SPEZZIAMO I FILI

Sud/Nord. Il separatismo dei ricchi ladroni

Non è che ci sia bisogno dell’ISTAT per capire che nel Sud la disoccupazione è dilagante, quella giovanile è fuori controllo, quella delle donne da Ottocento; ognuno di noi è un’ISTAT più attendibile dell’originale per definire gli standard di vita, i livelli di spesa; ognuno di noi conosce il proprio Paniere quando va dal verduraio o al supermercato o a far rifornimento a un’auto di cui è schiavo perché i mezzi pubblici sono una chimera. Ognuno di noi conosce, perché li ha in famiglia, quanti giovani sono partiti per il Nord Italia o l’estero: fuga di cervelli la chiamano, come se gli emigrati che andavano a costruire autostrade e ferrovie o a scavare in miniera, o quelli che oggi portano pizze in bicicletta, ne fossero privi.
Se focalizziamo questa situazione in riferimento alla Sicilia, una delle regioni europee più depresse, possiamo solo constatare due fallimenti annunciati: quello della Questione Meridionale, che da Gramsci a tutti i meridionalisti di stampo liberalsocialista, cattolico o comunista, si fondava  sulla solidarietà sistemica che avrebbe dovuto, attraverso una distribuzione più equa delle risorse, riequilibrare le condizioni tra le regioni del Sud e le isole, e quelle del Nord; e quello dell’Autonomia Siciliana, cioè dello Statuto Speciale, che avrebbe dovuto favorire il rilancio economico-produttivo e sociale dell’isola a partire dalla concessione di ampi poteri e di risarcimenti con i quali sanare i danni subiti dall’annessione al Piemonte.
Perché questi due fallimenti? Perché l’interclassismo, la cultura industrialista, l’ideologia borghese e capitalista di cui erano impregnate le idee e le forze politiche meridionaliste, sono stati il primo ostacolo frapposto agli obiettivi di unificare finalmente il Paese cancellando le gravi differenze strutturali tra le diverse aree. Lo strumento inventato nel secondo dopoguerra fu quella Cassa per il Mezzogiorno rivelatosi una cassaforte la cui combinazione era nota solo alle grandi aziende settentrionali ed estere; lo sviluppo industriale del Mezzogiorno, vera malattia di riformisti d’ogni colore e perfino della sinistra estremista e operaista, è stato così l’alibi con cui la borghesia “padana” ha drenato i fondi per il Sud impiantando capannoni, molti dei quali poi rimasti vuoti, mentre le fabbriche si sono via via ridimensionate e oggi appaiono come scheletri in quei cimiteri che ci ostiniamo ancora a chiamare “zone industriali”. Il fiume di capitali destinato al Sud non solo è finito al Nord, acuendo la differenza con il Sud, ma ha permesso di realizzare nel Meridione aree industriali altamente inquinanti, produzioni pericolose e a forte impatto sull’ambiente e sulle persone, discariche legali e illegali gestite dalle mafie, trasformando il Sud e la Sicilia nel proprio Terzo Mondo. Nel mentre una trasformazione antropologica e sociale stravolgeva assetti urbani e rurali, trasformava contadini e artigiani in operai, privando interi paesi e territori di attività fondamentali, danneggiando l’agricoltura, per poi terminare la sua corsa riducendo i nuovi operai in disoccupati o cassintegrati, elemosinieri o… emigrati.
La classe politica meridionale è stata a questo gioco, ha assolto al compito di gestire la politica sul territorio e fare gli interessi dei padroni del Nord in cambio di potere e privilegi. Con essa la mafia – le mafie – ha svolto un ruolo di primo piano, essenziale per il controllo del territorio, per i consensi più o meno estorti, per risolvere conflitti in maniera rapida e assicurare che le popolazioni del Sud non esplodessero in rivolte pericolose per l’ordine costituito. Grazie a questo il Sud oggi detiene molti record negativi, fra cui il primato di area più militarizzata, sulla quale sono focalizzati i progetti più importanti dell’imperialismo statunitense nel Bacino del Mediterraneo.
Un nord industriale e industrioso, dunque, che da alcuni decenni rivendica una propria autonomia da un Sud palla al piede, e trova nelle istituzioni e nei partiti un referente importante e interessato. Dal federalismo fiscale all’autonomia differenziata, questo progetto sta correndo veloce: non si tratta più solo di gestire per intero le proprie tasse, ovvero il surplus di entrate che in genere dovrebbe essere redistribuito nelle aree deboli del Paese, calcolato sulla differenza tra quanto lo Stato elargisce e quanto nelle regioni si versa, ma anche di esigere che importanti competenze oggi pertinenti allo Stato vengano spostate sulle regioni: ambiente, salute, trasporti, lavoro, istruzione, beni culturali, commercio con l’estero. E’ chiaro come il progetto tenda a rifondare un’Italia di regioni sovrane svuotando l’unità territoriale e accentuando il dislivello economico e sociale con le regioni più in difficoltà.

