INSORGIAMO

Movimenti. Autunno tiepido e percorsi di lotta

L’autunno dei movimenti ha colori sbiaditi e incerti. E non è una novità. Da quando il conflitto sociale è stato abolito per “statuto”, come la povertà, e l’unica legittima aspirazione è diventata l’union sacrée per il bene nazionale e la collaborazione tra le classi, che è più o meno l’orizzonte ideologico dei partiti che compongono l’arco parlamentare, dei sindacati istituzionali, dell’informazione di sistema. Tutto per resistere ai flutti travolgenti della competitività e agli spiriti animali del mercato globale ed assicurare che, attraverso il meccanismo dello sgocciolamento, a ciascuno giunga parte della ricchezza prodotta e tutti possano sedere al banchetto del benessere, beninteso al posto che gli viene assegnato dalle ferree regole della competenza, delle opportunità (pari) e dell’utilità: il trionfo della meritocrazia e dell’inclusione. Il sistema non è perfetto, come avverte pontificando Ezio Mauro su la Repubblica del 25 ottobre in un rassicurante articolo dal titolo L’occasione del riformismo, dove argomenta che però solo il riformismo, “di una sinistra che cerca se stessa, dunque nella tensione di portare finalmente a compimento l’imperfezione, che è la fatica quotidiana della democrazia”, ci può indicare la strada. Lasciamo dunque che siano i Draghi dell’economia e i Letta del sociale a farci uscire dalle secche della crisi e ad avvicinarci a quella condizione in cui, come scriveva Bobbio – citato da Mauro – si riesca a  “trattare in modo eguale gli uguali, e in modo diseguale i disuguali”. Certo Ezio Mauro è l’intellettuale/opinionista che costruisce la cornice ideologica, ma la presa del potere sulle classi subalterne al momento sembra salda. A dispetto di una pandemia di cui i governi non riescono a venire a capo, di una società in estremo affanno, le cui prospettive più immediate sono sicuramente quelle di dover far pagare il peso del riallineamento del capitale globale (la “crisi” dei prezzi delle materie prime ad esempio) alla classe dei lavoratori e dei precari. Anche l’astensionismo che ha caratterizzato le ultime elezioni amministrative è un segnale troppo debole per marcare una vera disaffezione e una decisa presa di distanza dalle istituzioni vigenti.
Tuttavia rivoli di conflittualità emergono, per fortuna, anche in un quadro così desolante, ma occorre saperne individuare caratteri e prospettive. Nelle ultime settimane la mobilitazione che ha avuto più visibilità e che con più determinazione ha occupato le piazze italiane è stata quella della controversa galassia di coloro che si oppongono al passaporto vaccinale, il famigerato green pass. La morbosa attenzione dei media ne ha fatto crescere la risonanza, certo non per comprenderne proposte e ragioni, ma per additarla come frangia estremistica di antiscientismo, manifestazione egoistica di una presunta libertà; e se si è anche detto che le proteste sono espressione di disagio e di sofferenza sociale, ciò non ne giustifica, a parere dei benpensanti, la deriva irrazionalistica.

