Il futuro in noi

Clima. Non ci salveranno il Capitalismo e gli Stati

“Salviamo il mondo, la terra è una sola”, scandiscono milioni di giovani che in tutto il mondo protestano contro l’immobilismo dei governi inerti e complici del cambiamento climatico che, come sostengono scienziati ed esperti, potrebbe da qui ai prossimi trent0anni produrre serie conseguenze per la stessa sopravvivenza del nostro pianeta e delle specie che lo abitano. Si è appena concluso il vertice ONU sul clima ed è stato reso noto il rapporto dell’IPCC (il comitato scientifico sul clima); così mentre al di là di generici impegni governi e imprese non sono andati, gli scienziati lanciano l’ennesimo allarme. La grande esposizione mediatica che il vertice ha avuto è frutto anche della protesta portata avanti da un anno a questa parte dalla giovane svedese Greta Thumberg, attorno alla quale si è venuto coagulando un movimento di proporzioni mondiali che sembra assumere i contorni dello scontro generazionale in cui gli anziani vengono accusati di rubare il futuro delle nuove generazioni, e i giovani vengono chiamati a reagire, a riappropriarsi del loro destino. Dove quindi la saggezza sta dalla parte degli adolescenti e l’egoismo e l’ottusità da parte dei vecchi. Quanto e se il trasporto e l’empatia suscitati dalla appena sedicenne Greta possano effettivamente dare vita ad un movimento capace di scardinare non solo abitudini ma anche rapporti di forza e strutture di potere non è possibile prevedere. Certo è un bene che i giovani e meno giovani comincino a prendere coscienza di quanto sta accadendo, che si apra un dibattito pubblico. Tuttavia i rischi che questo dibattito parta già con le carte truccate, che si esaurisca in una pubblica resipiscenza di facciata che lascia le cose come stanno, sono molti e già in atto. Un piccolo saggio dell’atteggiamento camaleontico che caratterizza le élite al potere e i loro scherani – i quali sanno piuttosto bene come stanno le cose ma non fanno nulla di realmente serio perché il fare comporterebbe un disconoscimento del loro stesso operare – si trova su La Stampa del 23 settembre scorso in un articolo intitolato enfaticamente “Un patto per salvare il pianeta: “Servono leggi e investimenti per inquinare di meno, educare le nuove generazioni al rispetto e creare infrastrutture capaci di proteggere i cittadini dai cambiamenti climatici […] E’ una sfida che sovrappone ambiente e sicurezza, può essere solo vinta con una partnership innovativa fra Stati e aziende private ed ha bisogno del contributo di tutti noi. Perché salvare un albero significa salvare il mondo intero“. Adesso, sorvolando sulla patetica conclusione, l’articolo è interessante per capire qual’è il punto di vista delle classi dominanti e quale macchinazione propagandistica viene messa in atto per orientare buona parte di un opinione pubblica moralmente suscettibile. Alcune parole ed espressioni sono rivelatrici: educazione, protezione, sicurezza, contributo di tutti, accordo Stato – impresa. Ecco disegnato un orizzonte chiaro e rassicurante: lo stato si preoccuperà di educare e proteggere tutti noi, che siamo chiamati a dare ciascuno il nostro contributo, le imprese forniranno il necessario supporto economico e tecnico per fronteggiare ed evitare il disastro. Si tratta di un impegno più morale che politico. Per questo si cancellano responsabilità, strutture sociali, rapporti di forza, organizzazione del lavoro e del mercato. Le responsabilità poco importano, strutture sociali e organizzazione economica possono essere riorientati dentro la cornice degli attuali rapporti di classe. Tutto ciò lo chiarisce ancora meglio il titolo dell’articolo di pagina 3, sempre dello stesso numero del quotidiano torinese, “Sfida green economy. Milioni di posti di lavoro e affari per miliardi”. Nella stessa pagina sono individuate le cinque regole per “riconvertire l’economia”: differenziare i rifiuti; risparmio energetico; investimenti etici e rispettosi dell’ambiente; trasporti sostenibili, bus, piedi, bici, auto elettriche o ibride; combattere spreco alimentare, spesa intelligente, filiera corta. Insomma tutto un armamentario piuttosto noto e condivisibile, ma così generico e anche banale da essere pura propaganda, pura astrazione, completamente disincarnato dalle concrete relazioni sociali. Come se gli stili di vita fossero solo libere scelte e non dipendessero dalla struttura sociale, dall’organizzazione del lavoro, dalla distribuzione dei redditi, tutti gli aspetti strettamente legati e dipendenti dal sistema di mercato competitivo-concorrenziale. E come la mettiamo con la grande distribuzione che impone consumi e strategie produttive e con le multinazionali che hanno brevettato sementi controllando il ciclo delle produzioni agricole? E se gli investimenti sono intangibili e la crescita, ora sostenibile, un tabù? Perché qui non si tratta di cambiare semplicemente stili di vita, cosa peraltro in queste condizioni impossibile, o di educare i giovani a tenere pulito il loro angolino. Quale governo si azzarderebbe oggi ad esempio ad annullare i brevetti sulle sementi, che si tirano dietro quelli sui pesticidi chimici, che sono responsabili di inquinamento dell’aria e dei suoli? Nessuno, direbbero che ci sono i contratti, che vanno rispettati, così è il diritto, ecc.

L’emergenza climatica e ambientale è reale e nessuno la può negare. Il capitale e gli Stati, che l’hanno determinata, sono alla ricerca di una soluzione che possa conservare gli attuali assetti politici, economici e sociali. Quali misure adottare e come tradurle in pratica non è ancora chiaro, ma l’apparato ideologico che deve supportare la supposta transizione al mondo nuovo è stato già dato in pasto ad un’opinione pubblica preoccupata e condiscendente e si nutre di parole accattivanti, seppure vuote: green economy, sostenibilità, economia circolare. In questi anni Stati e imprese si sono mossi in modo contraddittorio e superficiale, anteponendo sempre le esigenze di profitto nelle loro scelte, un orizzonte che non è stato dismesso. Se prendiamo ad esempio la politica energetica e il sostegno alle fonti rinnovabili, in primo luogo eolico e fotovoltaico, a guidare gli interventi sono stati speculazione e clientelismo.

Se è vero che il tempo è scaduto, che il disastro è dietro l’angolo, come possiamo affidare il destino dell’umanità a governi e multinazionali che nicchiano, che promettono e non fanno nulla, che hanno una visione del mondo subalterna alle logiche del profitto e dell’accumulazione, che non si preoccupano di avere depredato e di continuare a farlo, risorse naturali e popolazioni in ogni angolo del pianeta? E se la popolazione assumesse direttamente il compito di guidare la transizione che deve essere rapida e radicale? Le alternative ci sono, le pratiche di un’agricoltura naturale legata ai territori e alle necessità locali sono in atto, le conoscenze e gli strumenti per realizzare un’economia del riuso, del riciclo e soprattutto della reciprocità sono noti. Sono proprio i governi e le piccole, medie e grandi imprese votate al profitto ad ostacolarne la diffusione.

Angelo Barbieri

 

 

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