Slittamenti semantici e distorsioni ottiche: a proposito di linguaggio e potere

«Il linguaggio vi fotte!» chiosava Carmelo Bene in una famosa intervista, espressione – seppur colorita – non così peregrina e fuori luogo, soprattutto negli ultimi tempi. Più di un filosofo ha affermato che il linguaggio è l’insieme dei geroglifici con cui creiamo il mondo nell’atto stesso in cui lo descriviamo: «Dio disse: e sia la luce! E luce fu». Dio, prima di fare qualsiasi altra cosa, parla. Il primo atto di generazione dell’universo è stato la parola, il logos. Allo stesso modo noi, quotidianamente, ricreiamo il nostro universo di senso, il nostro mondo abitabile: responsabili del creato in cui viviamo non facciamo altro che nominarlo, e nominandolo gli diamo vita. Ma in un mondo dominato dalla divisione del lavoro, che ripropone una divisione della società di tipo castale, anche il privilegio di creare è stato spartito tra chi comanda e chi subisce. Il potere si impadronisce così delle parole, del loro uso, e con esse crea e ricrea di continuo il mondo da  consegnare ai sudditi di un Re Sole che al posto dello scettro brandisce un vocabolario.

In questi giorni assistiamo al graduale processo di (ri)scrittura della realtà, quella realtà che oramai guardiamo soltanto dalle nostre finestre. Viviamo in un costante paradosso in cui ogni cosa è traslata e offuscata: la pandemia è diventata una guerra, i medici, lavoratori costretti nonostante tutto ad andare a lavorare, spesso privi di dispositivi di sicurezza, sono diventati eroi, il podista (no, non lo chiamerò runner) è un nemico dello Stato e della sicurezza pubblica, il virus (che, per quanto ne sappiamo, non sa nemmeno di esistere) è diventato il nemico. Questo gioco di risemantizzazione ci narra di un mondo bellico in cui non sono chiari gli schieramenti, ma risulta  cristallina la questione relativa ai processi di colpa. Sembra evidente che stiano cercando di dirci che la colpa è nostra.

Artisti e filosofi lo sanno bene: il modo in cui si guarda la realtà influisce sulla sua stessa percezione, non esiste una visione neutra. Sono le metaforiche lenti che portiamo sugli occhi a dare una forma definita ai fenomeni (vecchio paradosso berkleyano: se qualcosa non è percepita potrebbe anche non esistere). Ma è il linguaggio (anzi, i linguaggi) a fornirci quelle lenti, a predisporci alla visione. Ed ecco che allora i giornali “istituzionali” si apprestano a pubblicare articoli dai titoli sensazionalistici, dove compaiono sempre le seguenti parole: furbetti, multe record, assembramenti, controlli. Come in un grande mosaico costruiscono l’orizzonte del senso attraverso la scelta sapiente e certosina delle tessere da usare. Ma si vada a guardare, per un attimo, la realtà dei fatti. I cittadini italiani stanno rispondendo in maniera esemplare alle regole imposte per rallentare il contagio (dal sito del Viminale: “Circa 280mila le persone controllate dalle Forze di polizia, quasi 10mila quelle sanzionate”, cioè circa il 3,5%, inoltre il tracciamento dei dati degli utenti da parte di Google ci dice che l’84% degli italiani segue rigidamente la quarantena). La stampa però interviene prontamente. Gli assembramenti ci devono essere, se i contagi calano così lentamente ci sono ancora troppe persone in giro. E così hanno inventato quelli che qualcuno su internet ha definito ironicamente “teleassembramenti”. Di cosa si tratta? Si tratta di un artificio ottico ben noto a chi si intende di fotografia: utilizzando un obiettivo a lunghissima focale (un teleobiettivo, appunto) la prospettiva della scena inquadrata risulta schiacciata, e per un effetto visivo oggetti lontani sembrano invece molto vicini. In pratica, basta inquadrare da una certa distanza con un teleobiettivo una regolare coda al supermercato (in cui vengono rispettate le distanze di sicurezza) ed ecco che le persone sembrano ammassate una sopra l’altra. La coda non c’è più e al suo posto percepiamo un assembramento di persone. Diversi fotografi si sono accorti del trucco e ne hanno parlato diffusamente anche i Wu Ming. Dalla creazione della realtà per mezzo delle parole si è passati alla contraffazione dell’immagine visiva: se Stalin epurava le fotografie i media invece inventano piani prospettici che non esistono. Pare evidente, dunque, che il linguaggio è strettamente legato all’esercizio del potere, e oggi sembra che nessun linguaggio venga risparmiato per scrivere la storia di questo tribunale ideale, in cui additare gli irresponsabili artefici del disastro. Ma come si può ancora parlare di colpe e di responsabilità da addossare ai cittadini dopo lo scandalo della “Baggina”? Come è possibile ignorare che in Lombardia solo il 40 % dei lavoratori può restare a casa mentre gli altri ogni giorno sono costretti a immolarsi sull’altare del profitto? C’è, evidentemente, sempre un’altra storia da raccontare. Che si prenda, dunque, finalmente la parola. Per immaginare con la fantasia i tempi nuovi bisogna riappropriarsi con risolutezza del linguaggio di quelli presenti, farsi narratori delle contraddizioni, intagliatori di lenti disvelatrici. Spinoza era un ottico e di lui Borges ha scritto che  tentava di «modellare Dio con la parola». Chissà se il nostro compito, quello di modellare con essa il nostro presente e il nostro futuro, sia davvero più modesto.

Andrea Mazzola

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