Restaurazione

Econovirus. E’ lotta di classe (ma dei padroni)

Niente sarà più come prima dopo la pandemia da covid 19, si dice, ma nello stesso tempo si auspica il ritorno alla normalità, tutto come prima: prendere l’aperitivo, andare in pizzeria, continuare a produrre armi, a devastare l’ambiente, ecc. Che non potrà essere più come prima, è comunque evidente: dalle mascherine che indossiamo per convivere col virus alla minaccia di future pandemie e di probabili disastri ecologici, ci avviamo verso un’età dell’incertezza, più di quella che abbiamo sperimentato in questo primo scorcio di secolo e di millennio. Ma come ad ogni svolta della storia umana possiamo decidere quale direzione prendere, se quella di riprodurre un mondo che si regge sullo sfruttamento e sulla diseguaglianza o quella di avviare un grande processo di liberazione sociale e umana. Da una parte un autoritarismo sempre più efficace, anche nelle nostre democrazie di facciata, che hanno certamente necessità di contenere l’instabilità sociale che ci aspetta; dall’altra una presa in carico da parte delle popolazioni vilipese del proprio destino. Ricordiamoci, come sostenevano i militanti di Occupy Wall street nel 2011, che noi siamo il 99% della popolazione, soggiogato dall’1%.

Quella a cui adiamo incontro sarà con tutta probabilità un’epoca della restaurazione e della rivolta. I poteri e le classi dominanti cercheranno di mantenere la loro presa sul mondo, le classi subalterne proveranno a prendersi i loro spazi. La storia non si ripete, ma come due secoli fa, dopo la Rivoluzione francese, l’età napoleonica e il congresso di Vienna, questo secolo potrebbe aprirsi a nuove aspirazioni utopiche di realizzazione di società libere dal denaro e dall’oppressione. Per questo motivo occorrerebbe molta lucidità e capacità di comprendere il punto di svolta a cui siamo giunti e che la pandemia ha inequivocabilmente disvelato.

Tutto quello che governi, poteri economici, finanziari, mediatici quotidianamente ci sottopongono ha come obiettivo restaurare le logiche del capitale, riadattarlo, rivitalizzarlo. Basta scorrere i titoli di giornali e telegiornali di queste settimane per capire come è in atto una grande controffensiva padronale che, dietro il paravento del Pil, della produzione che non si può arrestare, mira a riproporre una egemonia sociale, con al centro l’Impresa, misura della produzione come delle vite. Dal prestito chiesto dalla Fiat, alle pretese di Autostrade, alla discussione sulla modifica del codice degli appalti, alla continua richiesta di sbloccare opere infrastrutturali più o meno di grandi dimensioni, molte delle quali hanno un impatto devastante sull’ambiente, all’emendamento al decreto liquidità che escluderebbe qualsiasi responsabilità penale per imprenditori e manager nel caso in cui un lavoratore si ammali di covid 19, le logiche imprenditoriali e produttivistiche prevalgono e occupano lo spazio pubblico. Non è certo un caso se la stragrande maggioranza delle risorse finora messe in campo dal governo hanno preso la strada delle imprese, mentre solo le briciole sono servite a contenere un disagio sociale che avrebbe potuto e potrebbe sfociare in aperte ribellioni. Su La Repubblica del 27 maggio scorso il noto editorialista Alessandro Penati, in un articolo dal titolo “ Stagnazione, inflazione e imprese senza liquidità: tutti i rischi del dopo Covid” , chiarisce bene il punto di vista padronale e il progetto di restaurazione: “ Come dopo ogni grande shock, la maggiore incertezza  porta le famiglie ad aumentare i risparmi, riducendo i consumi, e le imprese a rinviare piani di investimento. C’è infine il probabile fardello di maggiori imposte per smaltire il gigantesco debito pubblico accumulato. Tutti elementi che portano al rischio stagnazione della produttività, motore della crescita. […] Il trend trentennale che ha portato alla virtuale eliminazione dell’inflazione nel mondo  ha trovato origine soprattutto nella globalizzazione, che ha calmierato il costo del lavoro, e nell’indipendenza delle Banche centrali dalle azioni dei governi. Ma la crisi attuale ridurrà i benefici della globalizzazione sui costi e ha portato alla monetizzazione dell’enorme debito pubblico accumulato. Per smaltirlo, l’inflazione è da sempre la modalità preferita dai governi”. Provando a riassumere, la globalizzazione è servita a respingere la controffensiva dei lavoratori degli anni 60-70 del Novecento, assicurando la compressione dei salari, l’impatto del virus sull’economia può essere mitigato solo dando liquidità alle imprese che faranno crescere la produttività e salveranno la “società”. Qualche dubbio invece viene sull’affermazione che i governi cercheranno di monetizzare la crisi. In realtà tutta la discussione sul cosiddetto Recovery fund mostra invece che ancora una volta si sceglie la via della finanziarizzazione del debito.  Cioè i soldi non arriveranno direttamente ai governi che potrebbero distribuirli, ma attraverso l’emissione di bond, quindi attraverso il mercato finanziario. Per inciso anche i famosi sussidi a fondo perduto – si parla di 81,8 miliardi per l’Italia – non sono affatto tali come si chiarisce opportunamente su La Stampa del 28 maggio: “ Sia chiaro, anche i 500 miliardi erogati tramite sussidi andranno restituiti agli investitori (seppure a lungo termine)”. Ci possono essere dubbi su chi saranno questi investitori che continueranno ad ingrassare sui cadaveri e sulla sofferenza provocati dalla pandemia?

