Sempre al servizio dei padroni

Governo. Giustizia e capitale sono incompatibili

L’altalena dei dati economici sulla situazione italiana in questi ultimi mesi è stata piuttosto movimentata, certo anche in vista delle elezioni europee di maggio. Premesso che orientarsi nella selva di dati e previsioni che frequentemente vengono resi noti dai più disparati istituti e istituzioni –Istat, Ocse, Commissione europea, Bce, Fmi, e via discorrendo- è piuttosto problematico e forse un esercizio poco utile, sta di fatto che a metà aprile circolavano previsioni sconfortanti che attestavano una recessione tecnica dell’economia italiana il cui Pil è diminuito dello 0,1% nel quarto trimestre 2018 e l’Ocse addirittura stimava un trend negativo per tutto il 2019 con una diminuzione dello 0,2%. Improvvisamente a fine aprile l’Istat rendeva noto che nel primo trimestre 2019 il Pil era cresciuto dello 0,2% e che quindi l’Italia è uscita dalla recessione. Il governo naturalmente si dichiarava soddisfatto di questo risultato. Ma il 22 maggio sempre l’Istat nella pubblicazione “Le prospettive per l’economia italiana nel 2019” gettava nuovo sconforto disegnando un quadro problematico per cui la crescita del Pil sarà solo dello 0,3%, sostenuta quasi esclusivamente dalla domanda interna, che però è diminuita rispetto al 2018, mentre ci sarà una decisa diminuzione degli investimenti. Giustamente, il ministro dell’Interno, vice premier e comandante in pectore Salvini va dichiarando che non è al governo per uno 0,2 o uno 0,3% in più o in meno. Se poi è veramente convinto di riportare agli antichi fasti l’economia italiana con la flat tax, con la finta riforma delle pensioni o il finto reddito di cittadinanza o cacciando tutti gli immigrati, questo fa parte del gioco politico; così come tutto questo profluvio di dati che più che certificare una situazione, che è comunque sotto gli occhi di tutti, sono più utili a mascherare scelte e politiche favorevoli alle classi dominanti sotto il peso della statistica e dei numeri.

Il fatto è che questa crisi prolungata, il cui superamento definitivo viene costantemente posticipato di mese in mese e di anno in anno, sta diventando il perfetto alibi per imporre politiche di austerità che “naturalmente” devono essere a carico dei ceti bassi e medi (con qualche non secondaria differenza tuttavia tra bassi e medi). Sebbene dopo più di un decennio non abbiano prodotto alcun apprezzabile risultato, i governi continuano a riproporre le oramai classiche ricette: taglio spesa pubblica, privatizzazioni, compressione salariale, contratti di lavoro precari, innalzamento età pensionabile, sostegno alle imprese con agevolazioni fiscali e sussidi. Il tutto accompagnato dal mantra della santa triade neoliberale competizione, innovazione e ricerca e come fossimo sempre all’anno zero di un esperimento. Ora se obiettivo fosse quello dell’equità e della piena e dignitosa occupazione è evidente che queste politiche si troverebbero di fronte ad un clamoroso fallimento -persistenza dell’instabilità, della precarietà e della povertà -; ma se obiettivo fosse ridimensionamento del ruolo della classe lavoratrice, ottimizzazione dei profitti, predominanza del capitale si tratterebbe invece di un successo altrettanto clamoroso.

Tuttavia, mentre in molti anche tra grandi istituzioni finanziarie lamentano (siamo democratici e civili suvvia nel 2019!) approfondimento delle disuguaglianze, instabilità economica ed emergere di sovranismi e populismi, quali potrebbero essere le alternative a questo sistema? Molti adesso invocano un nuovo protagonismo degli Stati, un nuovo keynesismo. Anche i grandi capitani coraggiosi della nostrana Confindustria, che teoricamente dovrebbero mostrare tutta la loro determinazione nel farsi valere in un contesto realmente competitivo e concorrenziale, si presentano con la faccia fessa del loro attuale capo che auspica un ruolo decisivo del governo. Ma un serio keynesismo dovrebbe prevedere in primo luogo consistenti aumenti salariali, la difesa del lavoro e dei lavoratori, una forte tassazione dei grandi patrimoni per una coerente distribuzione delle ricchezze che possa re-innescare e ri-orientare i consumi, anche tenendo conto delle emergenze ambientali, la redistribuzione e la riduzione delle ore di lavoro per un uso più “umano” delle potenzialità della tecnologia, il superamento dei due tabù intoccabili del neoliberismo: l’inflazione controllata e la spesa pubblica in deficit. Ma quali governi si assumerebbero oggi un simile programma in Italia, in Europa o altrove? Nessuno. Lo si è visto con la Grecia di Tsipras, lo si vede anche con la Spagna di Sànchez, nonostante qualche timido vagito socialdemocratico. Lo abbiamo sperimentato in Italia quando i “buoni propositi” espressi dai lega-stellati all’inizio della loro avventura di governo si sono infranti contro un fuoco di sbarramento che ha coinvolto istituzioni europee, potentati e benpensanti italiani e stranieri.
Eppure il keynesismo, la socialdemocrazia compatibile col capitalismo l’abbiamo già sperimentato e a conti fatti non ne è venuto fuori un mondo migliore se oggi ci ritroviamo in questa situazione o se un mondo migliore ne sarebbe potuto venir fuori il capitale ne ha impedito il compimento. Dunque la questione è sempre quella antica, classica, tradizionale: non è possibile realizzare una società equa, giusta, libera all’interno di un sistema che si fonda sui mercati concorrenziali (o presunti tali), sul profitto e sulla mercificazione del lavoro. In una parola giustizia e capitale sono incompatibili. Chiunque sostenga il contrario sa di mentire.

Angelo Barberi

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