Gli anni più belli (2020)

di Gabriele Muccino

Una volta un tale incontrò Einstein e gli disse:
« Io mi sveglio alla mattina alle cinque e annoto le idee ».
E Einstein: « Io no. Sa, io di idee ne ho avute al massimo una o due ».

A proposito del cinema (ma non solo) Mario Monicelli disse: “Io spero che questo film finisca con quello che in Italia non c’è mai stato: una bella botta, una rivoluzione”. L’augurio di Monicelli per l’avvento di un cinema che possa dare una bella botta e sfociare financo in una rivoluzione, non solo culturale… al momento non sembra possibile… perché la “luce” del cinema è ben controllata e avvelenata quanto basta a riprodurre la domesticazione sociale per la quale è progettato… gli imbecilli dell’entusiasmo non s’accorgono (o fanno finta) che Imperi, Stati, Nazioni, Storia… sono l’abbeverazione di un sistema dell’apparenza con la propensione, insieme alle religioni monoteiste, alla macelleria… come quello che diceva di essere venuto sulla Terra non per la pace, ma per la spada (Matteo,10,34) e faceva dell’eucarestia il delirio più adorato dalle anime morte… il solo sacramento che riconosciamo giusto è la fine pura e semplice dell’ingiustizia sociale.
Le virtù e i valori della civiltà dello spettacolo fioriscono sul culto dell’inutile, dell’inganno, della menzogna e fanno del redditizio, del tradimento e della vigliaccheria lo stile di un’epoca senza stile… non c’è più nessuno che mette il pensiero al servizio della resistenza e dell’insubordinazione, che oppone il sapere al potere e, costi quello che costi, rifiuti secoli d’istigazione al crimine per mano dei parassiti che usano la finanza, la politica, la fede o il sapere in ragione della sottomissione dei popoli. Il fantasma della libertà si aggira ovunque l’amore per la vita si fa inafferrabile o clandestino, e se il potere esiste, allora tutto è permesso… perché la resistenza, la rivolta o la rivoluzione non sono reperibili nei vocabolari ma nell’azione che s’inventa la svolta salvifica dell’amore per il bello, il buono e il bene comune.

Il cinema italiano, lo abbiamo annotato più volte (per quello che vale), tramortisce d’imbecillità e fa sempre coppia con la falsa coscienza… ogni epoca ha i suoi pagliacci presi sul serio perfino nei festival del cinema, dove l’imbecillità passa come esproprio dell’intelligenza… pare che ogni autore che si fregia d’incassi o premi al merito d’artista, non possa fare a meno della dose d’imbecillità richiesta dall’imperio economico, che è la maledizione senza perdono della dinastia dei saprofiti… legioni d’imbecilli della Rete si smedagliano nell’immensa ignoranza che li promuove a coglioni del comportamento indotto… le idee sui social-network sono a buon mercato come le puttane sfiorite, almeno queste hanno una storia e una dignità da difendere, quella di conoscere a fondo l’impotenza dei propri clienti! Gli untori del cinema-mellassa all’italiana non conoscono la realtà e pretendono di raccontarla e di contrabbandarla come visione creativa dell’esistenza… una truffalderia mercatale che fa ripiangere perfino la forca del boia di Londra… lui, certo, sapeva come impiccare innocenti, malfattori e rivoluzionari (non ha mai impiccato un padrone o un re) con quel tanto di grazia che si deve a quegli utopisti che volevano cambiare il mondo e renderlo più giusto e più umano.
La dottrina del mercato, al cinema e dappertutto, non vuole innocenti… o si è ribelli a tutto o complici con l’imbecillità dominante che orchestra la soggezione generalizzata… la merce è anche l’evento… e non c’è passerella che lo neghi… aveva ragione chi diceva (forse non è neanche vero e allora lo diciamo noi) che l’imbecillità è il fiore della rappresentanza culturale e bene si sposa con la genuflessione della creatività artistica: “non si è mai imbecilli da soli, ci vuole un contesto…” (Maurizio Ferraris). L’antropologia dell’imbecillità assicura una base sicura per il fanatismo di massa e il passaggio dal cinema alla scheda elettorale contiene la medesima fessaggine farcita di promesse e speranze… l’idiota di famiglia è sempre l’ultimo a sapere del suo disagio a vivere, quando l’infilano in una stanza bianca insonorizzata, una comunità in odore di santità o su una sedia elettrica… senza sapere mai che il fuoco in amore della propria vita è sempre un risorgere.