Sempre su La Stampa del 28 in un’intervista Varoufakis, paladino di un’Europa alternativa, rileva come il Recovery fund continui a riproporre la  solita ricetta di austerità, mentre sarebbe più opportuna l’emissione di eurobond trentennali, garantiti dalla Ue, o addirittura “ l’helicopter money, soldi a pioggia ai cittadini come ha fatto Trump”. E poi i benpensanti della sinistra, soprattutto italiani, si stupiscono se la “gente” vota Trump o i vari sovranisti di turno, che almeno hanno compreso che al popolo un po’ di panem bisogna darlo, non solo chiedergli di sacrificarsi sull’altare della crescita e della modernità, che poi è comunque un nazionalismo rovesciato e verniciato di buonismo. Ma lo stesso ragionamento di Varoufakis denuncia, forse involontariamente, come la posizione di questa sinistra sedicente alternativa sia tutta interna al progetto restauratore, ne utilizza lo stesso linguaggio e ne condivide le stesse prospettive, anche quando queste appaiono divergenti rispetto alla brutalità capitalistica. Un esempio piuttosto lampante (e anche triste) dell’ambiguità  di coloro che vorrebbero immaginarsi in contrasto con la deriva economicista è rappresentato in Italia dal documento promosso dalla rete Sbilanciamoci! e fatto circolare in queste ultime settimane col titolo “Firma anche tu per un’Italia in salute, giusta e sostenibile”. Alcuni passaggi ne chiariscono tutti i limiti: “Dopo vent’anni di recessione e ristagno dell’economia italiana, un nuovo sviluppo ha bisogno del ritorno all’“economia mista” del dopoguerra, con un forte intervento pubblico nella produzione, nelle tecnologie, nell’organizzazione dei mercati, orientando in modo preciso le scelte delle imprese attraverso le politiche della ricerca, industriali, del lavoro, ambientali. […]Dalla politica di questi anni fondata sul sostegno indiscriminato alle imprese, attraverso facilitazioni e incentivi fiscali, bisogna passare al sostegno selettivo e mirato di produzioni e attività economiche strategiche e utili al paese: infrastrutture materiali e sociali, attività ad alta intensità di conoscenza, innovazione e lavoro qualificato”. Esattamente lo stesso linguaggio e lo stesso orizzonte dei restauratori e dei fan dell’impresa, con in più un dirigismo e un tecnocratismo di matrice sovietica.

C’è bisogno di ben altro che questo scimmiottare sul loro terreno le logiche produttivistiche del capitale, solo perché ammantate di un pizzico di umanitarismo. Di qualcosa che, pur partendo da una prospettiva riformista – riduzione orario di lavoro a parità di salario o imposizione progressiva sui redditi alti –, sia in grado di scardinare equilibri di potere e sociali consolidati e di aprire una prospettiva di liberazione dalla sudditanza all’Impresa.

Angelo Barberi

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