Rojava nel cuore

Nuovi partigiani. Lorenzo vive nella lotta

“Il mio nome è Lorenzo Orsetti, il mio nome di battaglia è Tekoşer, vengo dall’Italia, da Firenze. Sono nato a Bagno a Ripoli il 13 febbraio 1986. Sono consapevole di tutti i rischi che corro. Sono qui per un sacco di ragioni, principalmente perché credo nella libertà. Sono un anarchico, ero stanco della mia vita nella società occidentale per molte ragioni ma forse non è questo il momento giusto per parlarne, sarebbe un discorso lungo. Ho ricevuto un addestramento militare e logistico da questa accademia, l’Ypg. Se state guardando questo messaggio probabilmente… è andata così. Ma va bene per me, sono felice di aver fatto questa scelta e la rifarei mille volte perché ne sono convinto. Vi amo tutti, coloro che sono passati dalla mia vita: i miei amici, la mia famiglia, il mio cane. E’ tutto”.

Quello che avete appena letto è il video-testamento di Lorenzo, morto in battaglia in Siria il 18 marzo mentre prendeva parte alla liberazione di Barghouz, l’ultimo avamposto dell’ISIS. Questo invece è il messaggio-testamento che Lorenzo aveva scritto.

«Ciao, se state leggendo questo messaggio è segno che non sono più a questo mondo.

Beh non rattristatevi più di tanto, mi sta bene così; non ho rimpianti, sono morto facendo quello che ritenevo più giusto, difendendo i più deboli e rimanendo fedele ai miei ideali di giustizia, uguaglianza e libertà. Quindi nonostante questa prematura dipartita, la mia vita resta comunque un successo e sono quasi certo che me ne sono andato con il sorriso sulle labbra. Non avrei potuto chiedere di meglio.

Vi auguro tutto il bene possibile e spero che anche voi un giorno (se non l’avete già fatto) decidiate di dare la vita per il prossimo perché solo così si cambia il mondo. Solo sconfiggendo l’individualismo e l’egoismo in ciascuno di noi si può fare la differenza. Sono tempi difficili, lo so, ma non cedete alla rassegnazione, non abbandonate la speranza; mai! neppure un attimo.

Anche quando tutto sembra perduto, e i mali che affliggono l’uomo e la terra sembrano insormontabili, cercate di trovare la forza, di infonderla nei vostri compagni.

È proprio nei momenti più bui che la vostra luce serve.

E ricordate sempre che “ogni tempesta comincia con una singola goccia”. Cercate di essere voi quella goccia.

Vi amo tutti, spero farete tesoro di queste parole. Serkeftin!

Orso, Tekoser, Lorenzo”.

La morte di Lorenzo, le sue parole, mentre ci rattristano, ci riempiono di orgoglio per la forza morale che da essi promana.

Esse però ci impongono una riflessione su ciò che accade in Kurdistan, e più in generale su di noi in relazione alle possibilità e al dovere di continuare a sostenere la lotta di questo popolo e possibilmente di incrementare il nostro supporto.

Ciò che accade, è in parte noto; liberata l’ultima enclave di Daesh, per molti il problema Stato islamico è chiuso; gli Stati Uniti ritireranno le loro forze, che hanno contribuito alla “vittoria”, grazie allo sforzo concreto, sul terreno dello scontro, dei miliziani e delle miliziane curdi/e, che hanno lasciato sul campo centinaia di  loro vittime; e sull’area tornerà a dominare la pacificazione imperialista, con grande spazio alla Turchia, che fino a ieri ha sostenuto Daesh in chiave anticurda, e continua i suoi sforzi per cancellare l’amministrazione autonoma della Siria del Nord (Rojava) e tutte le sacche di resistenza nel Bakur (territorio curdo sotto controllo dello Stato turco). C’è da aspettarsi che allo spegnersi dei riflettori, l’esercito turco si lancerà in una delle sue battaglie più cruente nel tentativo di sconfiggere sul piano militare il popolo curdo e le sue conquiste comunaliste definite nel progetto di Confederalismo democratico.

Mentre scriviamo queste righe circa 7000 prigionieri politici del PKK rinchiusi nelle carceri turche sono in sciopero della fame per chiedere la fine del ventennale isolamento di Abdullah ‘Apo’ Ocalan; alcuni di loro stanno ricorrendo a forme estreme di protesta, tanto che risultano già 6 morti; cinque di questi si sono suicidati in carcere tra il 23 e il 2 aprile, uno lo ha fatto in Germania. Emerge in questo caso tutta la simbologia di questa vicenda, dove il leader prigioniero rappresenta un collante umano e politico di grande spessore per una popolazione divisa dalle frontiere degli stati, e sottoposta ad uno dei più gravi genocidi della storia. C’è il culto della personalità, è vero; ma c’è anche l’assurgere di un uomo-simbolo a bandiera di un’aspirazione alla libertà e all’autodeterminazione, che non va sottovalutata.

Oggi più che mai il Kurdistan ha bisogno di noi: della nostra solidarietà, della nostra presenza fisica nelle piazze, come di quella dei volontari combattenti che sono andati e sono ancora tra le file delle forze di autodifesa del popolo, sfidando i rischi e i pericoli, come Lorenzo, e anche l’inquisizione degli stati di provenienza, come sta accadendo in Italia, dove il loro slancio altruistico e solidale viene considerato alla stregua di un mercenarismo da integralisti e i magistrati ne chiedono la sorveglianza speciale in quanto “socialmente pericolosi”.

Ma siamo soprattutto noi ad aver bisogno del Kurdistan, perché oggi è nelle sue terre che arde una delle poche fiaccole di libertà, attraverso quel progetto di Confederalismo democratico che ha molte assonanze con percorsi antiautoritari, ecologisti, femministi, antipatriarcali, cui noi anarchici aspiriamo e di cui ci facciamo portatori. Oggi è quella lotta, sono quelle vittime, a tenere aperta la prospettiva di quel Mondo Nuovo che – come diceva Durruti – portiamo nei nostri cuori. E siamo convinti che in un’area martoriata come il Medio Oriente, vissuta sempre tra guerre e dittature, il percorso rivoluzionario del popolo curdo che si riconosce nel Confederalismo democratico, rappresenti l’unico rimedio, l’unica reale alternativa alla situazione di conflitto permanente e di impasse in cui sono costretti popoli oppressi come quello palestinese.

Non è retorica se diciamo che il sacrificio di Lorenzo, come quello di Giovanni Asperti e di tante e tanti miliziani internazionali e curdi, non deve essere vano, ma deve indurci a riconsiderare in maniera più concreta, coinvolgente, fattiva, il nostro quotidiano internazionalismo.

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