Al cinema e in ogni forma poetica, quanto nella strada… la bellezza è un incrocio di felicità diroccate nel vero… Rilke, Baudelaire o Nietzsche l’hanno scritto con grande partecipazione all’unicità… un film, un litigio o un bacio (trasfigurati) non rispettano nessuna regola che implichi il plauso ma l’incontro, il mistero, lo sbalordimento… dove anche la cosa più sconcia non teme vergogna! Niente in amore è riconducibile a un decreto, un codice o precetti… solo i corpi in amore — liberati da ogni concetto di sacro — possono esprimere il vero carattere dell’anima in volo… l’insolenza delle passioni ignudate non vuole certificazioni: “Amare significa provare piacere nel vedere, toccare, sentire con tutti sensi, e quanto più vicino possibile, un oggetto amato e che ci ama” (Stendhal, diceva). Amare è l’impudore che si trascolora in piacere e uccide il monopolio (falsamente morale) dell’educazione erotica… è deplorevole che secoli di dottrine religiose e farse politiche si siano accanite nella brutalizzazione dei sentimenti (specie i più estremi) attraverso l’iconografia funzionale dei corpi… madonne e puttane, madri di famiglia e sante, martiri ed eroi, stupidi e saggi… sono concepiti tutti (o quasi) secondo le dossologie valoriali della lingua insegnata… solo il peccato rende l’uomo libero e vivo! Perché nel peccato tutte le barriere sono oltraggiate e il piacere senza confini (la violazione del consacrato) conduce diritto allo spirito del desiderio che si fa carne e sangue dei giorni.

Con Gli anni più belli, Gabriele Muccino intendeva raccontare (all’acqua di rose) il “romanzo popolare” di un’Italia attraversata dalle lotte studentesche, il repulisti della politica di Mani Pulite, la caduta del muro di Berlino, il berlusconismo, il crollo delle Torri Gemelle… e raffazzona le gesta (per niente epiche né picaresche) di quattro amici dagli anni ’80 ai nostri giorni… lo stile e l’intenzione è quello delle serie tv… niente di male, ce ne sono davvero tante seguite da frotte di riconciliati con la mediocrità… la seduzione è quella della simulazione e della ripetitività senza spessore… i nuovi modelli della mondanità ci sono tutti… attorialità da fotoromanzo, amicizie improbabili, amori senza amore e figli che crescono tra una cazzata e l’altra dei genitori… tutto condito con le canzonette di Claudio Baglioni e la musica (piuttosto scialba) di Nicola Piovani… naturalmente le citazioni plateali rimandano a C’eravamo tanto amati (1974) di Ettore Scola, Come eravamo (1973) di Sydney Pollack o, peggio ancora, a La dolce vita (1960) di Federico Fellini… senza avere mai la statura strutturale dell’uno, la nostalgia politica dell’altro, tantomeno la capacità visionaria del maestro riminese… il finale è il premio di consolazione del botteghino… amici e figli si ritrovano tutti uniti in allegria sul balcone di un ultimo dell’anno a Roma.
Ora, siccome le muccinate e derivati ci fanno trasecolare per la superficialità architetturale, per non dire delle storie che il regista sparge sugli schermi (non solo italiani)… vorremmo ricordare a Muccino, rovesciando Democrito, che il carattere di un film (come ogni amore) determina anche il suo destino… Gli anni più belli è infatti un film furbesco, ma non troppo… il fatto è che i personaggi interpretati male o alla meno peggio dei tre amici sono Pierfrancesco Favino, Kim Rossi Stuart e Claudio Santamaria che fanno i giovani, figuriamoci!… poi c’è Micaela Ramazzotti (una delle poche attrici italiane che si fa prendere sul serio, specie quando fa la svampita) e infine i ragazzi che fanno i ragazzi così, un po’ tra l’incazzatura e la benevolenza… insomma quando niente è vero anche l’ovvietà assume un che di “liturgico”, specie con il popcorn e la coca cola nelle mani. Quando chiedono a Muccino cosa ricorda di quegli anni giovanili, dice: « Non ero felice. A quindici anni ero un adolescente profondamente incompiuto, poi a trenta ho iniziato a fare cinema e ho trovato il mio modo per comunicare col mondo ». “Comunicare col mondo”? E come? Con una schifezza di questo genere? La noia profonda della chiarezza è una bellezza mortificata o una verità formulata male. “Per i re il mondo è molto semplificato. Tutti gli uomini sono sudditi” (Il piccolo principe, diceva), e allora bisogna farsi corsari dello spirito e rivendicare il superamento della normalità, essere dei teppisti della ragione imposta e rimuovere dalla vita il suo aspetto consolatorio o tragico.
Il cinema delle lusinghe s’intreccia con la preghiera, dove anche il più cretino trova un cretino più di lui che lo comprende. Il Meraviglioso dei surrealisti l’ha detto bene: l’amicizia, l’amore, la bellezza, la giustizia sono come la felicità, è vera solo se vissuta fuori dai modelli istituiti, meglio ancora nell’amou fou che infrange tutti i paraventi delle pubbliche morali e fa dell’eco amoroso il principio di tutte le ribellioni. I desideri dell’anima si manifestano nelle insolenze (anche erotiche) più estreme e deviano dal retto cammino… non sia mai detto che creature graziose e tenere (conosciute anche sul bordo della strada) finiscano possedute da uno scemo qualunque… non esiste un manuale d’istruzioni per imparare a vivere né a morie… lo spirito del profondo è nell’inconoscibile e quando emerge ogni scatenamento del vissuto diventa dinamite.

