Appunti per un dibattito. “Si resti arrinesci”: dietro le pieghe di una strategia indipendentista per il potere

https://www.deriveapprodi.com/wp-content/files_mf/cache/th_2d9241a8af2b929a384863a3c4944bbd_1594046229Input_Antudo_Sicilia_COP_DEF.jpgQuello dell’emigrazione è un tema che sta molto a cuore a chi scrive e a questo giornale; Sicilia libertaria nacque in terra d’emigrazione e chi scrive vi ha anche dedicato un volume apposito (“Emigrazione liberazione sociale”) uscito nel 1986. In oltre 40 anni e ancora di recente dalle colonne del giornale abbiamo sottolineato l’importanza di una battaglia per non partire, per costruire un futuro migliore qui nella nostra terra, e quindi della speranza  (volontà) che chi è dovuto andar via possa ritornare.
E’ con estremo interesse quindi che abbiamo accolto la campagna “Si resti arrinesci” promossa da Antudo nell’ultimo anno, in parallelo ad altre campagne simili sorte in varie località dell’isola, a partire dal Movimento delle valigie di cartone di padre Antonio Garau. Lo spopolamento della nostra isola, particolarmente acuto nei piccoli centri dell’interno e della montagna, è infatti direttamente conseguenza della partenza verso località del Nord Italia e dell’estero, di migliaia e migliaia di siciliane e di siciliani, flusso che non si è mai veramente arrestato e che marca una condizione di sottosviluppo coloniale da cui la Sicilia è afflitta sin dalla fine dell’Ottocento.
Nel mese di luglio è stato pubblicato per i tipi di DeriveApprodi il volume “Si resti arrinesci – Per fermare l’emigrazione dalla Sicilia”, autore Antudo.info, libro che si va presentando in lungo e in largo nell’Isola. Diciamo subito che nelle sue 93 pagine abbiamo riscontrato non pochi punti di convergenza con quanto sosteniamo sin dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso. A partire dal presente, nella lettura del quadro dell’emigrazione giovanile, studentesca e intellettuale, e delle cifre sconcertanti dello spopolamento. Facendo un salto all’indietro, nelle critiche alle analisi (liberali, socialiste, gramsciane…) sul sottosviluppo meridionale come contesto preesistente all’Unità, e quindi sul necessario sviluppo capitalistico da imporre al Mezzogiorno per farlo uscire dalla subalternità, analisi che tanto danno hanno portato al Sud, ed ai movimenti di emancipazione dei contadini e dei lavoratori che ne hanno sposato la tesi suicida dell’operaizzazione del proletariato meridionale come condizione per la sua presa di coscienza di classe rivoluzionaria. E ci ha fatto piacere incontrare vecchi “amici” che abbiamo studiato quasi cinquant’anni fa, come, fra gli altri, Nicola Zitara o E. M. Capecelatro e A. Carlo, e i loro studi del processo di sottosviluppo come funzionale e dinamico allo sviluppo capitalistico del Nord, secondo la logica apparsa subito chiara di un’Italia come Piemonte allargato, e di un Sud colonia come serbatoio di risorse e forza lavoro, prima di diventare discarica industriale. Sono analisi per quanto in parte “datate”, che reggono al confronto sia con il neoborbonismo di un Pino Aprile che con le più articolate tesi di un Emanuele Felice (“Perchè il Sud è rimasto indietro”, 2013), anche se non distinguono a sufficienza la vicenda siciliana da quella del Meridione continentale, ingenerando confusioni e distorsioni.
Altro punto convergente, la centralità della terra e dell’attività agricola, il cui ridimensionamento tragico ha mutato il volto (e l’anima) del Sud; una marginalizzazione costruita, peraltro, con le maniere forti dello stato d’emergenza, della deportazione, delle guerre mondiali e di quelle “minori” in terra africana. Metodi colonialisti che caratterizzeranno – con distinzioni significative – la relazione della Sicilia e delle regioni del Mezzogiorno con il Nord, e quella resistenza, anche grandiosa e tragica, sulle cui ceneri poté attuarsi il piano di occupazione. “O brigante o emigrante” non era uno slogan, era la tagliente scelta che si poneva a milioni di meridionali costretti con le spalle al muro dalla leva militare obbligatoria di 7 anni e dalla miseria crescente seguita alle illusioni unitarie. Quando, 35 anni fa, parlavamo di “Servi, emigrati o ribelli” sapevamo che questo rimane il bivio che la storia impone ai siciliani. Se ne abbia coscienza o meno.

