Per la Palestina

Con la provocazione di Netanyahu, innescata nel quartiere arabo di Sheikh Jarrah a Gerusalemme (requisizione di case abitate da 28 famiglie palestinesi, fatte costruire dall’ONU nel 1956 per alcuni dei 750.000 rifugiati cacciati dai loro villaggi dall’esercito israeliano e dalle milizie ebraiche nella guerra del 1948, nota ai palestinesi come “Nakba”, catastrofe ), subisce un’accelerazione il progetto della Grande Israele, che si consumerà quando i palestinesi saranno definitivamente cacciati dalle proprie terre, ridotti a minoranze straniere in quella che era casa loro, cancellati come popolo e come entità politica.
E’ riduttivo leggere la recrudescenza dello Stato di Israele come dettata dalla necessità di Netanyahu di sbloccare l’impasse in cui si trova da ormai troppo tempo la formazione di un nuovo governo; c’era anche questo, nonostante il risultato sia stato quello di ricompattare una vasta coalizione che lo condanna a lasciare il potere dopo 12 anni; ma c’era soprattutto la consapevolezza che rilanciare l’aggressione in questo momento avrebbe potuto far conseguire l’obiettivo dei due piccioni con una fava. La destra fascista e xenofoba da tempo spinge per l’espulsione degli arabi da Gerusalemme; dopo l’inizio della resistenza diversi gruppi di coloni si sono scagliati contro le abitazioni dei palestinesi al grido di “morte agli arabi”; arabi i cui spazi di agibilità sociale, culturale politica o di semplice aggregazione, si sono andati riducendo sempre più; vivono privi del diritto di cittadinanza in città e paesi dove abitano da generazioni: povertà, razzismo e segregazione caratterizzano le loro esistenze, tanto che non è fuori luogo parlare di pulizia etnica in atto.
Tutto sarebbe andato liscio se la risposta non avesse interrotto l’ennesimo atto di prevaricazione innescando una resistenza in tutti i territori occupati, nelle città palestinesi sottomesse allo Stato israeliano dalle politiche di annessione, e nella Striscia di Gaza. E diciamocelo pure con schiettezza: senza i morti, le bombe, gli stessi razzi di Hamas nel Mondo non si sarebbero riaccesi i riflettori su questo genocidio che va avanti 70 anni. E’ una tragedia nella tragedia il silenzio, l’amnesia, che si trasformano facilmente in complicità oggettiva verso lo Stato militarista israeliano.
E’ vero che anche ad Hamas (appoggiata ed armata da alcun paesi del Golfo e dall’Iran) giova una recrudescenza del conflitto, ne rafforza i consensi sulla Striscia e anche fuori; spinge verso una radicalizzazione islamica la popolazione, acuendo ed avallando gli aspetti di tipo religioso dello scontro. E questo gioco delle parti (entrambe consapevoli) potrebbe durare a lungo; Israele ha un alibi nei razzi lanciati dalla Striscia (e in percentuale altissima neutralizzati dai sui sofisticati sistemi antimissili); Hamas cresce grazie alle condizioni disumane in cui quasi due milioni di persone sopravvivono a Gaza, sotto un assedio lungo 15 anni, sotto embargo, senza possibilità di muoversi da quella che è a tutti gli effetti una prigione a cielo aperto, dove le condizioni di vita, quelle igieniche e sanitarie, sono atroci. La lezione è sempre la solita: ogni guerra fa comodo ai governi, li rafforza, alimenta odi patriottici, e a pagare sono le popolazioni, i civili, i bambini. Questo discorso critico non giustifica assolutamente una posizione di equidistanza, che suona cinica e falsa ed è solo un supporto al più forte; vittime e carnefici in questa vicenda sono chiari da sempre, nonostante lo sforzo dei media e dei politicanti di ogni colore, in Italia e altrove, di dare un’immagine distorta della questione.
C’è una responsabilità gravissima dell’ONU, ingabbiato nei veti incrociati, le cui risoluzioni-carta straccia hanno illuso i perbenisti e ingannato il popolo palestinese. Israele ha sempre violato ogni risoluzione, aiutato apertamente dagli Stati Uniti e dall’ipocrisia di Stati (Germania, Cina, Italia, compresi molti paesi arabi) che gli vendono armi e vi fanno fiorenti affari.
Ma una cosa sono i governi, un’altra cosa i popoli, specie quando non si riconoscono, almeno in parte, in essi. E l’attuale resistenza palestinese vede protagoniste nuove generazioni di giovani stanche delle politiche attendiste e compromissorie di leadership corrotte, borghesi e privilegiate; l’autorità palestinese è sotto accusa come lo è anche Hamas, e la resistenza diffusa in tutti i territori occupati, negli stessi villaggi e paesi inglobati dallo Stato israeliano, accende una nuova speranza: che la lotta possa finalmente uscire dalla sacche dell’immobilismo funzionale al completamento del genocidio.
Anche nella società israeliana le realtà organizzate che si ribellano al governo sionista e xenofobo di Netanyahu sono sempre di più; esse sono mobilitate nelle città grandi e piccole a fianco dei movimenti palestinesi contro la militarizzazione della società, contro la repressione del dissenso, contro il muro; sostengono l’obiezione di coscienza al servizio militare, una vera pace che non nasconda la solita umiliazione per i palestinesi, ma il ritiro israeliano dai territori occupati, la riunificazione territoriale e amministrativa della Palestina, la fine di ogni embargo e di ogni segregazione razziale, un processo di autodeterminazione che porti la popolazione palestinese a decidere sul proprio destino senza più il ricatto delle armi e le ipoteche delle potenze occidentali.
Noi, che in queste settimane siamo tornati a mobilitarci a fianco della resistenza palestinese, non possiamo che sostenere i movimenti spontanei o organizzati che in questa fase stanno riaprendo una questione che lo Stato di Israele e i suoi alleati volevano chiusa da tempo.
E’ il momento di denunciare e controinformare sulle complicità di governi come quello italiano con lo Stato militarista e guerrafondaio israeliano e quindi contro ogni processo di pace e libertà per il popolo oppresso palestinese; chiedere l’embargo della vendita di armi a Israele; sostenere il boicottaggio dei suoi commerci, dei suoi prodotti, delle sue compagnie turistiche e delle sue aziende. Ma soprattutto è tempo di cominciare a discutere su altre prospettive, altri sbocchi, portare contributi che rivedano gli errori compiuti dalle organizzazioni di liberazione della Palestina, per provare a intravvedere possibilità concrete di uscita da una situazione complicata e pericolosa. Dal Kurdistan, dal Rojava arrivano analisi, esempi, strumenti perché si rivedano le strategie basate sulla rivendicazione dello Stato nazionale, risultata perdente e suicida per la pace in Medio Oriente. E’ giunto il tempo che questi contributi vengano ripresi e rilanciati dalle aree libertarie e solidali; ed in questo la nostra responsabilità è grande: ad una “pace” generica va contrapposta una pace costruita dal basso, anche con le armi se necessario, per fare arretrare il mostro sionista; all’obiettivo di “due popoli – due stati” va contrapposto quello di “nessuno Stato – nessuna guerra”, autodeterminazione, autogoverno, convivenza alla pari sotto il segno della libertà, dell’ecologia, della massima laicità, del femminismo. Il modello Rojava va esportato, di esso bisogna parlare, approfittando delle nuove masse giovanili senza partiti o stanche dei vecchi partiti religiosi, patriarcali, burocratici, attaccati al potere, quindi corruttori e corrotti, venduti a potenze falsamente amiche corresponsabili del genocidio palestinese.

Pippo Gurrieri

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