Il bastone senza padrone

E se l’emergenza non finisse mai?

Pandemia e senso comune

Negli ultimi giorni, questi malaugurati giorni in cui anche nel nostro paese abbiamo fatto conoscenza da vicino del virus SARS-CoV-2, si assiste a una situazione sicuramente al di fuori da ogni canone di normalità, quella normalità a cui eravamo abituati nei tempi ante-pestilentia. Ci si chiede di restare chiusi in casa, vengono chiuse migliaia e migliaia di attività commerciali, il traffico si ferma, la CO2 diminuisce, vediamo agenti di forze dell’ordine schierati a pattugliare la città con mascherine che ricordano quelle viste in alcuni film catastrofici. Come accade in ogni evento collettivo, anche nel caso di questa pandemia si stratificano diversi discorsi e diverse narrazioni. C’è la narrazione medico-scientifica, quella politica, quella amministrativa e, ovviamente, quella che opera al livello del senso comune. Per via delle implicazioni che porta con sé, è estremamente importante guardare a quest’ultima con occhi critici, perché è proprio al livello del senso comune che si manifestano in maniera più lampante i segni di un’epoca, lo Zeitgeist che poi incide effettivamente sul corso degli eventi e della storia. In questi giorni ho impiegato molto del mio tempo a studiare e a interrogarmi sul significato del senso comune in cui sono quotidianamente immerso. A partire dai rapporti a me più vicini fino ai commenti che è possibile leggere su internet, le cosiddette reazioni sui social. Quest’ultima indagine è stata estremamente interessante. Proverò ad andare con ordine.

I post sui social si dividono generalmente in poche categorie: c’è quella del panico e della paranoia che alimenta numerose fake news, c’è quella del buonsenso e delle rassicurazioni (sempre meno presenti negli ultimi giorni) e poi c’è la più pericolosa e subdola, che chiameremo della richiesta di maggior controllo. In quest’ultima categoria appartengono diversi tipi di post, di contenuto vario, che a loro volta si possono suddividere in altre due sottocategorie: quelli che chiedono un intervento più forte e risoluto da parte delle autorità, e quelli di denuncia e esposizione a ludibrio dei trasgressori delle misure di contenimento, postando foto di assembramenti, di persone che sono fuori casa eccetera. Entrambe queste categorie nascondono un sottotesto, ovvero: «la situazione va sempre peggio, e sta andando sempre peggio per colpa di qualcuno. Lo stato (polizia, esercito ecc.) deve intervenire per impedirlo e deve punire chi trasgredisce». Difficilmente si accetta una disgrazia che non ha colpevoli, che non ha capri espiatori. Aggiungo a margine, se un colpevole si deve per forza trovare, di certo non si può trascurare l’impatto ambientale e climatico che hanno avuto le politiche neoliberiste degli ultimi anni, che hanno distrutto interi ecosistemi e hanno alterato importanti equilibri climatici. Non è un caso, credo, che i focolai dove si sono registrati fino ad ora maggiori contagi siano aree densamente inquinate. In secondo luogo quest’emergenza ha messo sotto scacco l’ipotetica assiomatica del sistema capitalistico, del there is no other way. Quando si diceva che i tagli alla sanità erano “inevitabili”, che bisognava eliminare gli sprechi (secondo i dati dell’OMS in Italia dal 1997 ad oggi si sono dimezzati i posti letto per malati acuti) si viveva nella convinzione che nulla sarebbe mai cambiato, e che questo sistema produttivo sarebbe stato il più adeguato in ogni circostanza. L’emergenza pandemica ci ha dimostrato che non è così. Le epidemie sono sempre esistite, non è certo colpa di nessuno, ma l’entità specifica della crisi è di certo ascrivibile a un modello produttivo sconsiderato e alla pesantissima “sforbiciata” che ha colpito il SSN negli ultimi anni. 

