E’ ORA CHE PAGHINO I RICCHI

Crisi. Debito e speculazioni sono figli del sistema

“Questa è di gran lunga la prima emergenza del Paese, è sconvolgente vedere centinaia di persone in fila per il pane”. Questo ha detto il Ceo di Intesa San Paolo, Carlo Messina, nel corso di una intervista rilasciata a Massimo Giannini, direttore de La Stampa. Nel prosieguo della conversazione il manager (top) ha tenuto a metterci al corrente che la banca torinese ha erogato milioni di pasti, ma ha precisato (perché la carità non basta) che è compito fondamentale dello Stato in questo momento la lotta alla povertà e alle disuguaglianze sociali. Poi sull’attuale crescita del debito pubblico e su come nel prossimo futuro si potrà tenere sotto controllo, il dottor Messina non ha dubbi: una crescita economica adeguata e i risparmi degli italiani sono i due pilastri che permetteranno la ripresa già dal 2021. Quando Giannini chiede: “Si risente parlare di un grande classico italiano: la patrimoniale. Lei come la giudica?”. «Trovo molto negativa l’idea di una patrimoniale. La considero un destino finale ed estremo, se non riusciremo a gestire il debito pubblico nei prossimi anni. Sarebbe l’esito di una sconfitta», la risposta.

Qualche giorno dopo sempre il direttore del giornale della famiglia Agnelli ha intervistato il ministro Gualtieri che, sul come gestire il debito, ha risposto: “La strategia del governo è esposta nella Nadef e si compone di tre elementi. Nel breve termine, stimolo all’economia per uscire il più possibile indenni dalla crisi pandemica e limitarne le ripercussioni sociali. Rilancio dello sviluppo in chiave di innovazione, sostenibilità, coesione ed equità facendo perno su investimenti e riforme. Prudente gestione della finanza pubblica al fine di migliorare strutturalmente i saldi.” Interpellato sulla patrimoniale anche il ministro è stato netto: nessuna patrimoniale.

Debito pubblico e patrimoniale sono le due inscindibili e ineludibili questioni emerse con la pandemia, sebbene condizionino le nostre esistenze già da lungo tempo. Questioni tuttavia  innominabili nel dibattito pubblico. Tanto che l’introduzione di una patrimoniale proposta recentemente in un emendamento – poi ritirato – alla legge di bilancio ha dato occasione alla politica italiana, governativa e antigovernativa, di prodursi in strepiti e anatemi. Mentre il debito pubblico è entrato a far parte della nostra vita, oramai, come una condanna inesorabile. Eppure, nonostante si faccia di tutto per non parlarne, le decisioni o piuttosto le non decisioni su debito e patrimoniale saranno cruciali nel prossimo futuro.

