Europa-guerra: avanti tutta!

La ricorrenza, il 24 febbraio scorso, dei due anni dallo scoppio della guerra russo-ucraino è stata l’occasione per immettere in circolo ulteriori abbondanti dosi di militarismo guerrafondaio. Non ha fatto mancare il suo contributo l’ineffabile presidente del consiglio Meloni che in qualità di presidente di turno del G7 è volata a Kiev per manifestare il suo sostegno convinto alla guerra in corso e per firmare un accordo bilaterale con l’Ucraina, simile a quelli già sottoscritti da Francia, Gran Bretagna e Germania, su cooperazione industriale, scambi di intelligence, sostegno alle riforme. La Nostra si è pure esibita in una di quelle dichiarazioni roboanti intrise di pathos: “Questa terra è un pezzo della nostra casa e noi faremo la nostra parte per difenderla”, ha detto rivolta ad un Zelensky sempre più avido di armamenti. E’ stata comunque una settimana in cui cariche istituzionali e governative europee si sono sprecate in dichiarazioni sul piede di guerra che prese alla lettera sarebbero da avventurieri da quattro soldi o da criminali. Tra queste spiccano quelle del presidente francese Macron che ha detto di non potere escludere l’invio di militari in Ucraina e quelle della von der Leyen che davanti al Parlamento europeo riunito in plenaria ha dichiarato: “Dobbiamo potenziare molto velocemente la nostra capacità industriale di difesa nei prossimi cinque anni”. Insomma per costoro siamo oramai entrati in un’economia di guerra.

Un’Europa divisa nella sostanza su tutto sembra qui marciare compatta e determinata in un’unica direzione: il riarmo e la preparazione di un clima prebellico. La guerra apertasi nel 2022 in Ucraina, è vero, ha segnato una svolta nelle guerre che si sono combattute negli ultimi trent’anni. Lo scontro, ancorché negato ufficialmente e realizzato per interposta persona, è in questo caso più direttamente tra potenze egemoni e rappresenta uno dei tasselli rilevanti nella ridefinizione delle relazioni geopolitiche future, in questo travagliato inizio di ventunesimo secolo. Tuttavia la pervicacia con la quale si minimizzano le guerre precedenti o addirittura si nega che l’Europa sia stata coinvolta in guerre dopo la fine della seconda carneficina mondiale, quando le guerre che sconvolsero la ex Iugoslavia negli anni Novanta erano già allora un monito per un’Europa che si prestava a fare da pedina nello scacchiere dello scontro mondiale, appare sospetto. E infatti è utile a far passare la narrazione di un pericolo estremo che occorre a tutti i costi fronteggiare con l’unico mezzo che ci è rimasto: la guerra. E invero, secondo questa rappresentazione, il nemico oggi è l’incarnazione dell’alterità assoluta rispetto a quei valori di cui l’Occidente si ammanta: libertà e democrazia. Nulla importa se tutto ciò è una costruzione ad hoc per orientare un’opinione pubblica sballottata di qua e di là in un mondo sempre più incerto e minaccioso. Una costruzione cui allegramente partecipano congiuntamente tutte le forze politiche e gli orientamenti culturali, salvo poche eccezioni.

Per rimanere al dibattito pubblico italiano come altrimenti interpretare posizioni quale quella della rivista Limes, il cui ultimo numero in edicola titola Stiamo perdendo la guerra, se non come propaganda di guerra. E’ vero, nell’editoriale che introduce il numero il suo direttore, presumibilmente, si prodiga in una raffinata analisi degli attuali equilibri mondiali, del ruolo che l’Italia vi ricopre e di quello che potrebbe ricoprirvi, ma infine come unica alternativa positiva, se si riuscirà ad evitare di precipitare dall’attuale “Guerra Grande” ad una aperta terza guerra mondiale, viene prospettata una pace armata a fare da deterrente, una sorta di nuova edizione della guerra fredda, dove l’Italia in questo caso dovrebbe avere un ruolo se non da protagonista da comprimaria. Eccoci così apparecchiato il nostro roseo futuro prossimo: “Guarda caso le aree critiche in cui avremmo maggior bisogno di limitato supporto e aperta benedizione americana appartengono alla classe di quelle che Washington non vuole evacuare ma di cui non può/vuole sostenere i costi. Dai Balcani inclusa Ucraina fino al Mediterraneo centrale (Stretto di Sicilia) e orientale, dal Nordafrica al Sahel. Sul piatto dovremmo mettere importanti risorse economiche, diplomatiche e militari. In cambio Washington dovrebbe offrire sostegno logistico e di intelligence, ma soprattutto esplicito appoggio all’impegno italiano, contro eventuali sabotaggi di «amici e alleati»”. Insomma siamo ancora all’antico adagio se vuoi la pace prepara la guerra, contrabbandato come lucido realismo e sano buonsenso da sacerdoti in atto sacrificale.

Di fronte ad una così massiccia propaganda e ad un intruppamento che coinvolge ampi strati della società, seppure passivamente, quali azioni intraprendere per contrastarli, quali strumenti rimangono a chi vuole opporsi alla deriva guerrafondaia? Forse non molto, eppure non ci si può fare annichilire da questo militarismo pervadente. Se ad oggi un movimento pacifista consapevole, che al momento non c’è, non ha una propria strategia efficace per contrastare le guerre, tuttavia dovrebbe riprendere a riflettere su alcune questioni dirimenti. Innanzitutto il rifiuto della guerra non può essere disgiunto da quello delle armi e degli eserciti. Qualsiasi posizione che si reputi contraria alla guerra senza metterne in discussione i suoi principali strumenti è solo autoinganno o complicità. Ancora, il ripudio della guerra deve essere una volta per tutte sottratto allo stanco esercizio retorico di richiamarsi al fantomatico articolo 11 della Costituzione. Una visione che pensa la guerra come abominio dovrebbe essere capace di prospettare una trasformazione radicale delle attuali strutture sociali che imprigionano energie e libertà e le piegano ai loro interessi. Altrimenti quale forza può opporre una gioventù ad un sistema che la induce alla scelta militarista? Non gli resta che abbandonarsi al “destino” e da qui il passo è breve per diventare manganellatore e, chissà, carnefice.

La storia che probabilmente non è maestra di vita altrimenti avrebbero ragione i sostenitori della sua fine, però potrebbe suggerirci che dovremmo sempre operare per lo scarto, per uscire dai binari in cui le forze del sistema ci costringono.

Come scrive Vasilij Grossman nel suo magistrale Vita e destino le forze delle potenze, degli stati e dei governi sono soverchianti ma vi è sempre una scelta che il singolo compie e su questa scelta occorre far leva, che diventi una scelta sempre più comune e contagiante di rigetto della guerra come delle istituzioni che la progettano, la sostengono e la mettono in atto.