Resta il fatto che la risposta psicologica ed emotiva della “gente” (uso le virgolette di proposito) è facilmente comprensibile. Tutti quanti ci sentiamo minacciati, e la perdita della propria salute, dell’efficienza del proprio corpo ci pone davanti a timori ancestrali, si scontra con la nostra biologica tendenza all’autoconservazione, e quindi non credo che tali reazioni collettive vadano condannate tout court. Siamo uomini, fragili uomini, che dopo anni in cui abbiamo pompato il mito l’individuo performativo sul lavoro, in famiglia, in società ecc., adesso ci scontriamo con il pensiero concretissimo della morte e del dissolvimento. Ciò che invece va criticato e analizzato, a mio avviso, è la risposta sociale e politica a questa forma di psicologia collettiva. Quando questa pulsione (biologica, psicologica) dettata dalla paura e dalla necessità di trovare un elemento causale su cui scaricare la colpa, arriva a trovare espressione istituzionale, a essere normata da decreti, imposizioni, regolamenti, divieti ecc. questi atteggiamenti possono diventare pericolosi e forieri di tragedie su larga scala, molto più difficili da debellare della pandemia (la quale, per quanto funesta e mortale, passerà, farà il suo corso naturale – purtroppo a spesa di tante, tantissime vite).

Il tribunale della gogna popolare

Sui social si assiste sempre più spesso alla condivisione di articoli che hanno come unico obiettivo quello di alimentare la rabbia e il risentimento nei confronti di coloro che, anche nel rispetto delle regole, si trovano al di fuori della loro abitazione. Questo fenomeno non si osserva soltanto sui profili degli utenti privati, che condividono con i loro contatti queste catene di shaming, ma su ritrova anche su profili di influencer e giornalisti, nonché in servizi televisivi. A titolo di esempio, sono rimasto molto colpito dal servizio di Omnibus del 18/03  in onda su La7, in cui l’inviata si accanisce e insulta una coppia di fidanzati (conviventi) i quali, usciti per andare a fare la spesa, si tenevano per mano. Nessun medico potrebbe mai sostenere che due persone che condividono la stessa casa, gli stessi spazi, nel momento in cui escono di casa tenendosi per mano (ma a distanza dagli altri passanti) possano essere veicolo di contagio per il virus. In questa forma di accanimento nei confronti dei comportamenti personali, in questa paura per i cosiddetti untori, per chi in solitaria decide di passeggiare in uno spazio isolato, si manifesta la radice di un pericolo molto concreto e preoccupante. Se si arriva a giustificare che lo stato, l’autorità, le forze dell’ordine, possano reprimere comportamenti che, dal punto di vista igienico-sanitario, non rappresentano nessun rischio e non possono contribuire in nessun modo all’espandersi dell’epidemia, se tolleriamo (e anzi incoraggiamo) controlli e divieti che non trovano una loro giustificazione da un punto di vista medico, abbiamo già superato il confine che ci separa da una condizione di ancora-quasi-libertà (nel capitalismo nessuno è mai davvero libero) a una condizione in cui non è più pensabile alcuna libertà. Un’emergenza sanitaria (serissima, realmente rischiosa, nessuno ha intenzione di minimizzare la tragedia che stiamo vivendo) diventa così il pretesto per esercitare un controllo sulle nostre vite, sui nostri corpi, sulla nostra libertà individuale, che fino a qualche giorno fa (giorni, non settimane, non mesi) non sarebbe stato nemmeno concepibile. In questo modo il sistema di controllo si alimenta delle paure degli individui privati per trasferirle sul piano della repressione collettiva, e le repressione si serve del tribunale della gogna popolare che è diventato così dispositivo di controllo; l’autorità diventa infine il braccio armato della paura e del sospetto. Che colpa potrà mai avere un individuo che, da solo, è uscito dalla propria abitazione, non è entrato in contatto con nessun essere umano, è andato in una zona non urbana per correre, camminare, o anche solo prendere aria? Evidentemente nessuna. Non è una minaccia per la salute pubblica, né per la sua né per quella altrui. Che senso ha attaccare chi esce da solo a fare una passeggiata e ignorare che centinaia di persone, lavoratori costretti a uscire di casa, vengono letteralmente trattati come carne da macello? Non ha chiaramente alcun senso. Però i TG hanno fatto vedere filmati e fotografie di città deserte, di strade completamente vuote, e utilizzare lo spazio pubblico – che è incredibilmente diventato una forbidden zone – adesso costituisce un reato di per sé. Non giuridico, per ora, ma sicuramente morale. Le occhiatacce della gente e la berlina sui social confermano che uscire in strada è diventato moralmente riprovevole. Al TG ci hanno fatto vedere le strade vuote, e quindi ci si accanisce contro chi in strada (o in campagna, al parco) scende ancora. Anche se da solo, anche se a distanza di sicurezza da altre persone. Non importa. Su quella strada non ci deve stare, perché non ci deve stare nessuno. E’ evidente che quella presenza sulla strada crea uno spaesamento e una minaccia. La percezione soggettiva del pericolo si tramuta così in metro per giudicare la legittimità di gesti e azioni altrui. La cosa preoccupante è che poi questo metro giudica sul serio, e sanziona realmente comportamenti individuali di per sé non pericolosi. «Vogliamo vedere le strade vuote come a Wuhan, come a Milano, come abbiamo visto nel TG». Chi va a correre al parco evidentemente infrange questa fantasia post-apocalittica, questo spasmodico bisogno di sentirsi in stato d’emergenza.