Poi la funzione della lingua italiana e il ruolo della scuola, come strumenti ausiliari al cannone e alla galera, necessari a “fare gli italiani”, forse oggi meno evidenti, essendo buona parte del lavoro sporco già realizzato. Ma il monito di Ignazio Buttitta nel suo ”Lingua e dialettu” (da noi eretto a emblema sin dal 1977) non ha perso d’attualità.
Quindi il doppio obiettivo: la necessità di non partire e quella tornare, per rafforzare la lotta, per amplificare le possibilità di un cambiamento radicale; possibilità che l’emigrazione allontana, depotenzia. Quindi lo scopo politico della lotta all’emigrazione individuato nella battaglia per conquistare le condizioni di una vita diversa e migliore in questa terra. La scelta di cui si parlava prima: servi o ribelli (non più emigrati) e l’impegno perché ci si elevi dalla condizione di servilismo a quella di soggetti attivi nel cambiamento. Finalmente.
Infine l’ultima convergenza la riscontriamo nelle pagine conclusive: l’emigrazione è la conseguenza delle grandi sconfitte seguite ai movimenti di lotta messi in atto dai siciliani (e meridionali); diventa la valvola di sfogo per stemperare il clima di rottura sociale radicale innescato da quelle lotte e dalla reazione statale e padronale. Da qui la necessità di tornare per riprendere quel cammino.
Traspare tuttavia una certa ritrosia ad affrontare la questione delle strategie che la sinistra storica (ed anche quella extraparlamentare) ha adottato nel suo intervento nel/sul Sud. Come abbiamo già ricordato, il radicalismo di un Potere Operaio non usciva mai fuori dai binari della tradizione: il Sud andava industrializzato per trasformare i contadini e i sottoproletari in classe operaia cosciente. Ci sarebbe da rivedere il determinismo marxista, ma sopratutto l’enfasi posta dai partiti storici di sinistra sul ruolo rivoluzionario della borghesia. Una carenza che lascia aperte troppe porte, compreso il discorso sulla mafia, da sempre Stato nello Stato, impresa capitalistica criminale con capacità di adattamento in grado di superare le trasformazioni sociali, anche di determinarle, di fare concorrenza, soccorso, ausilio, guerra allo Stato e al Capitale, ma sempre in una prospettiva di sottomissione delle classi subalterne e della società ai propri interessi.
L’analisi (e la strategia) di Antudo, in questa specifica questione dell’emigrazione, come in altre (le lotte territoriali) si dispiegano dietro una prospettiva – l’indipendenza – che ne avviluppa ogni aspetto. Il territorio come base attorno a cui costruire l’indipendenza e tutti i passaggi ad essa necessari, rappresenta tuttavia un’ambiguità che non viene sciolta nelle pagine del libro.
“Chiamiamo territorio la costruzione sociale che nasce dal dialogo tra due agenti: una comunità e la porzione di terra su cui quella comunità vive”. La specificazione lascia l’interpretazione libera di giostrare attorno a modalità diverse di agire; la comunità e la sua terra comprendono, infatti, sia le istituzioni, le relazioni di classe, gli opposti interessi che vi si sviluppano, che anche ciò che vi si contrappone, le espressioni antagonista, i conflitti, la massa degli esclusi e delle vittime. L’interclassismo, ovvero il collaborazionismo, l’entrismo istituzionale, la conseguente gerarchizzazione dei rapporti sociali e politici, tutto questo fa capolino dalle parole ben dosate del libro, ed apre scenari di fronti unici elettorali territoriali, di avventure legalitarie, che possono essere letti come percorsi strategici verso l’indipendenza (coerenti con una visione politica autoritaria), oppure, quali derive politiche non nuove nella lunga storia dei movimenti di emancipazione popolare, e in misura minore, di quelli indipendentisti orientati a sinistra.
Si tratta di questioni che abbiamo già posto nella recensione al libro di Lanfranco Caminiti “Perché non possiamo non dirci indipendentisti” (Silib n.385, luglio-agosto 2018), che rappresenta l’elaborazione entro cui si inserisce Si resti arrinesci.

I tanti punti di convergenza elencati più avanti, possono presupporre percorsi di organizzazione e lotta unitari, ma le strategie di fondo, divergendo, possono rappresentare elementi di collisione, e finire per condizionare questi percorsi, se non addirittura impedirli.

Pippo Gurrieri

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