Resisti Rojava!

Curdi. Fermiamo Erdogan e i suoi complici

 

Una rivoluzione sotto attacco. E non poteva essere altrimenti. Chi, tra gli Stati imperialisti, tra le dittature variamente travestite, tra i regimi militari dell’area mediorientale, e nella stessa ipocrita e falsa Unione Europea, avrebbe potuto tollerare a lungo un processo rivoluzionario in un territorio grande più o meno quanto il Piemonte, che si propone di andare oltre la semplice conquista di uno spazio di non guerra per il popolo curdo e tutte quelle popolazioni costantemente decimate da genocidi sia materiali che culturali? Nessuno.
Se il Confederalismo democratico nella Siria del Nord, o nel Kurdistan occidentale (Rojava, appunto) è stato tollerato, è stato per tutta una serie di fattori che si sono venuti a intrecciare. In primo luogo la forza morale e politica della rivoluzione stessa, la sua capacità di parlare direttamente al cuore di popoli vicini e lontani, di spaccare vecchi pregiudizi, antichi tabù e tutti quei percorsi statal-nazionalistici dimostratisi perdenti. In secondo luogo la contingenza spazio-temporale di una guerra esplosa nel 2012 in Siria, alla quale le popolazioni del Nord si sono sapute sottrarre per sfruttare l’occasione di sviluppare la propria originale idea di democrazia dal basso e senza stato già in atto nella Turchia meridionale e in alcuni territori sotto controllo curdo. Quindi l’avanzata dell’ISIS, che indusse le stesse potenze a giocarsi la carta dei curdi, tenendo a bada lo Stato turco, per bloccare lo Stato islamico e cominciare a liberare i territori da esso occupati; questo fatto, con tutte le sue tragiche espressioni di terrore: decapitazioni, shaaria, schiavismo femminile, assedio di Kobane, e – non ultimi – gli attentati nelle capitali europee – fece uscire il Rojava dall’accerchiamento anche mediatico facendolo entrare nell’anima pulsante di movimenti solidali sparsi in tutto il mondo; fece affluire i combattenti internazionali, rafforzò l’autonomia territoriale e amministrativa.
In questo contesto gli Stati Uniti appoggiarono strategicamente i curdi delle YPG-YPJ, così come questi accettarono la tattica del supporto reciproco, rimettendoci, per altro, in termini di perdite di vite umane.
Ora i giochi delle grandi potenze sono finiti o sono mutati, e nessuno può permettersi un territorio autonomo in questo spicchio di terra in cui si pratica un’altra democrazia, un’altra eguaglianza , un’altra idea di convivenza tra generi, fedi, lingue ben diversa da quella dei mercati e delle banche internazionali; ognuno ha da anteporre motivi “superiori” alla causa di un popolo la cui cancellazione fu varata ufficialmente al tavolo dei vincitori della prima guerra mondiale e mai più revocata. Per questo è vietato all’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord e dell’Est di partecipare al Comitato costituzionale per la Siria voluto dall’ONU: ufficialmente quei 5 milioni di persone non han diritto a rivendicare la propria autonomia all’interno di una Siria pacificata: anche se non lo si dice, rimangono “terroriste” o invisibili, come vuole il sultano di Ankara.
Il popolo del Rojava quindi è tornato ad essere solo, forte della sua forza morale e della sua fede nella rivoluzione e nelle sue conquiste, ma debole davanti al secondo esercito più forte della NATO, davanti alla volontà del dittatore turco di cancellare un esperimento pericoloso per le sue strategie di annientamento dei valori democratici, laici, femministi incarnati nella lotta del popolo oppresso curdo e ben presenti nella società turca, e nello stesso tempo obbligato alla guerra dalla perdita di consensi dentro il proprio paese.

Non è facile vincere il disagio di dover constatare quanto l’ipocrisia degli Stati cosiddetti democratici stia contribuendo a questo nuovo massacro, assistere alla presa per il culo delle dichiarazioni anti turche emesse dai governi europei o anche dal parlamento USA, cui non segue nessun fatto concreto, perché ancora una volta sulla bilancia del capitalismo e dei governi ci sono da una parte i curdi, il Rojava, la rivoluzione, con il loro scarso peso, e dall’altra i contratti commerciali con la Turchia, gli interessi economici nell’area (petrolio, gas, commesse miliardarie in lavori pubblici), la tenuta del patto con Erdogan per tenersi gli oltre 3 milioni di migranti nei campi lautamente finanziati dall’UE, la stabilità della NATO. Quei cacciabombardieri, quei carri armati, quei droni, quelle bombe al fosforo, quelle distruzioni di ospedali, villaggi, quelle fughe in massa da paesi che avevano appena conosciuto la pace e la libertà, portano la firma del dittatore turco come di tutti i suoi complici, si chiamino Putin o Trump, Merkel o Macron o Conte.
Non è facile sopportare il senso di impotenza che ti assale quando sei lontano dagli eventi e ti rendi conto di quanto poco tu possa fare per contribuire ad incidervi; non è facile constatare quanto limitato sia protestare, manifestare, discutere, raccogliere fondi per contribuire alla vittoria della rivoluzione in questo pericoloso momento per la sua sopravvivenza.
Eppure tutti noi dobbiamo sforzarci di superare disagi, sensi d’impotenza, difficoltà, perché la rivoluzione lo esige; perché quelle donne e quegli uomini hanno bisogno anche dei nostri slogans, delle nostre sottoscrizioni, delle nostre piazze, sedi, sale più o meno piene, perché la loro resistenza si alimenta anche di questo, anche se poi loro sono in prima fila a sparare. Ma essere là e sapere che in tutto il mondo c’è sostegno, ha un grande valore morale e politico. Reciproco. E il sostegno può voler dire tanto: denuncia, aiuti concreti, informazione, mettere in difficoltà i governi ipocriti e falsi, sforzarsi di indurli a cambiare politica.
Lo sanno in Rojava, come lo sappiamo noi, che l’avanzata dell’esercito turco e delle truppe jihadiste sarà anche l’avanzata della schiavitù femminile, della legge coranica, dei tagliagole e della violenza quotidiana senza pietà; per questo sanno di non avere altra scelta che resistere: perché la striscia occupata dalla Turchia e pattugliata assieme ai russi e all’esercito siriano, non faccia la fine di Afrin, dove la sostituzione etnica è già avvenuta, dove è ritornato il medioevo dei macellai e l’oppressione patriarcale, nel silenzio generale delle belle coscienze occidentali. E lo sappiamo anche noi, che dobbiamo gridare più forte, occupare più strade, raccogliere più fondi, aiutare più volontari a recarsi a combattere in Rojava, accerchiare i governi alleati del fascismo turco, le imprese di armi e civili che fanno affari con esso, sputtanare i falsi amici dei curdi e della rivoluzione. Senza tregua.
Senza l’imposizione di una zona di sicurezza sotto controllo internazionale, senza un No-Fly-Zone che impedisca ai bombardieri di volare, senza una reale prospettiva di liberazione di Ocalan, senza una pressione costante nei riguardi dei complici politici e commerciali dello Stato turco a casa nostra, non ci può essere futuro per la rivoluzione in Rojava. E forse per chiunque, ovunque, desideri e lotti per un mondo migliore.

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