Stato d’emergenza e repressione interiorizzata

Il perpetuarsi di questo stato d’emergenza (che presenta la contraddizione di essere sia temuto che  invocato a gran voce) porta a chiedere un sempre maggior controllo, una maggiore risolutezza, un intervento più massiccio. Si rende dunque necessario dare un’arma tecnica a queste pratiche di controllo. Il controllo non è possibile senza lo strumento. Che sia una semplice telecamera o il più sofisticato sistema di intelligenza artificiale di riconoscimento del volto, non si può fare a meno di strumenti affinché sia possibile mettere in atto ampie strategie di sorveglianza. Se si è dato per buono che un’autorità venga a sanzionare comportamenti individuali che non violano alcuna norma di igiene pubblica, non sarà difficile far passare per buoni sistemi di controllo e di intromissione nella nostra sfera privata ancora più invadenti rispetto a quelli a cui siamo già, da qualche tempo, abituati. Il presidente della regione Veneto Luca Zaia, ad esempio, ha dichiarato che tracciare il movimento dei cittadini attraverso un’app sullo smarthone «è un’ottima soluzione. Il problema è che siamo in un paese nel quale la limitazione della privacy e di libertà personale sono evocate a ogni piè sospinto. Ma siamo in emergenza, e ci vuole un provvedimento che ci legittimi a fare tutte queste attività». Quando ho letto l’articolo, mi ha quasi fatto sorridere il fatto che Zaia ribadisse che siamo un paese in cui «la limitazione della privacy e la libertà personale sono evocate a ogni piè sospinto», come se ciò costituisse un problema, un nostro demerito. Ma al di là dell’elemento involontariamente ironico emerge un dato molto inquietante. Si sta in pratica dicendo che siamo pronti a mettere da parte ogni riserva sulla libertà individuale e privata dei cittadini, e a quanto pare qualcuno si è già dichiarato pronto, dato che in Lombardia si procede a tracciare gli spostamenti delle persone attraverso dati forniti dalle compagnie telefoniche. In altri paesi come la Corea del Sud il controllo degli spostamenti tramite strumenti elettronici (come braccialetti collegati ad app per smartphone) è già in atto, e non sono poche le voci che richiedono un’emulazione di queste procedure.