La sceneggiatura di Gli anni più belli è di Muccino e Paolo Costella… come la retorica filmica non va oltre la ricerca del consenso immediato… la narrazione visiva e i dialoghi debordano nell’approssimativo e anche la figurazione dei personaggi non reca disturbo a nessuno, nemmeno quando Favino diventa uno stronzo della mafia politica… fa il simpatico, l’uomo della periferia che è arrivato fino al cielo dei caimani che legiferano tutto, anche il crimine costituito. Sposa la figlia di un bastardo da parlamento che ha i propri amanti e lui trova la comprensione nella propria figlia. Rossi Stuart si dibatte lungo il film fra un evanescente utopismo letterario (le lezioni in classe sfiorano l’indecenza profetica) e l’amore per la Ramazzotti… forse la sola che in qualche modo ricuce le sfilacciature dell’intera vicenda. Ama Rossi Stuart, lo tradisce con Favino e finisce un po’ prostituta a Napoli… si fa anche di Cocaina ma diventa poi una brava lavoratrice col figlio a carico… e c’è Santamaria che sembra recitare in un altro film… è sopravvissuto a un colpo di pistola sparato in una manifestazione di studenti, e non certo dalla polizia (che quando spara ai contestatori mira dritto al cuore)… vorrebbe entrare in politica con un movimento a molte stelle ma viene bruciato… fa il critico cinematografico senza successo, la moglie l’abbandona, gli sottrae il figlio e finisce per fare il contadino nel casolare di famiglia. Naturalmente, come già detto, la chiusa del film non prevede sussulti emotivi… gli amici e i figli si ritrovano a brindare all’anno che verrà sotto una pioggia di fuochi d’artificio… il giorno dopo il figlio povero di Santamaria e la figlia ricca di Favino camminano abbracciati su un ponte di Roma (di spalle) e vanno incontro alla felicità. Non basta! La canzonetta di Baglioni rimanda tutti a casa con lo zucchero in bocca, la favoletta è finita. La semplificazione del vivere quotidiano non ha bisogno di elaborare nessun pensiero, difende le ingiustizie dei privilegiati e non prende in considerazione il dolore degli altri… il radicamento nelle cose ordinarie, nel cinema e ovunque il totalitarismo delle idee si è sostituito all’ebbrezza della verità rovesciata, diventa ordinarietà controllata o l’inganno universale di sicurezze o certezze che impediscono di vedere la realtà.

I poeti, i folli, i bambini o i banditi del colpo di mano vedono problemi che altri non vedono o non vogliono vedere… solo l’amare, solo il conoscere conta, non l’aver amato, non l’aver conosciuto (Pier Paolo Pasolini, diceva)… l’amore è una navigazione in mari sconosciuti, un lasciarsi fare dalla filosofia della vita, un invito al viaggio del Meraviglioso ubriacato di bellezza che sconfigge la paura a vivere: “il Meraviglioso è sempre bello, anzi, solo il Meraviglioso è bello” (André Breton, diceva)… si tratta di rompere categorie e classificazioni, codici e morali, ruoli e ordinamenti… irrompere nel Meraviglioso è la ricerca o il tentativo di restituire attraverso il discorso amoroso un’idea del mondo. Né guerrieri né martiri dunque… solo uomini e donne che prendono i propri sogni per la realtà e non entrare mai sul terreno dove il nemico ci attende e spera di trovarci… fare della trasgressione la fine di ogni tolleranza e alimentare il dissidio contro la percezione poliziesca della vita sociale… il cominciamento è perdersi davvero nell’accidente/accezione che affronta il dolore con la meraviglia, il passaggio allo stupore si schiude si franamenti dell’ordine imperante. Non si tratta di reinventare forme di vita del passato o diagnosticare il novello futuro… occorre farsi messaggeri, portatori, angeli necessari o anarchici sempre, per reinventare l’origine, la storia e la cosmogonia dell’uguaglianza come scopo  ultimo dell’umanità.

Pino Bertelli

Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 29 volte febbraio 2020

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