L’EMIGRAZIONE E IL SUO RIFIUTO

Mezzogiorno. Sui movimenti contro l’esodo

Nei paesi del Mezzogiorno una presa di coscienza lentamente va trasformando un sentimento e un malessere in un desiderio di riscatto: giovani e non giovani scendono in piazza in vario modo e sotto diverse forme aggregative per dire No all’emigrazione, allo spopolamento delle città e dei paesi, all’impoverimento che ne consegue per la società meridionale. Anche i grandi organi d’informazione hanno cominciato a dedicare sempre più spazio al fenomeno, coniugando i dati della Fondazione Migrantes a quelli dell’AIRE, o a quelli dell’ISTAT e dei tanti istituti che offrono letture più o meno simili della “fuga” di cervelli, della mancanza di sbocchi alle aspirazioni dei giovani in Italia in generale, e nel Sud in particolare, che perde forze ed energie a vantaggio del Nord Italia e dell’Estero.
Un anno fa su queste colonne scrivevamo: “L’antico dilemma: servi, emigrati o ribelli torna a riproporsi, con la seconda opzione che si fa strada prepotentemente. L’emigrazione è una sconfitta figlia di altre sconfitte; è spesso la prospettiva più ovvia dopo i fallimenti delle tante lotte che hanno animato i territori nel tentativo di spezzare le ipoteche che gravavano e gravano su di essi”.
I grandi flussi che hanno animato le correnti migratorie dal Sud e dalla nostra Isola verso le Americhe, l’Europa del Nord e il Centro e Nord Italia sono seguiti ora alla sconfitta dei moti contro l’Unità Italiana, quando si gridava “O briganti o emigranti”; ora alla sconfitta del movimento dei Fasci dei Lavoratori; o ancora nel secondo dopoguerra, alla sconfitta delle lotte contadine e operaie degli anni cinquanta. Sono stati milioni i siciliani costretti ad abbandonare la propria terra.
Ci sono state battaglie al Nord (a cui molti di noi abbiamo partecipato e di cui questo giornale, nei suoi 40 anni di vita, ha dato conto) per il ritorno, per i trasferimenti: lotte che hanno avuto il loro perno in categorie legate all’impiego statale o a grandi aziende, a cominciare dalle ferrovie. Oggi la novità è che nel Sud si comincia a parlare di non partire, di non voler soccombere a un destino deciso altrove, che continua a muovere persone come fossero numeri, ad accrescere il dislivello economico, sociale, produttivo, tra le regioni, a trasformare questa in una terra di pensionati e assistiti, un grande mercato per le merci settentrionali e multinazionali, o un sito strategico per la produzione di energia e per le guerre del capitale mondiale.
Sono sorte aggregazioni diverse aventi tutte lo stesso fine: combattere l’emigrazione, promuovere una protesta sociale perché qui al Sud si gettino finalmente le basi per ottenere lavoro, servizi, infrastrutture, reti sociali e culturali capaci di trattenere i giovani. Come con il dissesto idrogeologico, che si combatte con la piantumazione di alberi le cui radici dovranno trattenere i movimenti franosi, così questi aggregati si propongono di mettere radici per trattenere i movimenti migratori, lo spopolamento, e tutte le loro nefaste conseguenze sociali, umane e psicologiche.
Partendo dai territori, dalle loro peculiarità, dai problemi più gravi ed irrisolti, dalle esigenze più diffuse, si possono individuare sbocchi attorno ai quali definire e concentrare forme rivendicative che comportino la possibilità di non dover più “fuggire” altrove, ma di impegnarsi perché il luogo, la comunità, possano vivere un’inversione di tendenza. Si tratta di un riscatto che va diventando lentamente esigenza di tanti, stanchi di subire, di sopportare in silenzio la “malasorte”, di dover vivere con impotenza non solo il distacco degli affetti, ma anche il vuoto sociale, il degrado urbano, la sconfitta.
