La città Città Aurea: una sottile apologia del Fascismo


Il 7 febbraio, dopo un battage pubblicitario da grandi occasioni, alla presenza del Presidente della Regione Nello Musumeci e di un pomposo nugolo di personalità regionali e locali, presso la Sala Borsa della Camera di Commercio di Ragusa oramai espropriata da quella catanese e ceduta solo dietro lauto compenso ai comuni mortali, è stata inaugurata la mostra fotografica “La città aurea – Urbanistica e architettura a Ragusa negli anni Trenta”.
L’evento è stato fortemente voluto dallo stesso Musumeci, uomo dalla lunga carriera politica trascorsa tutta all’interno dei partiti neofascisti e post-fascisti, che non ha mai cessato di rivendicare le sue idee nostalgiche del ventennio che fu; la Soprintendenza per i Beni Culturali e Ambientali di Ragusa lo ha materialmente realizzato avvalendosi del supporto di un apposito comitato scientifico.
Sin dai primi lanci mediatici si è generato un grosso equivoco: che la città di Ragusa, unica e sola, splendente come stella nel firmamento opaco delle città siciliane, fosse “la città aurea”, titolo scaturito dalle fortune seguite alla sua erezione a capoluogo della nuova provincia del Sud-Est alla fine del 1926. Aureo fu perciò quel periodo di rapido sviluppo urbanistico e architettonico che accompagnò gli anni di consolidamento del regime fascista da cui scaturì la proclamazione a capoluogo. Perché sarà pur vero che la città aveva già acquisito una importanza economica e produttiva che la portava a primeggiare nel circondario di Modica, ma è anche vero che un ruolo centrale l’ebbe il contenuto della frase dettata da Mussolini che si volle immortalare sulla torre della Piazza dell’Impero, quella della Casa del Fascio, della Gioventù Italiana del Littorio, della sede del PNF, delle adunate fasciste, ecc.: “Fascismo ibleo fu primo a sorgere nella generosa terra di Sicilia”.
Ma ecco, appunto, l’equivoco: il progetto della Regione Siciliana non riguardava solo Ragusa: si sono svolte in precedenza altre manifestazioni in altre “città auree”, come Catania e Agrigento, e via continuando. Anche un fanciullo, a questo punto, ne concluderebbe che se sono tutte auree, allora nessuna è aurea perché brilla di luce propria. Diciamocelo chiaramente: per gli ideatori del progetto aurea non è una città specifica, ma il periodo, quel periodo, il ventennio fascista, e i suoi progetti di pianificazione urbanistica di stampo razionalista, degli anni Trenta in particolare.
Insomma, tutta l’operazione trasuda ancora di una punta di pudore, un filo sottile sottile con cui si vorrebbe tenere mal-celato il fatto incontrovertibile che si tratta di apologia dell’architettura razionalista di epoca fascista, ovvero di quanto di buono e di bello abbia fatto il fascismo. Tanto che, sia un giornale on-line che il maggior quotidiano diffuso in città, hanno avuto l’ardire di titolare uno degli articoli dedicati all’evento: “Com’era bella Ragusa quando era fascista”.
Il Presidente della Regione, nel suo intervento durante l’inaugurazione della mostra ragusana ha affermato che essa rappresenta “uno spaccato sulla storia dell’architettura del Novecento”. Il soprintendente architetto Giorgio Battaglia ha definito questo periodo “la seconda rinascita di Ragusa dopo quella seguente il terremoto del 1693”. E già, Ragusa e la sua architettura come oggetti smarriti in un contesto astratto o addirittura inesistente: semplici disegni, vecchie foto, spruzzati di nostalgia innaffiati di malafede.
Il fulcro dell’operazione revisionista è proprio qui: affrontare gli anni Trenta in Italia, in Sicilia, a Ragusa, dall’esclusivo punto di vista dell’architettura razionalista, astraendola dal quadro politico, sociale, economico, culturale dentro il quale maturava, si sviluppata e veniva utilizzata impiegando l’estro di architetti ed artisti fedeli alla dittatura, cui avevano prestato giuramento, con in tasca la tessera del PNF, acquisita anche solo per vigliacco e opportunistico arrivismo o quieto vivere. Mentre avanzava l’opera costruttiva, tutt’intorno prevaleva lo stato di degrado, sia nel neo capoluogo che negli altri centri della provincia, dove di razionale c’era solo il fango, la polvere, la lotta quotidiana per la sopravvivenza, e la paura di finire sotto la mira degli spioni e degli sbirri.