Il debito pubblico è sicuramente il compagno fedele della politica italiana, il macigno che ci schiaccia sotto le sue possenti forze, senza che governi e partiti possano farci nulla. Negli anni ci siamo convinti che l’avere scialacquato nei decenni scorsi ci sta costringendo oggi a risparmiare per potere ripagare il debito contratto. Iperbolicamente, di tanto in tanto, qualcuno ha il piacere di calcolare l’ammontare di debito che grava su ogni nuovo nato. E in effetti le cifre del debito sono impressionanti, ad ottobre scorso ammontava a 2.587 miliardi, in questi mesi di coronavirus è cresciuto notevolmente e ancora crescerà nei prossimi mesi, si calcola che potrebbe raggiungere il 160% del Pil. Ma questa è solo una parte della verità, anzi una piccolissima parte, quella che viene ammannita alla pubblica opinione tenuta sotto scacco, buona per condire un servizio per il telegiornale e istillare un po’ di senso di colpa. Il resto, quello che serve per capire come funziona il meccanismo del debito, non viene mai svelato. Innanzitutto se andiamo all’origine del debito pubblico italiano dobbiamo risalire al 1981, anno del cosiddetto divorzio tra ministero del Tesoro e Banca d’Italia, per cui la Banca centrale non era più tenuta ad acquistare i titoli invenduti del debito italiano, che per essere appetibili sul mercato dovevano garantire alti tassi di interesse. Se nel 1981 il rapporto debito/Pil era al 58,5%, già nel 1991 raggiungeva il 98,6% e da allora è sempre cresciuto. Ma il paradosso è che dal 1990 ad oggi il bilancio dello Stato è sempre in attivo, i debiti sono il frutto del pagamento degli interessi sui titoli pubblici. Ancora più paradossale è che su 2.200 miliardi di debiti contratti, per interessi se ne sono già pagati 3.300. Insomma è un meccanismo che si autoalimenta i cui costi si scaricano sull’intera popolazione e i benefici vanno a vantaggio di speculatori e rendite che incassano gli interessi. Nell’aggravarsi della crisi pandemica da alcune parti si è proposto di monetizzare il debito pubblico, cioè ristabilire quel meccanismo per cui è la banca centrale a fornire la moneta ai governi creandola, senza quindi passare dal mercato finanziario e senza pagare interessi che peggiorano il debito. Sembra che in Gran Bretagna lo stiano facendo, anche se è stato precisato che si tratta di una misura temporanea. In verità anche nell’Ue qualcosa del genere si sta facendo dal momento che oggi i titoli del debito pubblico sono acquisiti dalle banche centrali ad interessi negativi. Perché dunque non si procede in questa direzione, anche solo per contenere il debito in questa fase travagliata? La risposta sta nel fatto che il debito è un dispositivo di controllo, chi è indebitato, privato o pubblico, deve accettare qualsiasi condizione. Come sostiene Marco Bersani, in una illuminante lezione sul debito, due cose più di tutti teme il creditore: l’estinzione del debito e la morte del debitore. Col debito pubblico così elevato si possono tenere sotto scacco intere popolazioni, come ben sappiamo. Ma si può ancora accettare che un meccanismo perverso gravi in modo così determinante anche sulle future generazioni? Storicamente ogni qualvolta il debito è diventato ingiusto e inesigibile si è proceduto alla sua cancellazione. Esattamente questa è la situazione del debito italiano: inesigibile visto l’enormità della somma, ingiusto dal momento che si è restituito per interessi molto più del suo ammontare.

Qualsiasi ragionamento sulla patrimoniale, invece, non può non partire da due inoppugnabili dati: in Italia oggi il 20% più ricco possiede il 69,8% della ricchezza totale, qualcosa come 7 trilioni; per converso non esiste su tutta questa ricchezza una tassazione. Calcoli semplici, ma non irrealistici, ci dicono che una tassazione progressiva e ragionata sui patrimoni potrebbe garantire 100-120 miliardi di euro. Cosa impedisce di farlo? Una propaganda ideologica e interessata sostiene che tassare chi possiede ricchezza deprimerebbe gli investimenti e ci esporrebbe al rischio di una fuga di capitali verso mete più appetibili. Poi però nessuno ci spiega come mai quella che una volta si chiamava Fiat ha sede fiscale in Olanda e gli imprenditori sono sempre i primi a invocare investimenti e sussidi statali.

Sempre sulla Stampa – che è un giornale interessante per capire gli orientamenti delle élite, certo poi pubblicano pure gli interventi di Massimo Cacciari che propugna l’introduzione della patrimoniale e quelli di Guido Maria Brera che cita David Graeber sulla cancellazione del debito, per dimostrare che sono aperti e democratici – è comparso un articolo di tale Alessandro De Nicola che afferma: “I profitti sono l’essenza dell’economia di mercato: essi segnalano non la sottrazione del plusvalore ai lavoratori – come immaginava Marx – ma la capacità di un’impresa di soddisfare le esigenze dei clienti […] Nel momento in cui la pubblica autorità pretende di sapere meglio degli azionisti se la politica di distribuzione degli utili metta o meno in pericolo la solidità della banca si prende la china della pianificazione”. L’articolo si intitola “Libere banche in libero Stato”. Meno male che abbiamo la libertà! Noi infatti pensiamo di vivere in uno Stato libero e democratico dove la sovranità appartiene al popolo (o ai suoi rappresentanti), ma poi non capiamo come mai questo libero Stato sovrano non possa creare la moneta che serve per superare le crisi o introdurre una tassazione che faccia pagare chi più ha, e si metta invece sempre al servizio degli imprenditori e degli speculatori.

Angelo Barberi

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