Angelo Barberi

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DIFENDERSI CON LA LOTTA SOCIALE

La destra asociale. Sempre forte con i deboli

Frecce tricolori, Torino 16 settembre 2023: non dimentichiamo. Disegno di Federico Zenoni.

Per celebrare il primo (e speriamo ultimo) anno di governo Meloni, il partito di maggioranza Fratelli d’Italia ha pubblicato una brochure per raccontare quanto fatto finora. Sono 32 pagine, che avrebbero potuto essere 4 o 5 per via del carattere gigantesco che è stato adoperato e l’uso smodato delle foto. I giornali si sono concentrati sulla veridicità delle affermazioni, ossessionati come sono dalle fake-news, che qui preferiamo chiamare con la parola più consona, minchiate: se quel dato è gonfiato o meno, se quel numero è aggiornato, se le responsabilità di un risultato sono proprie o del governo precedente. Un approccio da secchioni, che ci sta pure, per carità, ma che rischia di sviare dal vero fallimento di questo governo.
Non sarà una promessa non mantenuta a fare mollare la presa del potere da parte di questa destra fatta di incapaci e malfattori ma il dato di fatto che il governo Meloni è espressione di una destra asociale, antipopolare, che fa riferimento ad alcune fasce sociali (commercianti, padroncini vari, forze dell’ordine) a cui garantisce la continuità di una rendita parassitaria. Mentre alla maggior parte delle persone si impone l’accettazione dei soprusi economici, culturali e sociali. Sei povero? Sono problemi tuoi, non vorrai mica rovinare l’ordine borghese. Misure come la cancellazione del reddito di cittadinanza, di cui ci si fa pure vanto nella brochure, sono andate proprio nella direzione di costringere chi è in difficoltà ad accettare i vergognosi stipendi messi sul piatto da imprenditori sempre più meschini, e che negli ultimi tempi venivano respinti con assoluta dignità. E non è un caso che la misura sia stata tolta a ridosso dell’estate: lo scopo era di fornire manovalanza in condizioni di semi schiavitù  a quel mondo che gravita attorno al turismo, dalla ristorazione all’alberghiero, per poter poi gonfiare il petto ed esaltare i sopraggiunti flussi. Nella formula “sì ai turisti e no ai migranti”, che ha contrassegnato l’estate italiana, c’è non solo il razzismo endemico di questa penosa gentaglia al potere ma, ancora una volta, la precisa volontà di sostenere i privilegi di pochi a scapito di tanti.  Perché, sia chiaro, il governo Meloni apre le porte della nazione solo a chi è in grado di spendere, e poco importa se con quei soldi i turisti di passaggio depredano i territori, alimentano speculazioni edilizie e sui beni di prima necessità, espellono le persone dai centri storici. Per gli altri, le persone migranti che questa destra detesta non solo perché hanno pelli di colore diverso ma anche perché sono povere, vale “il diritto di non emigrare”, l’ultima fesseria partorita da questi patrioti arraffoni.
Allora forse converrebbe rovesciare l’epopea dell’Italia vincente e il racconto di “come il governo Meloni sta facendo ripartire la nazione“, come viene scritto nella brochure, e analizzare non tanto le bugie o le mistificazioni, che è il pane quotidiano di chiunque sia al potere, ma tutto ciò che la destra sta facendo contro il popolo di cui si sciacqua la bocca ogni giorno. Altro che destra sociale o populista, come ancora viene definita da certa stampa mainstream. In un solo anno il governo Meloni, secondo le stime del Codacons, ha incassato dall’aumento del prezzi dei carburanti 5,6 miliardi di euro in più grazie alle accise. Si tratta di soldi strappati a chiunque, dato che viviamo nell’era del trasporto privato, anzi individualistico. E invece di combattere tale modello che si inventano questi scarsi patrioti? L’ennesimo bonus benzina da, udite udite, 80 euro a persona, anzi a famiglia (e ovviamente soltanto per la famiglia come la intende la destra): una schifosa mancia che non darà reale supporto a nessuno e mantiene inalterato il dominio delle compagnie energetiche e della rete di distribuzione. Una misura che, come calcolato dal Codacons, costerà al governo appena 110 milioni di euro, una cifra che rappresenta lo 0,7% della stangata subita dalle italiane e dagli italiani, se consideriamo i costi diretti e indiretti dell’aumento dei carburanti (14,7 miliardi di euro).
E non è solo l’aspetto economico a essere preponderante. Ognuna delle 32 misure di cui si fa vanto il governo Meloni nel suo primo anno di vita, in fondo, va nella direzione di ingrassare i privilegi dei potentati, sottraendo risorse e diritti a tutte e tutti, con l’obiettivo di confinare nella marginalità tutto ciò che risulta difforme. Sarebbe troppo lungo analizzare la propaganda della destra punto per punto sotto questa ottica, ci limitiamo a citare un caso esemplificativo. Per dire, la destra si fa vanto di aver scatenato una “guerra alle occupazioni abusive”: a parte la scelta lessicale, ciò che emerge da una parte è l’annuncio degli “sgomberi a tappeto”, senza una parola su chi verrà buttato per strada, dall’altra si dispone nella prossima legge di bilancio l’esenzione del pagamento dell’IMU “per aiutare concretamente chi subisce il torto di vedere espropriato illegalmente il proprio immobile”. Capito? Nella retorica vittimistica sono i palazzinari ad aver bisogno di aiuto.
Non è più l’antico adagio “debole con i forti e forti con i deboli”. Questa destra è esclusivamente dalla parte dei forti e contro tutte e tutti noi. Deve essere questo il punto di partenza per la mobilitazione collettiva, non il fatto che il governo Meloni non sia capace di  mantenere le promesse, perché già queste, da sole, facevano schifo ed erano contrapposte agli interessi collettivi. Alla destra asociale va contrapposta la lotta sociale. 

