Lavoro, campo di battaglia

Il mondo del lavoro è un campo di battaglia. Anche se la sindemia ha cancellato l’occupazione in migliaia di piccole realtà del settore terziario legato prevalentemente al commercio, alla ristorazione, dei servizi, ecc., il diktat dei padroni, fatto proprio dal governo, è stato quello di salvaguardare innanzi tutto la produzione, ovvero i profitti, imponendo la continuità lavorativa a quelle condizioni di rischio che altrove venivano invece utilizzate come argomenti per chiudere ogni attività.
Molti fronti di lotta sono accesi, e si sono infiammati ulteriormente, proprio per il deterioramento delle già pessime condizioni di lavoro. In particolare la situazione nella logistica, nella grande distribuzione, nei trasporti, in agricoltura, tenuti sotto pressione in questi ultimi due anni dalla necessità che la produzione non si fermasse, ha fatto registrare una recrudescenza dello sfruttamento, dei ricatti e della violenza fisica e verbale. Le fabbriche e le tante cooperative più o meno fasulle, il mondo degli appalti e dei subappalti, sono stati al centro di un attacco senza precedenti con il quale si è cercato di spegnere la conflittualità di un segmento di classe lavoratrice stanco di subire e teatro di una serie di fatti particolarmente gravi, come le cariche violentissime dei reparti speciali alla Texprint di Prato il 10 marzo, contro i lavoratori in sciopero da 60 giorni per richiedere 8 ore di lavoro su 5 giorni, al posto delle 12/14 ore su 7 giorni imposte dai padroni. Identica determinazione nella logistica, dove in tutte le sedi della FedEx/TNT si sono svolte lotte durissime, culminate con scontri violenti, arresti, fogli di via. E sono tornati i mazzieri a fare il lavoro sporco sotto lo sguardo vigile della polizia, come è accaduto la notte tra il 10 e l’11 giugno al deposito Zampieri di Tavazzano (Lodi) contro i licenziati FedEx di Piacenza o il 16 giugno contro i lavoratori Texprint: una escalation culminata, come sappiamo, con la morte di Adil Belakhdim, dirigente del SiCobas, scacciato da un camion che ha rotto il blocco davanti al deposito Lidl di Biandrate (Novara).
Parlare di campo di battaglia non è fare della retorica. Il governo, cancellando il già lacunoso blocco dei licenziamenti, ha spalancato le porte ad un altro attacco alle lavoratrici e ai lavoratori; sono decine le situazioni come la GKN di Firenze (422 operai licenziati), dove è bastata una semplice mail o una PEC o addirittura un messaggio su whatsapp per buttare in mezzo alla strada centinaia di persone, che si vanno a unire alle migliaia che da tempo lottano contro la chiusura di stabilimenti storici, come alla Whirpool di Napoli. Un fronte caldissimo da Nord a Sud, dalle imprese multinazionali alle piccole realtà, dove alle difficoltà magari a volte oggettive per queste ultime, si affiancano le delocalizzazioni delle prime verso paesi dove la manodopera è più sfruttabile, meno costosa e soprattutto maggiormente assoggettabile alla logica dei ricatti.
Ma campo di battaglia è anche quello reale fatto di vittime. Nel periodo più critico per l’economia, con parecchi settori fermi, non si sono affatto fermati gli incidenti mortali sul lavoro, gli infortuni, le malattie professionali. Nei soli primi 6 mesi del 2021 sono stati 538 i lavoratori morti sul lavoro; ma il mese di agosto ci ha offerto uno stillicidio pressoché quotidiano di decessi, anche in un periodo tradizionalmente dedicato alle ferie.
Ancora in testa l’edilizia e l’agricoltura, ma, come abbiamo visto, anche il mondo delle fabbriche non è stato esente per l’abbassamento dei livelli di sicurezza collegato alla volontà di far più profitti e non fermare la produzione. Sono settori in cui è maggiormente presente il lavoro dei migranti, sia regolari che irregolari, alle prese con una mancanza radicale di diritti.
Le imprese, con la scusa della crisi impongono forme di precarietà e flessibilità selvagge, aumentano i ritmi, agitano lo spettro dei licenziamenti, mentre procede a spron battuto lo smantellamento dei servizi pubblici, alla faccia del tanto sbandierato rilancio. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza si è già dimostrato uno strumento per foraggiare il gran capitale e il settore militare, mentre ad essere trascurati e quindi colpiti, sono ancora una volta la sanità, la scuola, la ricerca, il Mezzogiorno nel suo complesso, che si vede defalcare centinaia di miliardi di euro in favore del Nord.
E fra gli attacchi a lavoratrici e lavoratori non possiamo non menzionare quello pandemico, con il green pass usato come elemento discriminatorio, per ricattare e licenziare migliaia di lavoratrici e lavoratori privati della libertà di decidere liberamente sulla propria vita e salute. Un salto di qualità in termini totalitari, che non ha precedenti nella storia italiana se non risalendo agli anni delle purghe fasciste.
Per questo lo sciopero generale proclamato da tutte le sigle del sindacalismo di base per l’11 ottobre è un’occasione da non perdere; esso si muove su tutti i temi cruciali che caratterizzano la condizione operaia e lavoratrice: blocco dei licenziamenti, riduzione dell’orario di lavoro, aumenti salariali, gratuità dei servizi sociali, contrasto alla precarietà, rilancio degli investimenti nella scuola, nella sanità, nei trasporti, contro il progetto di autonomia differenziata, per rompere il monopolio delle organizzazioni sindacali concertative, per il diritto di sciopero e l’abolizione dei decreti Salvini, per il rafforzamento della sicurezza e del ruolo del RLS, per la tutela dei lavoratori immigrati e il permesso di soggiorno per tutti, contro lo sblocco degli sfratti per il riuso del patrimonio pubblico abbandonato; contro ogni discriminazione di genere; per la tutela dell’ambiente, il blocco delle produzioni nocive e delle grandi opere speculative; contro il G-20 di Roma.
Notiamo come ancora una volta il tema del taglio drastico delle spese militari sia stato omesso, e riteniamo questa una grave lacuna ed un deficit di prospettiva; così come non v’è alcun riferimento alla questione del green pass obbligatorio, forse perché ancora troppo divisivo. Ma non è più il tempo di mettere da parte il coraggio. Sappiamo tutti che una giornata di lotta nazionale non è che solo un momento, molto simbolico per quanto importante, dello scontro con il governo e il capitale. Ma è un segnale che va dato a tutti i costi. Il conflitto però dev’essere tutti i giorni ed esteso su tutto il territorio; deve riuscire a rompere gli argini del sistema, se vuole riuscire ad affermare le rivendicazioni degli sfruttati.

Pippo Gurrieri

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