Cosa rappresentava l’aureo “trionfo” urbano per i braccianti e i contadini zittiti dal piombo delle squadre fasciste in una stagione di immani violenze, privati delle loro organizzazioni, messe al bando, e della possibilità di esprimere anche un flebile dissenso? E qual era la condizione dei lavoratori in quegli stessi anni Trenta? perché furono sicuramente manovali, muratori, artigiani a costruire l’architettura del regime, non certo intellettuali di grido e ben pagati. Tutte quelle opere non bastarono a evitare che una massa di affamati venisse spedita in Africa Orientale con l’inganno del lavoro facile in una terra di presunti incapaci, che poi finirono a combattere contro i legittimi abitanti di quei paesi e a violentare “faccette nere”, gasare villaggi, al servizio di un colonialismo straccione ma feroce. E dopo l’Africa ci fu l’inganno della guerra di Spagna, coi nostri disoccupati schierati per impedire la nascita di una società di liberi e uguali; e così via continuando fino alla seconda carneficina mondiale, la “passeggiata” promessa dal Duce.
Ma quali erano le condizioni della maggior parte dei bambini che negli aurei anni Trenta vivevano all’ombra delle imponenti opere architettoniche – e dello stesso Edificio Scolastico – che andavano nascendo? abitavano in tuguri senza luce e senza aria, ammucchiati come topi, in promiscuità con galline, asini e altri animali, denutriti ed affamarti; facevano i pecorai dall’età di 5-6 anni, venduti ai massari ad annata; oppure si ammazzavano di fatica nelle miniere, nei cantieri, nelle botteghe artigiane, alla mercé degli adulti, sottopagati quel tanto che bastava a sfamarsi, e malamente, strappati ai giochi, all’istruzione, al diritto di crescere da fanciulli e non da servi della gleba.
Risulta perciò quanto meno avventato che questa mostra pretenda di ricostruire “un pezzo di storia collettiva”, come dichiarato da Carlo Giunta, curatore della stessa. La storia collettiva non è certo quella della progettazione urbana, delle piazze per le adunate fasciste, dell’ospedale e del ponte dedicati a Mussolini: ne è solo una parte, e neanche la più importante; manca tutto il resto, tutto quel che caratterizza una collettività, una comunità in grado di agire la storia. E i nostri revisionisti di questo non parlano, non lo possono fare, perché le cosiddette masse furono obbligate ad agire quella storia, compresa quella fetta osannante al regime per obbligo, costrizione o consenso costruito da istituzioni e da un clima totalitario in funzione dalla culla alla tomba. Non dicono in quali esilii, confini, galere, campi di concentramento o cimiteri erano costretti gli oppositori, né di quegli artisti, architetti, intellettuali, mecenati, borghesi, aristocratici che godevano dei privilegi elargiti da un regime che ossequiavano e dei frutti del maltolto alla moltitudine.
L’operazione “città aurea” non è altro che un atto prepotente di revisionismo storico, perfettamente in linea con il momento che stiamo vivendo in cui la memoria sembra schiacciata da un enorme vuoto culturale, politico, etico sospinto da un vento di destra sempre più spregiudicato e pericoloso, reso forte anche dalla debolezza e vigliaccheria di chi avrebbe dovuto fronteggiarlo e non lo ha fatto per mero calcolo o per smemoratezza senile, e dallo smarrimento e disagio sociale prodotti dalle politiche neoliberiste incarnate anche da una sinistra serva fedele del capitale.

Tra il fascismo rampante ben camuffato e l’antifascismo sterilizzato e da cerimoniale, tanti e tante si smarcano e non ci stanno. E noi, fieramente, siamo con loro.

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