Andrea Turco

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SCAFISMO DI STATO

Un decreto del Ministero dell’Interno prevede che il migrante richiedente asilo in grado di versare una “garanzia finanziaria” di 4.938 euro può evitare di essere rinchiuso in un Centro Permanente per il Rimpatrio, e attendere l’esito della propria domanda in una struttura più adeguata. Con questa ultima oscena trovata, che si rifà a precedenti decreti dei governi Prodi e Renzi sospesi perché la cifra non era stata mai definita, e il più recente decreto affossa accoglienza Cutro, il governo Meloni affianca la sua soluzione da “scafismo di Stato” alle altre attuate in questa calda estate: cariche della polizia, detenzioni inumane, provvedimenti all’insegna dell’emergenza, vocati al più bieco e repressivo razzismo; reclusione fino a 18 mesi nei centri di internamento per persone ree solo di provenire da luoghi invivibili e di cercare un futuro migliore; costruzione di nuovi CPR lontani dai centri abitati per scoraggiare le fughe, gestiti dall’esercito per meglio controllare i migranti ivi reclusi. Saranno interessate tutte le regioni (con mugugno di quelle a guida leghista), mentre la Sicilia si accinge a diventare un grande hot spot con il nuovo CPRI di Pozzallo, inaugurato da pochi giorni nell’area industriale di Modica; un moderno carcere per migranti che si affianca all’hot spot del porto, e quello nuovo previsto a Porto Empedocle.
In questa eccitante fase di cattura delle prede illegali che minacciano i sacri confini, si è inserito il tribunale di Catania che ha liberato quattro ragazzi tunisini dichiarando incostituzionale il decreto governativo e stabilendo che la provenienza da un “paese sicuro” di per sé non può escludere l’applicazione delle norme di protezione; il giudice Iolanda Apostolico è anche entrata nel merito dell’arbitraria privazione di libertà per individui che non hanno commesso reati ma sono solo in attesa di una risposta alla loro richiesta di protezione internazionale; e ha anche contestato la norma sui quasi 5000 euro, che non potrebbero essere versati da terzi ma solo dai diretti interessati. Uno sgambetto imprevisto che ha fatto gridare alla “decisione ideologica” il partito del presidente.
A Porto Empedocle abbiamo assistito al vergognoso assiepamento di migliaia di migranti, nella maggior parte minori non accompagnati e donne provenienti da tragitti caratterizzati da violenze, stupri e torture, in una tecnostruttura messa in piedi in un piazzale di cemento, sotto il sole cocente, priva di letti, sedie, tavoli, circondati da immondizia, immersi nel tanfo di piscio e controllata da forze di polizia, gestita dalla Croce Rossa con divieto di accesso alle organizzazioni umanitarie. Porto Empedocle, ponte con Lampedusa ma meno visibile, dove i migranti reclusi hanno dato vita a diverse proteste, compresa un’irruzione nel centro abitato, per richiamare l’attenzione su una condizione insostenibile.
Anche a Lampedusa i migranti hanno protestato, hanno subìto le cariche della guardia di finanza, sono stati trattati come i “nemici invasori”, per poi essere nascosti durante la visita della Meloni e della Von der Layen, quando andava mostrata una situazione pacificata e tirata a lucido, mentre ci ha pensato la popolazione a disturbare quei 10 minuti di presenza istituzionale, protestando contro la militarizzazione dell’isola e l’incapacità di gestire una situazione che si protrae da lunghi anni e non è affatto emergenziale.
Il governo non trova di meglio che considerare le popolazioni in fuga come dei pacchi da riconsegnare, proseguendo così la violenza e le estorsioni che i migranti subiscono durante i lunghi viaggi, e poi nelle località di partenza verso l’Europa, sia essa Sfax o siano i porti libici. Nel bel mezzo del can can mediatico sono arrivate le immagini dello speronamento volontario di un gommone da parte della Guardia Costiera libica e dell’intervento successivo di un mezzo navale donato dal governo italiano per riportare i superstiti del naufragio nei lager del paese.
Il fatto paradossale è che le opposizioni accusano di fallimento Salvini e Meloni, mostrando tutta l’ambiguità di chi è stato da sempre complice delle politiche antimigratorie. Fallimento secondo PD e 5 Stelle che cosa vuole dire? Che non sono riusciti a contenere i flussi? Che non sono riusciti a mantenere la promessa di bloccare i barconi o di chiudere i porti? Fallimento del governo perché loro invece ci sarebbero riusciti? Mai che vengano fuori parole chiare su una legalizzazione dei flussi, una regolarizzazione dei migranti, una libertà di ingresso in Europa, che impedirebbero violenze e tragedie, ricatti e ingrassamento delle mafie, tutti effetti distorti di un sistema di affrontare l’emigrazione violento e razzista ma comunque inefficace. Perché impossibile è fermare un evento epocale conseguente alla distruzione dei sistemi sociali dei paesi di provenienza attuato da politiche colonialiste dirette e indirette, alle diseguaglianze geopolitiche e sociali volute dagli imperialismi e dal capitalismo, accentuate dai cambiamenti climatici e dalle strumentalizzazioni politico-elettorali in atto nei paesi europei-occidentali. Guai a parlare dell’enorme debito accumulato dai paesi ricchi verso i paesi africani, asiatici e latinoamericani, in secoli di sfruttamento intensivo delle loro risorse e delle loro popolazioni.
Ancora assistiamo ai miserabili  tentativi di finanziare il governo razzista e totalitario tunisino secondo lo spirito di esternalizzare le frontiere dell’Europa, come già avviene con la Libia e la Turchia o con i paesi subsahariani. Tunisia dove il salviniano e meloniano “prima gli italiani” viene tradotto da Kaïs Saïed in “prima i tunisini”, che in pratica significa segregazioni, caccia al nero, sviluppo dell’economia mafiosa dello scafismo. Ma anche alla tragicommedia che vede il presidente nordafricano ribadire di non voler fare il guardiano dei confini altrui.
Tutto questo si cela dietro il famigerato “Piano Mattei”, il tentativo di riposizionare l’Italia al centro delle politiche energetiche dei paesi magrebini, facendone il punto di riferimento dei loro commerci delle principali materie prime (petrolio e gas). L’Italia, divenendo il maggior hub energetico europeo pagherà i governi del Nord Africa, uno più fascista e razzista dell’altro, contribuendo anche al loro riarmo e all’addestramento delle loro forze armate, guardie costiere in primo luogo, in modo da poter costruire una cintura di sicurezza antimigratoria.
Un piano destinato a fallire non solo per le contraddizioni politiche ed economiche interne all’UE, ma soprattutto perché i miliardi italo-europei incrementeranno corruzioni e guerre e non serviranno a fermare l’ondata migratoria. Non hanno capito niente. O più semplicemente, nella loro strategia a corto termine, utile solo a vincere qualche campagna elettorale, non gliene frega niente dei loro futuri fallimenti e delle tragedie altrui.
Questo ci autorizza a ribadire come i veri favoreggiatori dell’immigrazione clandestina siano proprio loro: Giorgia Meloni, Matteo Salvini, il governo di centro destra e le pseudo opposizioni che in tema immigrazione non han fatto altro che adottare le medesime politiche, salvo irrilevanti cambi di toni e periodici mea culpa davanti alle reprimende papaline, anch’esse figlie di un gioco delle parti le cui vittime sono quei milioni di “poveri cristi” in fuga dalla propria terra. E a questi scafisti di Stato che vanno addebitati gli oltre 2500 morti sul Mediterraneo di quest’anno.