Ora nelle piazze, in cui da Trieste a Milano, a Roma, a Torino si è manifestata la contrarietà ad uno strumento capzioso e potenzialmente liberticida (come molti dei mezzi di cui dispongono gli stati), si è visto di tutto. Cosa che ha subito attirato l’attenzione delle vestali della democrazia che hanno tirato fuori la logora ma sempre utile teoria degli opposti estremismi, in cui fascisti e anarchici si equivalgono, così da far quadrato attorno ai sacri principi dello Stato di diritto. Sul green pass e sui vaccini su questo giornale ci siamo espressi con chiarezza (da ultimo editoriale del numero di ottobre scorso), sforzandoci di denunciare quello che a tutti gli effetti si presenta come un ulteriore passaggio verso forme di controllo pervasivo che prefigurano una società sempre più autoritaria. Ma, come molte delle cose che stanno accadendo in questi quasi due anni di sindemia, si tratta di fenomeni già evidenti e visibili prima. Basta ricordare il dibattito sui limiti della democrazia che risale a quattro-cinque anni fa. Pertanto non si tratta di denunciare solamente probabili dittature sanitarie, presunti complotti di controllo totale, ma di misurarsi con una società e un potere che hanno nella loro costituzione di fondo la necessità del controllo e dello sfruttamento delle classi subalterne. Oggi come ieri. Invece il focalizzare l’attenzione esclusivamente sulla gestione sanitaria della pandemia, sul ruolo del vaccino come perno di controllo sociale e di limitazione della libertà personale rischia di decontestualizzare la pandemia, quale evento conseguente del modello di sviluppo capitalistico, di fare passare una rappresentazione del potere come moloch, groviglio di forze oscure impenetrabile e imperscrutabile, e non frutto di divisioni di classe, di violenza legalizzata, appannaggio di individui e gruppi ben conoscibili; oltreché contrabbandare un’idea di libertà esclusiva e proprietaria, di cui le destre, liberali o autoritarie, artatamente si fanno paladine. E’ chiaro che nelle proteste no green pass di queste settimane le posizioni sono molto più articolate e fluide, ma non si può non vedere il pericolo di rimanere schiacciati da dinamiche autoritarie e infine funzionali al recupero sistemico.

Se le mobilitazioni sul green pass sono state le più visibili, le piazze italiane in queste ultime settimane hanno visto anche altri protagonisti. A partire dalla manifestazione a Roma, organizzata dai sindacati confederali, in seguito all’assalto alla sede nazionale della Cgil da parte di Forza nuova. Una manifestazione che sembrerebbe indicare una certa tenuta di un variegato fronte riformista, quale che sia il significato da attribuire a tale denominazione. Prima, l’11 ottobre c’era stato lo sciopero generale di tutte le sigle del sindacalismo di base, evento raro fino ad oggi che potrebbe far segnare una discontinuità fruttuosa. I sindacati di base hanno chiamato i lavoratori (e non solo) ad una prima larga protesta contro il governo Draghi su un’ampia piattaforma che andava dalla conferma del blocco dei licenziamenti, ad aumenti salariali, a riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, al salario medio garantito a tutti i disoccupati, ad investimenti pubblici su scuola, sanità e trasporti, al no green pass. Sebbene le piazze di alcune città abbiano fatto registrare una presenza vivace e determinata, l’adesione allo sciopero è stata piuttosto modesta. Ci si dovrebbe chiedere come mai una piattaforma di così buon senso e credibile, non riesca ad intercettare l’interesse e la partecipazione della classe lavoratrice.

Infine, ma non ultime (come si suol dire), le mobilitazioni per la crisi climatica e ambientale promosse principalmente, non solo in Italia, dai giovani di Fridays for future e altre organizzazioni ambientaliste, Extinction rebellion, ad esempio. Giustizia ambientale e sociale è il felice slogan coniato dai giovani per coniugare attenzione verso la distruzione dell’ambiente che rischia di diventare irreversibile nel giro di pochi decenni e le grandi disuguaglianze sociali prodotte dal sistema capitalistico. A fianco di queste ultime mobilitazioni non bisogna dimenticare quelle che negli ultimi anni hanno visto impegnati i movimenti No tav, No muos, No tap, No ponte, Non Una Di Meno, la Società della cura, o il disparato movimento contro la guerra, o quello per l’acqua pubblica, o i tanti altri piccoli e meno piccoli che si articolano sui territori.

La questione è: la sindemia in atto, il precipitare delle condizioni ambientali e climatiche, le mostruose diseguaglianze sociali, di genere, tra i vari nord e sud del mondo richiederebbero una capacità di mobilitazione di gran lunga superiore all’attuale. E’ possibile che questi innumerevoli, ma dispersi e al momento ininfluenti, rivoli di contestazione sociale trovino delle convergenze che a partire dai territori sappiano dare un indirizzo per il superamento concreto del sistema di sfruttamento capitalistico, iperproduttivistico e iperconsumistico? Su questo bisogna impegnarsi e per questo bisogna lavorare.

Angelo Barberi

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