire della scarsa propensione alla mobilitazione. In realtà è oramai da parecchi anni che non si assiste a mobilitazioni capaci di coinvolgere masse rilevanti. Tuttavia, nonostante residuale o a volte latente, nonostante i postmodernisti fautori della fine della storia lo considerino una sopravvivenza culturale novecentesca, il conflitto non può certo essere del tutto cancellato in una società fondata sulle disuguaglianze. Ma al momento si manifesta in forme episodiche, settoriali o territoriali, che scontano appunto tale frammentarietà e non riescono a  tracimare in una dimensione più ampia e duratura.

Così ha buon gioco quella democrazia imbalsamata che ha dominato negli ultimi due decenni. Paradossalmente a ridarle credibilità è stato l’irrompere sulla scena politica del movimento Cinquestelle e, in parte, della nuova Lega. I quali, pur presentandosi come antisistema, ne sono diventati in  questo frangente gli autentici interpreti. Questo governo può infatti rivendicare a pieno titolo di essere portatore degli interessi popolari emersi dalle elezioni. Quindi, se con Berlusconi, Monti, Renzi e compagnia si è verificata la maggiore distanza tra rappresentati e rappresentanti, insinuando seri dubbi sul funzionamento dei meccanismi democratici, Lega e Cinquestelle infondono nuova fiducia sulla possibilità che si possa pervenire ad una maggiore giustizia sociale attraverso canali politico-istituzionali, senza bisogno di ricorrere alla conflittualità.

Ci troviamo, comunque la si voglia vedere, di fronte ad uno scenario aperto.

Le politiche liberiste estreme segnano il passo, non riescono a contenere il crescente disagio sociale. Le proposte populiste e sovraniste rappresentano agli occhi dell’elettorato medio le alternative più credibili: l’attuale governo italiano ne è un esempio.  Saranno sufficienti piccoli aggiustamenti quali un reddito finto di cittadinanza, una piccola rivalutazione delle pensioni minime, una flat tax concepita per le piccole e medie imprese, a mascherare un po’ di disparità? C’è da dubitarne e per molti motivi. Di conseguenza diventerà imprescindibile ritrovare o inventare forme coerenti e diffuse di conflittualità. Certo il conflitto non si pianifica in astratto, tuttavia si può e si deve agire per ricreare le premesse che possono favorirlo. Ma per fare questo occorre un grande sforzo di chiarezza, in direzione della costituzione di una reale unità delle classi sfruttate, superando dogmatismi e settarismi. Un punto comunque sembra evidente: i tentativi in giro per il mondo di riequilibrare (non di cambiare) le società sul piano dell’uguaglianza e dei diritti per via istituzionale con governi, come si dice democraticamente eletti, si sono risolti in un fallimento o nell’attuazione di piccoli aggiustamenti che non modificano l’assetto attuale. Tali fallimenti o accomodamenti non sono purtroppo indolori perché come quasi sempre accade aprono la strada ad esperienze autoritarie, se non apertamente fasciste. Ecco questa consapevolezza dovrebbe cominciare ad indicarci la strada per incamminarci verso una società che non sia annichilimento e sfruttamento.

Angelo Barbieri

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