Pippo Gurrieri

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LA SICILIA IN FIAMME

Devastazioni. Un disegno politico e strategico

Anche questa estate la Sicilia è stata devastata dagli incendi. 60.0000 ettari di territorio sono andati in fumo al momento in cui scriviamo (ma l’emergenza continua): circa il 70% dei suoli attraversati da incendi in tutta Italia. Si aggiungono ai 193.788 ettari che, secondo dati ufficiali, sono stati bruciati nel decennio 2013-2022, di cui almeno la metà in aree boscate protette. Se consideriamo che il patrimonio boschivo dell’Isola è valutato in 381.647 ettari complessivi, risulta lampante l’enormità del disastro. Questa è resa ancor più evidente dal fallimento del sistema antincendio e di protezione civile – il più imponente d’Italia -, dal ritardato o inefficace intervento di carabinieri e operai forestali, di guardiaparco, di vigili del fuoco, di associazioni di volontariato, che sulla carta avrebbero dovuto allertarsi secondo piani prestabiliti ancor prima che iniziasse la stagione estiva. Perché ciò non è avvenuto?
La cultura della prevenzione, la messa in sicurezza dei territori, il lavoro verde e persino l’educazione ambientale, si sa, non appartengono alla destra al potere in Sicilia e nel resto d’Italia, che preferisce anzi puntare sulla repressione postuma, sulla militarizzazione delle campagne, sugli scoop per la presa di pochissimi presunti piromani, e sulle interviste paraculo in cui i suoi esponenti si rimpallano le responsabilità (come tra il ministro della protezione civile ed ex presidente della Regione Musumeci e l’attuale presidente Schifani) o criminalizzare gli operatori del settore, che rischiano quotidianamente la vita, e le stesse popolazioni delle aree coinvolte. È un dato di fatto che la prevenzione e l’ambiente siano volutamente trascurati e talvolta avversati dai governi in carica, col negazionismo climatico, coi sussidi sottratti alla transizione verde per foraggiare l’industria fossile, col depotenziamento e la distrazione delle forze deputate al controllo ambientale (i carabinieri – ex guardie – forestali sempre più chiamati a compiti di polizia giudiziaria), con l’abbandono delle “torrette” di avvistamento, delle perlustrazioni giornaliere dei boschi, dei lavori di pulitura, manutenzione, ripristino dei viali tagliafuoco e delle piste antincendio, con le mancate o ritardate assunzioni degli operai forestali.
Dietro tutto questo traspare un disegno politico e strategico che oggettivamente incoraggia tutti coloro, piromani, speculatori, intrallazzatori, proprietari e costruttori abusivi che hanno in odio le aree a verde dell’Isola e che per interesse economico o politico o addirittura per pregiudizio ideologico premono per richiederne la dismissione, la riduzione, la riperimetrazione e, quando non l’ottengono per vie formali, si fanno pochi scrupoli ad attentarvi nei modi più disparati e, per ultimo, con gli incendi. Delle istanze di costoro, specialmente nella Sicilia Occidentale, si è fatta probabilmente carico l’organizzazione mafiosa, dapprima con minacce, ricatti, scambio di voti, e oggi passando alle vie di fatto.
Lo si nota particolarmente quest’anno nell’attacco deliberato alle aree tutelate a parco e alle riserve naturali e archeologiche gestite dallo Stato e dalla Regione, e nel dilagare degli incendi in prossimità dei centri abitati e perfino nelle periferie delle grandi città. Si tratta nel primo caso di un vero e proprio attentato alla proprietà pubblica, ai beni comuni – storici e naturalistici – dei siciliani e alle istituzioni che se ne fanno garanti, ma che nell’occasione hanno rivelato tutte le loro reali inefficienze. Dall’Etna alle Madonie, dai Nebrodi all’Alcantara, da Capo Gallo a Monte Pellegrino, da Segesta a Pantalica, da Tindari a Ragusa Ibla, dal Monte Bonifato di Alcamo al lago Poma di Partinico, dallo Zingaro a Erice, da Piazza Armerina al parco minerario Floristella-Grottacalda ben poco è stato risparmiato dalle mire dei piromani, che hanno potuto agire indisturbati in ambienti accoglienti. Nel secondo caso ci si è trovati di fronte a situazioni definite tecnicamente “fuori controllo”, di resa incondizionata al fuoco da parte degli apparati di protezione civile, inconcepibile e inimmaginabile solo pochi anni fa, che hanno prodotto tre morti, centinaia tra feriti e intossicati dal fumo, l’evacuazione di interi paesi e frazioni, ad Oliveri, Giarre, Scopello, Acicatena, Campofelice di Roccella, San Vito lo Capo, Scicli, Trappeto, Petralia Soprana, Cinisi … Il fuoco ha circondato Palermo, è penetrato nelle periferie della città, a Ciaculli, Monreale, Giacalone, Altofonte, Mondello, Sferracavallo, e ha raggiunto la discarica di Bellolampo, sprigionando nell’aria una nube di diossina che in città ha toccato 35 volte i valori massimi consentiti, costringendo i cittadini a tapparsi in casa e a reindossare le mascherine.
In questi come negli altri clamorosi casi di sospensione dei voli per diversi giorni dai tre principali aeroporti siciliani (Catania Fontanarossa, Palermo Punta Raisi e Trapani Birgi), con una perdita stimata del 30% del traffico turistico, dell’interruzione dei collegamenti ferroviari e autostradali, dei blackout elettrici e idrici, provocati dal fuoco e dal caldo “africano” e verificatisi un po’ ovunque, si sono manifestate tutte le carenze gestionali e infrastrutturali di cui soffre la Sicilia, per responsabilità di una classe politica arraffatrice e incapace, quando non corrotta, che gli imbellettamenti di facciata non sono riusciti stavolta a mascherare.
Sono insufficienti o in avaria o inadeguati mezzi e personale, vi è un eccesso di burocrazia e sciatteria nell’attività di prevenzione, previsione e contrasto di eventi peraltro annunciati e ricorrenti, non esistono vie di fuga in molti paesi e città, soprattutto mancano di piani di funzionamento alternativi per le infrastrutture strategiche e di grande comunicazione, magistratura, università, mezzi di informazione sono sempre più supini ai governi in carica e incapaci di prospettare rimedi.
I fenomeni climatici estremi (caldo eccessivo, “bombe d’acqua”, forti venti sciroccali), che hanno inciso sullo sviluppo degli incendi ma sui quali i politici regionali scaricano le proprie responsabilità, non vanno affatto considerati come delle attenuanti, a cui si appellano sempre più i politici culi di bronzo e i burocrati degli Enti regionali ad essi ammanicati, ma delle aggravanti piuttosto, riguardo alle loro colpevoli inadempienze, in quanto – lo capiscono perfino i bambini – per contrastarli bisogna attrezzarsi di più e meglio e non di meno rispetto al passato.
A chi comanda dall’alto e su di sé concentra ogni potere d’intervento che va in primo luogo addebitato questo permanente sfregio al cuore verde della Sicilia, la messa a repentaglio della vita dei singoli e delle comunità rurali, la distruzione di boschi e colture. I rimedi devono provenire dal basso: da una mobilitazione di massa per la rimozione dei responsabili, innanzitutto, ma anche per far sì che siano i Comuni, possibilmente coordinandosi tra loro, a tornare protagonisti della lotta agli incendi, impiegando e distaccando in essi un congruo numero di operai forestali, affiancati da gruppi di volontari, solidamente formati, muniti di sensori antifumo, di torrette e posti di avvistamento, e comunque di tutti quei mezzi necessari per operare un controllo capillare del territorio. Occorre coinvolgere questi gruppi, unitamente a selvicoltori e tecnici forestali, nella redazione di veri piani di intervento per la manutenzione costante, la tutela e la salvaguardia dei boschi e delle popolazioni. Occorre aprire una vertenza “per l’imponibile di manodopera”, al fine di imporre l’assunzione delle tante figure professionali che abbisognano (forestali, cantonieri, tecnici agronomi, ecc.) per la tutela ambientale ma anche per la valorizzazione del paesaggio, dei territori e dei prodotti coltivati o spontanei. Ma più di tutto occorre che i giovani disoccupati, quelli che studiano altrove, le tante forze vive dell’associazionismo e del volontariato locale, ritrovino il gusto per l’impegno in prima persona nel luogo dove vivono. Solo dal basso, da chi conosce il territorio, da chi lo ama appassionatamente – e sono tantissimi -, da chi opera a favore della propria comunità ed ha interesse alla sua salvaguardia, può arrivare finalmente quel moto di riscossa che serva a debellare gli incendi e le devastazioni del territorio.

