Guerra vera e falsa pace

I venti di guerra spirano come non mai, e non potrebbe essere diversamente: la guerra è il miglior modo di far politica, un esercizio muscolare più utile delle parole, una macchina distruttiva molto amata dai mercati (fa alzare il pil, il prezzo del greggio, i profitti), e non si capisce come molti ancora continuino a sottovalutarne la sua centralità nelle relazioni internazionali e nei fatti quotidiani. La guerra è figlia degli Stati, è nel loro DNA, e nessuno potrà mai mutare il senso né dell’una né degli altri.
Le recenti scaramucce USA-Iran, con al centro il controllo delle rotte petrolifere, mantengono sempre sul filo del rasoio gli equilibri mondiali; nel baratro però ci sono tutti quei popoli che le guerre, quelle vere, le subiscono, nel silenzio complice delle società occidentali: come lo Yemen, schiacciato tra Arabia Saudita e paesi sunniti suoi alleati (i principali fornitori di petrolio dell’Occidente) e aree sciite (Iran, Siria, con supporto russo); come la Palestina perennemente sotto il giogo di uno Stato di Israele da sempre elemento destabilizzante nell’area; come la Siria del Nord liberata e autogovernata dai curdi e assediata dalla Turchia; come il Corno d’Africa e i suoi conflitti “invisibili”, come la Libia, terreno di un’altra guerra internazionale per procura, come i tanti conflitti sanguinari circondati dall’indifferenza, sparsi in giro per il Mondo. A cui vanno affiancati i tentativi dell’America di Trump di risolvere manu militari la questione venezuelana, la situazione del Dombass al confine tra Ucraina e Russia, il Kosovo, ecc.
Venti di guerra che macchiano la falsa pace tutta occidentale e perbenista, che fa recitare il luogo comune secondo cui questa Europa ci avrebbe regalato 60 anni di pace: si dovrebbe raccontarlo ai baschi e agli irlandesi, alle popolazioni della ex Yugoslavia; si dovrebbe soprattutto raccontare a tutti quei popoli che hanno dovuto subire, a casa loro, gli interventi degli eserciti europei o statunitensi, o russi, a tutte le ex colonie europee in Africa passate dal dominio militare a quello economico (sempre sotto tutela militare). E poi, su tutto, c’è la grande guerra del secolo: la guerra ai migranti, che da Nord a Sud, da Est a Ovest parla una sola voce: quella dei muri, delle carceri, dei respingimenti, delle morti lungo le linee di confine, nei mari e dentro i fiumi, e quella dello sfruttamento disumano di quelle “quote” necessarie al sistema occidentale per reggersi.
E non è un caso se le spese militari siano continuate a crescere (alla faccia della crisi economica), le basi a rafforzarsi, potenziarsi, ristrutturarsi, perché la macchina militare va sempre alimentata, è un mostro che dev’essere nutrito di continuo, e il suo cibo preferito sono i servizi ai cittadini, i salari e i redditi dei lavoratori, le possibilità di una vita migliore per tante persone. L’ipoteca militare si abbatte su tutta la società, e a questo dio si inchinano e sottomettono i politici d’ogni risma, a cominciare dai nostri pentastellati, dimostratisi servi del militarismo senza indugio alcuno (nuovi stanziamenti per oltre 7 miliardi, acquisto F-35, rifinanziamento delle 24 missioni militari, prossima missione in Siria al servizio degli USA, ecc.).
Il sistema militare italiano, NATO e USA in questi mesi sta subendo una profonda ristrutturazione vista la sua crescente centralità nello scacchiere internazionale; la costruzione, a Sigonella, di un nuovo grande sistema di comunicazioni/informazioni USA (ne scrive Mazzeo a pag. 6) ne è la riprova. Col MUOS, le basi esistenti, il potenziamento di Lampedusa, l’ ”hub of the Med” della Piana di Catania riveste un’importanza strategica fondamentale nelle guerre di questo secolo, nei piani americani di controllo/intromissione/direzione delle politiche statuali in molte aree del Pianeta, nelle guerre commerciali degli USA contro i principali rivali Cina e Russia. Gli USA si preparano anche a governare militarmente le conseguenze delle prossime catastrofi climatiche posizionandosi in maniera adeguata e preventiva nelle aree dei quattro continenti dove possiedono circa 5000 postazioni. Inoltre l’esercito statunitense rimane il più grande apparato istituzionale consumatore di idrocarburi al mondo; esso da solo consuma più carburante ed emette più gas di scarico della maggior parte degli stati di media grandezza. Come dire: non c’è bisogno di usare le armi per fare danno, basta esistere!
Da qui la nostra insistenza a non scorporare mai la questione militare da tutte le altre che interessano il mondo delle lotte sociali; le guerre vere e proprie, che esistono, sono tante, e continuano ad aumentare, le politiche di difesa, le produzioni di armamenti e il loro commercio, le costruzioni e il mantenimento di basi militari, rappresentano un obiettivo contro cui rivolgere il nostro interesse e le nostre battaglie in maniera sempre più efficace.

Pippo Gurrieri

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