Diverse sono le chiavi di lettura che questo progetto ci offre:

  1. Intanto c’è una classe politica e delle èlites locali che premono perché possano riacquistare maggiori poteri sul territorio; per far ciò è necessario che ci sia più autonomia, più capacità di spesa, cioè la base di ogni consenso elettorale e non solo.
  2. L’Italia andrà a farsi fottere come entità, e molte regioni saranno in balìa del far west assistenziale e mafioso. Le mafie si caratterizzeranno sempre più non come Stato parallelo (ruolo rivestito sino ad oggi), ma come il Vero Stato.
  3. Ma poi perché il Nord è ricco? E’ una dote naturale, oppure è il frutto della depredazione iniziata nel 1860 e mai esauritasi? Se quindi la pretesa di un’autonomia differenziata si basa su un furto (come in genere avviene per qualsiasi forma di proprietà: Proudhon docet!), su un’usurpazione da cui si fonderebbe il diritto ad un percorso privilegiato verso il benessere, ne deriva che la richiesta di maggiore autonomia può ben definirsi il separatismo dei ricchi e dei ladri.
  4. Perché questo progetto possa attuarsi occorre che il Sud rimanga una dependance del Nord, un vasto territorio in cui scaricare nocività, vendere merci, postare basi militari, erigere frontiere e muri, e, alla bisogna, drenare altre risorse e manodopera. Anche andarci in vacanza come luogo esotico in cui “il tempo si è fermato”: la più sofisticata delle prese per il culo!
  5. Il diritto all’autonomia va riconosciuto a tutti; ma in questo caso l’equivoco di fondo è che non siamo di fronte a una richiesta di autonomia, ma di una differenziazione certificata e spinta, che costruisce e rafforza poteri locali a scapito di altri, che affossa.

Questa situazione, vista da Sud, ha suscitato allarmi e mobilitato forze politiche e sociali “contro il regionalismo dei ricchi”, attivando una serie di percorsi abbastanza eterogenei e caratterizzati da obiettivi e strategie differenti, coniugabili in vario modo: dall’indipendentismo al democratismo al vittimismo rivendicativio. Il fatto positivo è che qualcosa si sia mosso; lo sarà di più se questo qualcosa riuscirà a sfuggire alle mire politicantiste e ai progetti elaborati a tavolino e calati dall’alto sopra i movimenti, cosa, questa, che non si ottiene in automatico; per prima cosa bisogna esserne coscienti, fare un lavoro di approfondimento e lettura non superficiale dei passaggi politici in atto, e poi avere capacità e idee per disinnescare ogni minaccia.
In questo senso non possiamo non notare l’eccessivo sbilanciamento democratico-parlamentare dell’appello de “Il Sud conta!”, rivolto alle massime cariche dello Stato e a deputati e senatori perché blocchino la ratifica dell’accordo sull’autonomia differenziata. Un appello che si richiama costantemente alla Costituzione, e come tale ne subisce tutte le ambiguità e le contraddizioni. E le adesioni raccolte ne sono una prova: personaggi posizionati in tutti gli ambiti della politica e del sindacalismo nazionale, vi si trovano riuniti; e se questo può essere considerato un successo del trasversalismo, ne è certamente il limite più forte.
Al contrario, la proposta di costituire comitati e realtà territoriali che promuovano non solo la battaglia contro il progetto di autonomia dei ricchi ma anche percorsi rivendicazionistici e di riappropriazione del diritto del Sud a non essere la ruota di scorta dell’Italia del Nord, possono trovare nelle comunità quell’interesse e quello stimolo che rappresentino la molla per una rivolta meridionale in grado di ricostruire quell’equilibrio economico-sociale che borghesia e capitalisti, Stato e Mafia, hanno distrutto. Un movimento che parta dal basso può nascere e rafforzarsi; movimento che colleghi le tante situazioni di conflitto, che offra fili comuni, collegamenti, obiettivi unificanti per un cambiamento che investa e scavalchi le istituzioni, senza pretesa conquistarle o utilizzarle, come successo in passato, quando in quelle sabbie mobili sono sprofondate aspirazioni e velleità di cambiamento.

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