Natale Musarra

 

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Rilancio antimilitarista

Mentre la situazione sul campo in Ucraina si trascina malamente, e lo stallo pare faccia aumentare le ipotesi di un accordo di pace armata, le fibrillazioni in campo occidentale non rallentano affatto e la guerra con i suoi vari indotti ispira e guida le politiche dei paesi dell’UE, messi in riga dagli USA nella nuova NATO. In maniera sempre più sfacciata si tagliano settori essenziali come la sanità e l’istruzione per assicurare il riarmo continuo, mentre emerge l’incapacità a gestire i tanti disastri ambientali e climatici che affliggono il paese da Nord a Sud. Se non ci fossero i volontari, i corpi ufficiali dello Stato (Protezione Civile, Vigili del Fuoco, esercito) sarebbero letteralmente nella cacca, nonostante l’abnegazione e gli sforzi di tanti soggetti. Lo Stato acquista, fabbrica, commercia in aerei da guerra sempre più sofisticati, poi esplode l’insufficienza dei Canadair per lo spegnimento dei fronti di fuoco che distruggono territori trascurati o spopolati e abbandonati.
Di fronte a tutto questo potrà sembrare folle che movimenti sparsi per l’Italia si organizzino per combattere la follia militarista. Infatti occorre una lucida follia per decidere di dedicare energie e magari la propria vita all’opposizione alla vera follia distruttiva del capitale, per cui la guerra rappresenta da sempre uno sfogo alle proprie difficoltà e un’occasione di espansione degli affari (che si traduce anche in aumento del fantomatico PIL per gli Stati).
Anche questa estate le occasioni si sono infittite nelle zone interessate a progetti di militarizzazione; a Coltano (Pisa) a fine luglio si è svolto il primo campeggio a cui hanno preso parte esponenti di varie realtà nazionali; a Niscemi si è svolto il tradizionale campeggio del Movimento NO MUOS, di cui si può leggere il resoconto a pag. 2; altri appuntamenti su temi più specifici hanno avuto luogo in Italia e all’estero, con uno spirito internazionalista.
Si è trattato di momenti di dibattito, riflessione e confronto sulle modalità per rendere più incisive le lotte e sviluppare percorsi di unità. Sono emerse due importanti scadenze nazionali: il 21 ottobre (l’indomani dello sciopero generale promosso dai sindacati di base), una giornata di mobilitazione che vedrà manifestazioni in Toscana, in Sicilia ed in altri luoghi, e il 4 novembre, giornata delle Forze Armate, scelta come data per una protesta sulle ingerenze militariste nel campo dell’istruzione e della ricerca. Ma l’autunno presenta già altri importanti appuntamenti, come quello del 18 novembre a Torino contro Aerospace, la fiera militare dell’aerospazio.
La questione militare è entrata di prepotenza anche nel discorso del Ponte sullo Stretto; fonti militari NATO hanno infatti dichiarato che l’infrastruttura sarà indispensabile per lo spostamento di mezzi terrestri in Sicilia in funzione di rafforzamento della proiezione militare dell’isola nel Mediterraneo. Anche se questo comporterebbe almeno altri 7 miliardi di costi per attrezzare il ponte – un obiettivo molto sensibile – di armi di difesa, come le batterie antimissile. La questione è stata posta anche al campeggio No Ponte di metà agosto e non poteva non emergere nel corteo del 12 agosto a Messina, caratterizzato da una grande partecipazione popolare come non si vedeva da anni. La città (ma anche la Sicilia e la Calabria) alza la testa contro la mega grande bufala che vende una mega opera distruttiva di paesi e ambienti, buona solo per le mafie e le consorterie politiche.
Ma la frenesia militarista punta sempre su Sigonella, dove si procede all’armamento dei pattugliatori “Poseidon”; il primo è stato armato il 6 giugno con 4 missili antinave AGM-84D “Harpoon” (gettata 120 km) allo scopo di rafforzare la presenza armata nel Mediterraneo e nel Mar Nero. Da veicoli di pattugliamento ad aerei killer pronti ad intervenire. Ricordiamo che il 15 aprile 2022 fu un “Poseidon” partito da Sigonella a svolgere un ruolo centrale nell’affondamento della nave ammiraglia della Marina russa “Moskva”.
Non solo Sigonella. La vicenda del poligono di addestramento per la Brigata Aosta, rimasta impigliata per l’opposizione delle popolazioni e delle amministrazioni dei tre comuni interessati, non va considerata ancora chiusa, e ci aspettiamo nuovi sviluppi nelle prossime settimane. Nel frattempo il Presidente della Commissione Difesa della Camera Nino Minardo, siciliano di Modica, annuncia che l’ex stabilimento Fiat di Termini Imerese potrebbe presto diventare la fabbrica dei carri armati tedeschi Leopard 2, che attualmente l’Italia acquista dalla Germania (ultima spesa: circa 6 miliardi). I costruttori di morte usufruirebbero degli incentivi per le aree ZES (zone di economia speciale), un bel regalo in forma di detassazione, che ovviamente pagherebbero i siciliani.
Se la guerra è sempre più centrale; è l’antimilitarismo ad essere centrale, e noi dobbiamo continuare ad impegnarci a mantenerlo vivo coinvolgendo sempre più i territori direttamente soggetti alle sue prepotenze, ma anche tutta la popolazione, che paga in termini di tagli ai servizi essenziali, condizionamenti all’istruzione, sottrazione di territori, o di condanna, nel caso siciliano, a fungere sempre più da avamposto aggressivo nel Mediterraneo.
E se ogni tanto nei movimenti spunta un po’ di tanfo di egemonismo (vecchio vizio di raggruppamenti politici che pretendono di avere la verità ed imporla), si deve avere la capacità politica di tamponarlo e spegnerlo, per evitare che diffonda la sua velenosa arte divisoria. 

