L’ora d’aria

Lotta e pandemia. Puntare il dito sulle cause

 

Di quali lotte avremo-avremmo bisogno in quest’autunno italiano che stenta ad infiammarsi, ancora sotto la morsa del Sars-Cov-2 che non molla la presa e condiziona scelte e aspirazioni? Di quali lotte avremo-avremmo bisogno in questa lunga transizione del capitalismo che dura dagli anni 70 del Novecento e si trascina da crisi in crisi, fino a culminare oggi nella crisi pandemica ed ecologica? In una situazione che vede, oramai da lunghi anni, il conflitto bandito dalla scena sociale e politica e una democrazia autoritaria imporsi con un dissimulato decisionismo?
Mentre lo scoppio della pandemia sembrava poter mettere a nudo tutte le magagne di un sistema iniquo e distruttivo, col passare dei mesi quel sistema si ripropone con ancora più forza e con lo stesso volto di sempre, e c’è solo papa Francesco, tra le “grandi” personalità, a sostenere che non si può tornare alla normalità perché quella normalità era già malata e ingiusta; chissà se perché vuole coprire le continue magagne in cui la chiesa galleggia o per un’autentica presa di coscienza che la pandemia avrà reso impellente. Anche se poi bisognerebbe chiedere al papa come intenderebbe non tornare alla vecchia normalità.
Sta di fatto che le lotte languono e quelle iniziative che vengono messe in campo mostrano tutta la loro inadeguatezza a cogliere fino in fondo il passaggio che stiamo vivendo. Come ad esempio la Giornata di mobilitazione nazionale “Ripartire dal lavoro”, promossa da Cgil-Cisl-Uil lo scorso 18 settembre, che ripropone i soliti slogan, riaggiornati quel tanto che la nuova situazione richiede: riforma fiscale e lotta all’evasione, rinnovo contratti di lavoro, diritto all’istruzione, sanità pubblica, investimenti, politica industriale, digitalizzazione, lavoro stabile e sostenibile, mezzogiorno. Che quando non coincidono con quelli di governo e confindustria, non si capisce come dovrebbero tradursi in provvedimenti concreti in assenza, non di una lotta e di uno scontro consequenziali, ma persino di una contrattazione adeguata, di una pressione e di una capacità di incidere efficaci. Tutto svolgendosi nell’ambito di un rituale e codificato gioco delle parti. “Avevamo chiesto un incontro al Governo ma dalla Presidenza del Consiglio la convocazione non è mai arrivata. (…) Chiediamo un confronto costruttivo con il Governo che da mesi non ci ascolta. Perché i temi sul tavolo sono molti e crediamo di dover essere chiamati a partecipare ad un confronto sulle priorità del paese. E perché se il Governo aprisse un tavolo con le parti sociali darebbe un segnale di dialogo e apertura a tutti. (…) “Il lavoro prima di tutto, da lì bisogna ripartire per tornare a crescere. Le risorse del Recovery fund andrebbero utilizzate in investimenti, vanno riaperti i cantieri bloccati, servono nuove infrastrutture, puntare su formazione ed innovazione”. Tanto ha dichiarato la segretaria della Cisl, Anna Maria Furlan, in un’intervista al Corriere della Sera.
In verità ad agitare un po’ le acque della protesta sociale è stato il mondo della scuola. Il 24 e 25 settembre sono state proclamate due giornate di sciopero da parte di alcune sigle del sindacalismo di base – Cub, Cobas scuola Sardegna, Unicobas, Usb – , il 26 c’è stata la manifestazione di Priorità alla scuola, cui hanno aderito i sindacati istituzionali, i Cobas e altre associazioni. Al di là della frammentazione delle iniziative, della vivacità che hanno potuto assumere in alcune situazioni, è evidente che si tratta di contestazioni largamente insufficienti rispetto alla gravità del momento e semmai bisognerebbe ragionare sul come costruire momenti di lotta, che non possono essere episodici e di sola testimonianza, e invece dovrebbero tentare di uscire dal genericismo e assumere una prospettiva più radicale e profonda. Sulla scuola, appunto, non ci si può limitare solo a denunciare tutte le falle di un governo, che ha altri interessi da tutelare, e di una ministra impalpabile, ma occorrerebbe chiedersi che scuola c’è oggi in Italia, quali sono le sue reali funzioni, quali invece dovrebbero essere in una prospettiva di liberazione sociale. Perché a conti fatti di quella conoscenza funzionale al mercato del lavoro e di quelle tanto sbandierate competenze di cui si riempiono la bocca in tanti, anche i sindacati istituzionali, non ce ne facciamo nulla. In aggiunta queste pur modeste e blande proteste hanno ricevuto una feroce censura da parte dei media. Nessun grande giornale e nessun telegiornale ne ha parlato adeguatamente, quando lo hanno fatto ne è risultato un quadro confuso e parziale. Lo stesso trattamento è stato riservato alle iniziative di Fridays for future che, sempre nella giornata del 25, ha lanciato il Global day of climate action. Qualche telegiornale ha dedicato dei fotogrammi veloci a Greta Thunberg, niente a che vedere con l’incensamento dedicatole lo scorso anno, prima che la pandemia rendesse palpabile la necessità di agire subito. Adesso la sezione italiana in vista del Climate strike del 9 ottobre prossimo sul suo sito scrive: “La crisi climatica e la crisi ecologica sono qui! La Ribellione è l’unica strada che ci rimane per un cambiamento radicale. Saremo a Roma dal 5 all’11 Ottobre. Tu ci sarai?”.  Di tutti i limiti che si possono riscontrare in questo movimento, non ultimo il continuo richiamo alle istituzioni perché agiscano, cosa che cozza un po’ con l’esibito ribellismo giovanilistico, tuttavia è tra i pochi, e il solo che potrebbe avere una reale presa sui giovani, a porre l’accento sulla questione oggi cruciale, cui nessuno, che voglia veramente contrastare e superare il sistema del capitale, può sottrarsi: la crisi climatica e ambientale, perfetta rappresentazione del fallimento del capitalismo. Piuttosto potrebbe essere interessante capire come sottrarre questi giovani al cul de sac della politica politicante che, nella crisi attuale, offre come unica via di uscita il miraggio del Recovery fund, della quantità di investimenti da indirizzare ad una presunta riconversione ecologica che per nulla intacca le strutture e le dinamiche della società del consumo.

Di quali lotte avremo-avremmo dunque bisogno? Sicuramente di lotte che assumano innanzitutto una prospettiva di cambiamento e rivolgimento dell’attuale sistema; di lotte capaci, pur partendo da richieste contingenti e mirate – riduzione orario di lavoro, giustizia fiscale, ecc. – , di travalicare i limiti della compatibilità, di attivare grandi mobilitazioni e di porsi come forza d’urto. Un lavoro forse immane, ma necessario.

Angelo Barberi

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