Se ripensiamo a Orwell e al suo (troppo spesso mal citato) 1984 potremmo pensare che il governo stia utilizzando questo stato di emergenza per mettere in atto un piano di repressione mai immaginato prima, potremmo immaginare un nuovo Socing che tenti di sfruttare la situazione per provare a realizzare i suoi piani di controllo del paese, potremmo immaginare che ci sia una volontà dietro tutto questo processo. E invece ciò che fa raggelare il sangue è che non c’è nessun Socing, nessun burattinaio, nessun potere ombra. Tutto ciò sta succedendo naturalmente, quasi senza che ce ne accorgiamo, e la classe politica, piuttosto che essere artefice della malefica macchinazione, sembra invece subalterna alle logiche del senso comune. Questa nuova forma di fascismo (ché di questo si tratta) potrebbe essere più pericolosa, forse, di quella di cui abbiamo avuto già esperienza storica. Si tratta di un fascismo senza duce, senza partito, senza forza repressiva cosciente, senza la coscienza di classe da parte della classe politica (giusto per inciso, lo stesso non si può dire invece delle classi economiche dominanti, come ben dimostra la preoccupante e inaudita intrusione nei sistemi di didattica e smarworking da parte delle grandi corporation private). Si assiste  a uno svuotamento pressoché totale della volontà politica, schiacciata com’è sullo stato d’eccezione, e paradossalmente questo vuoto di politica e vuoto di autocoscienza dell’autorità spalanca le porte a uno dei periodi storici di maggior violenza autoritaria che è possibile immaginare. Se la repressione è interiorizzata, infatti, se essa non viene imposta ma viene generata dalla società stessa come sarà possibile anche solo dare per scontato che, una volta passata la pandemia e lo stato emergenziale, essa sarà ridimensionata? Cosa ci impedisce di immaginare uno stato di emergenza (percepita, non reale) permanente in cui sarà sempre più normale accettare limitazioni inaudite alla nostra libertà personale? Chi ci impedisce di supporre che si potrà accettare, ad esempio, di installare un’app sullo smartphone attraverso la quale denunciare alle autorità le trasgressioni? O uno scenario in cui accetteremo di buon grado telecamere con riconoscimento facciale? (Sempre per inciso, credete che la tecnologia del riconoscimento facciale serva solo per taggare le foto sui social o per i filtri di Instagram?) E se qualcuno potrebbe controbattere che «questa è roba da film distopici», anche la pandemia che stiamo attraversando fino a qualche tempo fa era «roba da film distopico».

Nemici invisibili

Cosa fare dunque? Al momento la nostra libertà d’azione è molto limitata e a parte pensare, scrivere, approfondire, non si può fare granché. Questa situazione anestetizza tutti i momenti della lotta, soprattutto della lotta collettiva. Ma questo non deve scoraggiarci. Possiamo sfruttare questo tempo per ripartire da noi stessi. Certamente non nei termini della propaganda liberal-borghese. La clausura che ci è stata imposta non è tempo ritrovato, è una sottrazione della libertà individuale, un’imposizione, per quanto necessaria. Ripartire da noi stessi significa cominciare a interrogarci sulla libertà e sul suo valore, cominciare a vagliare col pensiero gli scenari possibili che potrebbero essere l’esito di questa situazione, prepararsi con le armi del pensiero e della coscienza a resistere a qualsiasi deriva autoritaria del contesto attuale. Ho detto e ribadito più volte che l’emergenza sanitaria è reale, che non va sottovalutata, continuo ribadendo che l’unico modo sicuro che abbiamo per evitare il contagio è l’isolamento. Purtroppo, non ci sono altre strade. Ma ciò non può in alcun modo autorizzare pratiche di controllo sociale, di repressione, di privazione di libertà fondamentali, divieti insensati che puniscono anche chi non trasgredisce alle norme igienico-sanitarie, abuso di potere da parte delle forze dell’ordine, dispositivi invadenti di sorveglianza, rigurgiti di psicopolizia. Stiamo combattendo contro due nemici invisibili. Il primo è il virus chiamato SARS-CoV-2; il secondo è il potere nella sua forma più subdola, più astratta, perché è un potere senza soggettività, privo di personalità. E’ un bastone senza padrone, e colpire il nemico è molto più difficile quando non si sa nemmeno chi è. Anche per questo servirà immaginare nuove possibilità di lotta, di resistenza. Evidentemente a mutare non sono soltanto i virus.

Ireneo Funes

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