La lotta per la libertà da ogni guerra è troppo importante per rinchiuderla in sterili lotte di cortile. Il Movimento NO MUOS, in questo, ha oggi una grandissima responsabilità.

Pippo Gurrieri

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Eppure il vento soffia ancora

Movimenti dal basso. Petra smossa nun pigghia lippu

Una vulgata molto amata dai media arruolati in pianta stabile al servizio del governo clerico-fascista afferma che “gli italiani hanno scelto la destra”. Il vento di destra, quindi, sarebbe un dato di fatto oggettivo, non solo in Italia.
Nel commentare i risultati elettorali che portarono la Meloni al governo, ci soffermammo su due aspetti: il primo era il forte astensionismo, che riduceva la portata della vittoria della destra a poca cosa, e non autorizzava a parlare di un’Italia spostata a destra; il secondo: la strada per politiche di destra in campo economico, politico, militare, sociale, era stata spianata da tempo dai governi precedenti, compresi quelli tecnici, e quindi i vincitori avevano goduto di una eccezionale spinta; adesso non avrebbero fatto altro che chiudere il cerchio, aggiungendo il loro tocco “personale” in termini di repressione, accanimenti razzistici, giustizialismo verso i poveri e gli oppositori e garantismo verso i potenti. Tutte cose che stiamo regolarmente registrando.
E’ l’astensionismo uno degli elementi che sta realmente incidendo sulla politica italiana, a maggior ragione se punisce i partiti di sinistra e quell’esperimento mezzo abortito del Movimento 5 Stelle. Un astensionismo sicuramente consapevole dell’omologazione delle forze politiche e motivato da constatazioni molto semplici: la svalutazione dei salari e delle pensioni, la precarizzazione del lavoro e della vita, la povertà crescente, la smaccata attitudine a favorire i ricchi, la spiccata tendenza al militarismo con l’aumento delle missioni, delle spese militari, dell’interventismo in Ucraina ed altrove, il razzismo imperante non solo verso i non bianchi, ma verso ogni tipo di minoranza sociale: disabili, anziani (sempre meno minoranza), coppie omo, mondo LGBTQIA+, eccetera.
La bugia sugli italiani che hanno votato a destra fa comodo un po’ a tutti i politicanti. Se dunque un vento di destra spira dalle istituzioni (e quando mai è stato diversamente?), esiste, di certo, anche un controvento, ma sarebbe errato definirlo di sinistra, vista quanto velleitaria sia divenuta la differenza fra i due termini legati alla mistificazione parlamentare. Un controvento che parte dal basso, fatto da migliaia di persone impegnate in attività sociali senza un doppio fine o un progetto di potere; persone che danno vita, in maniera volontaria e disinteressata, a iniziative di sostegno, mutuo-aiuto, accoglienza, resistenza, sopportando le vittime del tritacarne capitalista.
Qualche settimana fa gli amici di Salvini, Meloni e del fu Berlusconi appollaiati sulla sponda messinese dello Stretto, definivano cavernicoli i 5000 manifestanti contro il Ponte tentando di discriminare fra modernità (il Ponte simbolo di progresso e i suoi famelici sostenitori) e arretratezza (gli oppositori). Contestando l’ideologia dello sviluppo, i cavernicoli, in cui ci riconosciamo, stanno invece tirando una linea di demarcazione insuperabile fra il capitale distruttore e le popolazioni prescelte come vittime sacrificali delle sue folli imprese per garantirsi sempre più profitti.
Per restare in Sicilia, il movimento NO MUOS, sorto in sordina nel 2008 e consolidatosi a partire dal 2012, rappresenta per longevità e capacità di tenuta, il più importante pungolo alle politiche militariste non solo italiane, ma internazionali e imperialiste che hanno base sull’isola. Esso pone da anni la centralità della guerra come l’asse strategico su cui si dipanano le politiche del capitale; per lungo tempo tale posizione è stata snobbata, sottovalutata, fuorviata; oggi pochi oserebbero negare la centralità della guerra e del militarismo, persino quanti si occupano di questioni apparentemente slegate, come il sindacalismo, il femminismo, l’istruzione, la salute. L’approccio del movimento anche rispetto al conflitto in Ucraina è stato quello di denunciare il ruolo di combelligerante dell’Italia ed il coinvolgimento della Sicilia, e di individuare nella lotta contro la presenza delle basi NATO-americane il nostro modo di lottare contro la guerra (non di schierarci con Putin). Il contributo del movimento NO MUOS è stato sempre caratterizzato da una volontà non egemonica e dalla necessità di costruire un fronte ampio contro la guerra, senza far da sponda a progetti politici di alcun tipo.
Le recenti mobilitazioni nelle aree interne della Sicilia contro il poligono per esercitazioni militari della Brigata Meccanizzata Aosta, che ha portato ad un primo importante risultato con il rifiuto dei comuni di Sperlinga, Nicosia e Gangi di cedere i loro territori all’esercito (risultato parziale, perché l’esercito può imporre la propria decisione se non trova l’adesione “volontaria” dei comuni), ci dimostrano come sotto la calma apparente, al riparo del presunto vento di destra, covi sempre la fiamma della rivolta e della dignità. Fiamma che, per altri versi, brucia in parecchi territori, dai Nebrodi ai luoghi contaminati e disastrati dei poli industriali, e che anima mobilitazioni solo apparentemente locali, per l’acqua pubblica, per una sanità più efficiente e diffusa sul territorio, contro l’autonomia differenziata, ennesima mazzata colonialista contro la Sicilia e il Mezzogiorno. Lotte che, per altro, hanno luogo in molte località italiane, sia pure a riflettori spenti da parte dei media di regime.
E se guardiamo alla Sardegna, e alle sue lotte contro le sterminate servitù militari, contro le basi NATO, i radar impattanti, le fabbriche di armamenti; o volgiamo lo sguardo alla Toscana, con il movimento No Base, i suoi campeggi, le sue assemblee e le mobilitazioni, o al Friuli, con il ritorno delle manifestazioni ad Aviano e le denunce delle servitù militari al confine, ci accorgiamo del grande potenziale che si agita nella società reale. E che continua ad agitarsi da decenni, come in Val Susa, dove, al di là delle parole del governo, il TAV è impantanato. La recente manifestazione in Maurienne, con le cariche della polizia francese e il divieto ai pullman italiani di attraversare il confine, ci sembra il più chiaro indice di quanto la resistenza al capitale e ai suoi folli progetti possa essere più forte della repressione (decine i compagni NO TAV in carcere o sottoposti a provvedimenti restrittivi della loro libertà) e della mistificazione giornalistica a pagamento.
Nelle vene delle comunità, dalla Val Susa alla Sicilia, scorre un anelito di ribellione, a volte istintivo, altre ragionato e cosciente, altre ancora latente, in grado di inceppare i progetti dei potenti.
Le azioni del mondo ambientalista più radicale sbattono in faccia ai governi e ad una opinione pubblica drogata l’irreparabile deriva della terra e di tutti in suoi esseri viventi cui ci trascina la voracità del capitale. Additati come delinquenti, gli attivisti vengono isolati e denunciati per ridurre al silenzio una pratica che tende a generalizzarsi.
Anche in Romagna hanno cercato di cancellare le migliaia di ragazze e ragazzi (e non solo) accorsi a prestare aiuto dopo l’alluvione, prima ancora che gli apparati dello Stato si muovessero; la solidarietà che un sistema che parla di merito e inculca l’individualismo consumista vorrebbe cancellare o delegare alla Chiesa, emerge come forma di riappropriazione dal basso delle relazioni e di autodeterminazione delle vite. Il transfemminismo, i pride, specie quelli stanchi di essere inquadrati dalle istituzioni, i settori del mondo del lavoro che non si arrendono alla sconfitta, sono quanto di più vivo possa esprimere oggi la società, il controvento che finirà per allontanare la puzza di morte del potere. A condizione di sapersi unire, contaminare, abbracciare, rispettare, dotare di obiettivi comuni perché comuni sono i nemici. Da sempre.

