Stranamore

L’uccisione del generale Soleimani (un signore della guerra responsabile di immani tragedie in tutta l’area) e di alcuni leader militari, avvenuta a Baghdad il 3 gennaio ad opera dell’esercito degli Stati Uniti, con l’utilizzo di un drone, sotto il diretto ordine di Trump, fa ritornare in auge il tema della guerra. Non solo in un territorio che di pace non ne conosce da decenni, bensì in tutta l’area mediorientale e mediterranea, e, a caduta, in tutto il mondo.
L’atto statunitense sembrerebbe dettato da follia militarista, in realtà rientra in un preciso disegno dai molteplici risvolti: alimentare un clima di tensione internazionale fa sempre comodo alle industrie di armamenti, ai produttori di greggio, e in chiave di politica interna alza il livello del consenso verso un presidente USA costretto a controbattere agli attacchi degli avversari. Una mossa azzardata e forse azzeccata, le cui conseguenze sono valutate comunque come secondarie, un prezzo da pagare sicuramente da altri.
Anche il regime iraniano, da mesi costretto a fronteggiare una rivolta popolare contro il caro vita e per la democrazia, trarrà cinicamente vantaggio da questo attacco, rinsaldando il consenso della popolazione contro il nemico esterno, il diavolo americano. La guerra finisce sempre per soccorrere i potenti. Saranno solo cazzi amari per le popolazioni che verranno coinvolte nell’escalation che seguirà.
E le conseguenze saranno in parte imprevedibili. L’area è già abbastanza infiammata e anche una fiammella può dare il via all’incendio; figuriamoci ora che non si tratta di fiammella bensì di intervento col lanciafiamme. L’Iran, con tutti i suoi affiliati sparsi per il mondo sciita, sarà costretto a reagire per non perdere la faccia e per dare sfogo alle grida di vendetta, proseguendo così con un’accelerazione patriottica, nazionalista e bellicista, la politica di cancellazione delle proteste di piazza e di repressione di chi vi partecipa. Non solo Israele, le missioni militari occidentali (italiane comprese) presenti in Iraq, Libano e nell’area, ma le attività commerciali, gli obiettivi sensibili a portata di commandos piccoli e sparsi per il mondo, da oggi non sono più sicuri.
Gli Stati Uniti, tornano all’uso della forza dopo i fallimenti delle loro guerre in Medio Oriente. Enduring freedom, libertà duratura, ha finito per lasciare solo macerie in Iraq, dare in pasto all’ISIS interi settori dell’esercito e della popolazione e fette di territorio, e mettere nelle mani dell’odiato Iran il governo di Baghdad. Lo stesso accade in Afghanistan, dopo quasi vent’anni di occupazione militare e guerra, dove cercano l’accordo con i “terroristi talebani” per uscire dalle sabbie mobili in cui si sono cacciati. In Siria hanno dato via il libera allo stato terrorista turco di invadere l’area di frontiera del Rojava, e implicitamente hanno permesso a Erdogan di preparare l’intervento militare in Libia e allargare i suoi interessi petroliferi e militari al Mediterraneo centrale. Una politica suicida? O una lucida pianificazione strategica volta a infiammare un’area per tenervi impantanati i propri concorrenti russi ed europei, sperando che magari anche la Cina si decida a metterci gli scarponi?
E noi? E’ stato un drone a colpire Soleimani e gli altri leaders militari; un drone con ogni probabilità guidato dal sistema MUOS, entrato in funzione lo scorso ottobre, inaugurando la guerra in cui muoiono solo gli altri, i nemici degli Stati Uniti. Una guerra in cui la Sicilia ha sicuramente un ruolo, e di cui è conseguentemente obiettivo sensibile. La base MUOS più vicina a Baghdad è quella siciliana, attaccata alla mammella di Sigonella, capitale mondiale dei droni. Nessuno lo dice, nessuno lo spiega, perché è imbarazzante dichiarare che l’Italia è in prima fila, oltre che con le proprie missioni di addestramento dell’esercito e della polizia irakena, anche con le basi USA (e non solo Nato) sul proprio territorio. Ma l’Italia è in prima fila anche per le sue politiche militariste (le uniche spese in crescita sono quelle militari) e per l’incapacità a giocare un ruolo di pace in Libia, che il ministro degli esteri si ostina imbecillemente a definire zona in cui abbiamo un ruolo “naturale”, dopo aver contribuito alla sua destabilizzazione.
Aspettiamoci di tutto nelle prossime settimane e mesi. Ma sopratutto, per favore, che si torni a dare centralità alla lotta contro la guerra, e a creare conflittualità nei territori militarizzati.

Pippo Gurrieri

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