Non saranno (non lo sono mai stati) i governi di turno, i politici di professione, a fornire la soluzione a questo genere di problemi; le loro soluzioni sono state il clientelismo, i favori elargiti in cambio del servilismo, il paternalismo, la rassegnazione. E sarebbe un grave errore sprecare energie per richiedere al governo regionale (o nazionale) di fare qualcosa, così come lo sarebbe sfilare in cortei interclassisti, ammucchiate che non badano ai ruoli e alle posizioni, e confondono le vittime con coloro che invece hanno responsabilità in questa situazione. Dal basso invece è possibile trovare le soluzioni vere, durature, necessarie alle comunità territoriali. Perché non è il lavoro a mancare in un Terra così bisognosa di interventi funzionali alla sua rinascita, e questo lo sanno solo quanti ci vivono, soggetti ai ricatti di un lavoro diventato merce di scambio e privilegio. Occorrono soluzioni che permettano a chi decide di non emigrare e a chi pensa di tornare, di non dover fare un salto nel buio. Tutto questo è difficile, poiché le redini dell’economia sono in mano alle banche e agli enti economici da esse controllati, a meccanismi burocratici locali o europei sorti per imbrigliare ogni cosa.
Lo abbiamo scritto altre volte e lo ribadiamo: ci sono aspetti su cui è possibile costruire una mobilitazione forte capace di conquistare sbocchi occupazionali a vari livelli: la messa in sicurezza dei territori dal degrado idrogeologico e dalle speculazioni; le opere di sicurezza antisismica delle città e dei paesi. Le bonifiche: a partire dai territori annichiliti dallo sfruttamento industriale, dove terra, mare, aria sono pregne di veleni; ricostruire le possibilità di una nuova vita con una potente opera di disinquinamento, che comprenda anche il ciclo dei rifiuti. La mobilità: puntare sulla ricostruzione delle reti di comunicazione per dotare il territorio di infrastrutture efficaci, pulite, come le ferrovie, come strade sicure che colleghino i piccoli centri, spesso isolati per mesi e anni da frane e dissesti vari. Il governo delle acque, infine, quale ambito in cui va affrontata la questione dell’approvvigionamento delle campagne (laghetti collinari, ad esempio) per permettere l’attività agricola senza le minacce della siccità, e l’approvvigionamento dei paesi, con un controllo dal basso delle gestione pubblica delle fonti e delle strutture idriche. Il rilancio dell’attività agricola in tale contesto diventa opzione centrale se la si proietta nel futuro disastroso che ci attende. Ma anche una nuova attenzione all’educazione e all’istruzione può frenare la partenza di studenti e insegnanti e rimettere in cammino il Sud. Però, oggi più che mai è questione di metodi: scioperi alla rovescia, azione diretta, pressione costante… ed oltre: sono le uniche pratiche utili per strappare obiettivi validi.
Le statistiche ci continuano a tartassare di dati sul calo delle nascite: come se questo fosse fenomeno sganciato dal sottosviluppo, dalla mancanza di lavoro, dalla mannaia dell’emigrazione e della precarietà di vita.
Un movimento contro l’emigrazione non può che essere tutt’uno con i movimenti che si battono contro i progetti impattanti (civili, militari, industriali) imposti ai territori, o che si battono per la salvaguardia dell’ambiente (ma senza farsi infinocchiare dalla trappola dell’economia green), e con tutti quegli altri che portano avanti progetti di benessere e miglioramento delle condizioni di vita. In una prospettiva di giustizia sociale che includa la presenza delle persone provenienti da altri continenti nei progetti di rivitalizzazione dei paesi e dei territori e di cambiamento sociale di e per tutti.

L’antica parola d’ordine “O briganti o emigranti” va ripresa e rilanciata: o si parte, o si resta (e si torna) ma per lottare, da nuovi briganti, liberi dal controllo dei poteri e dei potenti, senza tregua per il riscatto sociale.

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