Pippo Gurrieri

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Sotto democratura

L’ascesa politica ed elettorale della destra diretta erede del fascismo storico, cosa questa più taciuta che negata dai diretti interessati, ha riacceso il dibattito su fascismo-antifascismo e sulla deriva autoritaria che il governo Meloni ha impresso alla politica istituzionale. Sulla stampa è un fiorire di interventi di illustri personalità che denunciano il rischio dell’autoritarismo di un governo che tende a occupare tutti gli spazi politici. Non c’è dubbio sul fatto che i provvedimenti varati dal governo da quando è in carica contengono un’impronta fortemente autoritaria. Ha cominciato col cosiddetto decreto anti-rave, proseguito con la stretta sull’immigrazione, sempre e comodamente clandestina, per finire, ultimo in ordine di tempo, con il nuovo Codice della strada, approvato in Consiglio dei ministri il 27 giugno scorso, il cui impianto rispecchia fedelmente l’idea di società che questo governo vuole far passare: una società in preda alla confusione, in cui prevale una libertà senza freni, priva di morale e di valori, che necessita di un intervento forte e determinato per riacquisire un suo ordinato vivere civile. Tutto questo non può che essere ottenuto attraverso la repressione e la punizione di tutti i comportamenti anomali e devianti. Non è necessario comprendere i fenomeni, inquadrarli in un contesto, individuarne le cause, basta semplicemente controllare e condannare. Esempio eclatante è la linea adottata nei confronti dei giovani militanti di Ultima Generazione, il movimento non violento protagonista di azioni simboliche per attirare l’attenzione sulla grave crisi climatica e ambientale. Una accondiscendente campagna mediatica li presenta come vandali irresponsabili, il governo interviene presentando un disegno di legge che inasprisce pene e introduce nuove fattispecie di reati, la magistratura li persegue come criminali. Il cerchio così si chiude, si dà in pasto all’opinione pubblica un colpevole responsabile di turbare il corretto confronto civile e si obliterano completamente le ragioni della protesta: l’inattività o meglio la volontà dei governi a non affrontare la catastrofe climatica. Che è una vecchia strategia del potere, di qualsiasi potere.
Come faceva notare Andrea Turco nell’editoriale di maggio di questo giornale, questa destra al governo è ossessionata dall’idea di voler conquistarsi uno spazio culturale e ideologico che la legittimi nel consesso liberaldemocratico, ne faccia accettare i valori che ridiventano pronunciabili e auspicabili: identità, nazione, sovranità. Detto anche in altro modo tale egemonia culturale è necessaria dal momento che la globalizzazione, l’instabilità economica e politica, le minacce provenienti da guerre, migrazioni e cambiamenti climatici richiedono governi forti e determinati  e la destra ritiene di essere più adatta della sinistra a gestire questa fase.
Tuttavia, al di là di ciò, ci sono quantomeno due aspetti su cui bisognerebbe riflettere. Primo, l’autoritarismo di questa destra in fondo si innesta nella tendenza, già in atto da qualche decennio, di accentramento delle decisioni nelle mani dei governi che rende sempre più esornativo il ruolo dei parlamenti. I governi, non solo quelli italiani, operano essenzialmente con decreti-legge, provvedimenti resi inattaccabili dalla “questione di fiducia” e sui quali non vi può essere alcun confronto o discussione, neppure di galateo istituzionale. Il fatto che ogni tanto questa prassi venga censurata, anche da chi la pratica, non è certo sintomo di democrazia, se poi gli stessi continuamente enfatizzano il decisionismo del governo e la cosiddetta “stabilità dei governi” è oramai diventata un valore in sé. Quindi si può dire che la destra post o neo fascista al governo ha trovato un campo ben arato in cui piantare il suo credo di sempre: determinazione, forza, ordine.
Un secondo aspetto attiene al campo che più si pensa “democratico”, quella sinistra istituzionale che denunciando l’autoritarismo della destra crede di potere salvare le virtù di una democrazia rappresentativa già da tempo in crisi e svuotata di senso. Che democrazia è quella che ignora totalmente le istanze che provengono dal basso, che è sorda a qualsiasi forma di protesta, quando non la reprime, che è asservita agli interessi di lobby e potentati? Quale governo, di destra o di sinistra, nel recente passato ha fatto marcare una qualche differenza? Persino sulle questioni in cui le distanze appaiono più nette, dai migranti ai cosiddetti diritti civili, le contiguità sono parecchie e le istanze di una vera liberazione raccolgono ugualmente diffidenza.
Qualche anno fa lo storico Emilio Gentile coniò l’espressione “democrazia recitativa” che così definì in un’intervista: “È quella democrazia che ha per palcoscenico lo Stato, come attori protagonisti i governanti e come comparsa occasionale il popolo sovrano, che entra sul palco solo per la scena delle elezioni. Peraltro ora comincia a disertare il proscenio. E tra una recita e l’altra, continuano a prevalere le oligarchie di governo e di partito, la corruzione nella classe politica, la demagogia dei capi, la degradazione della cultura politica ad annunci pubblicitari. Non mi riferisco solo all’Italia”. E aggiungeva anche che il popolo non è mai stato sovrano.
Questo non vuol dire, come precisa Gentile, che non ci sia alcuna differenza tra l’autoritarismo esplicito e rivendicato della destra e quello implicito e sempre incombente della sinistra [anche se nelle condizioni attuali in cui tutti si proclamano democratici tutto è più sfumato], tuttavia dovremmo domandarci se non ci sia un’alternativa alla faccia feroce, all’arroganza, all’idea di una società gerarchica e sottomessa della destra e alla apparente ragionevolezza, al mimetismo, alla democrazia di facciata della sinistra istituzionale.
Il nostro compianto David Graeber nel suo fondamentale Critica della democrazia occidentale scriveva: “Nel corso del saggio ho sostenuto che le pratiche democratiche – definite come procedure decisionali egualitarie oppure modalità di governo basate sulla discussione pubblica – tendono a emergere da situazioni in cui comunità di vario genere gestiscono i propri affari al di fuori dell’ambito dello Stato”. 

Pertanto tra destra e sinistra c’è sempre di mezzo un potere coercitivo intrinsecamente autoritario. Che si percepisca o non si percepisca l’autoritarismo è il tratto distintivo delle nostre false democrazie.           

Angelo Barberi

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Stop Poligoni

Sicilia. Sempre più spopolata ma militarizzata!
Un hub logistico per le esercitazioni a fuoco e a lunga gittata di cannoni, obici, blindati e carri armati con tanto di depositi munizioni e mezzi da guerra, caserme e alloggi per i militari dell’Esercito italiano e – prevedibilmente – dei paesi partner della NATO. Per il ministero della Difesa esso dovrà sorgere nel cuore della Sicilia, in un’area agricola e boschiva di oltre 3.350 ettari nei comuni di Gangi (Palermo), Sperlinga e Nicosia (Enna). 

L’8 maggio 2023 a Sperlinga è stato sottoscritto un Accordo di collaborazione per realizzare il megapoligono dal generale Maurizio Angelo Scardino (comandante dell’Esercito in Sicilia) e dai sindaci delle tre cittadine, Giuseppe Ferrarello (Gangi), Luigi Bonelli (Nicosia) e Giuseppe Cuccì (Sperlinga). “Lo Stato Maggiore dell’Esercito ha manifestato l’esigenza di costituire un hub nei territori evidenziati per lo svolgimento di attività logistiche ed esercitazioni tattiche militari”, si legge nella premessa all’Accordo. “L’Esercito ha l’esigenza di individuare nuove aree addestrative, rispetto a quelle già esistenti ed operative, per lo stoccaggio dei propri automezzi (veicoli tattici leggeri, medi e pesanti) e lo svolgimento di esercitazioni in bianco ed a fuoco, che consentano un opportuno ed efficace sviluppo delle attività relative all’approntamento ed al mantenimento dell’efficienza operativa delle unità”.

“La presenza di militari nell’area, oltre a garantire un miglioramento delle condizioni economiche, a favore dei Comuni interessati, assicurerà un maggior controllo del territorio, incrementando la sicurezza e la salvaguardia sia degli utenti che lo popolano sia dell’ambiente e della fauna esistente, per la prevenzione di incendi, abbandono di rifiuti tossici e qualsiasi altra attività che ponga in pericolo l’ambiente e la popolazione”, riporta ancora l’incredibile patto Comuni-Difesa. “I sindaci hanno manifestato l’impellente esigenza di contare sulla costante presenza di truppe in addestramento, al fine di migliorare le condizioni economico-finanziarie dei territori amministrati e garantire una maggiore presenza dello Stato nei suddetti territori; per questo si impegnano a rendere disponibili, con la formula più vantaggiosa ad entrambi le parti, gli immobili e le porzioni di territorio individuate, offrendo massima collaborazione alla Forza Armata ed intercedendo, laddove necessario, con la popolazione residente, le aziende e i privati proprietari per agevolare e rendere possibili le attività logistiche e addestrative”. I sindaci si dichiarano inoltre pronti ad “intercedere con le aziende gestrici delle linee elettriche, per chiederne l’eventuale spostamento, nel caso queste rappresentassero un ostacolo alla realizzazione del poligono di tiro e a richiedere ed ottenere, laddove necessario, i previsti nulla osta della Regione Siciliana e di ogni altro Ente avente giurisdizione sull’area individuata, per accelerare ed agevolare la costituzione dell’hub logistico-addestrativo”.

Molto più sfumati gli impegni assunti dalla Difesa. “Tutte le attività nelle aree  individuate e rese disponibili dai Comuni saranno effettuate nel pieno rispetto della normativa ambientale e di sicurezza vigente”, promettono i generali che ignorano i crimini socio-ambientali generati dalle esercitazioni in Sardegna, Friuli Venezia Giulia, Lazio e Puglia e le bonifiche negate. “I mezzi commerciali e tattici utilizzati si muoveranno lungo gli itinerari di accesso all’area addestrativa avendo cura di non produrre danni alle infrastrutture ed al territorio; le eventuali alterazioni della viabilità dovute al transito saranno ripristinate”. L’articolo 6 del Patto di Sperlinga prefigura poi l’imposizione di soffocanti servitù e gli espropri di estese proprietà immobiliari. “Allo stato attuale, il presente Accordo non comporta assunzione di impegni finanziari per le Parti”, esordiscono i firmatari, aggiungendo però che “saranno stipulati specifici contratti, nelle opportune sedi, in caso di cessione permanente dei beni immobili”.

Intanto è possibile evincere dalle mappe allegate al memorandum che l’istituendo poligono avrà la forma di un trapezio scaleno di circa 33,5 Km2, con il perimetro distante un solo chilometro dalla cittadina di Sperlinga e di 4 km circa 4 Km da Gangi e Nicosia. L’Area 2, la più estesa, sarà adibita alle esercitazioni a fuoco (sono esistenti al suo interno numerosi casolari e masserie), mentre i colpi di obici e cannoni si concentreranno in un maxi-rettangolo la cui base è stata tracciata a fianco del parco eolico ivi presente. L’Area 1 ospiterà gli alloggi dei militari (presumibilmente un centinaio quelli stanziali e fino a 800 quelli che si alterneranno per i war games), i depositi di armi e munizioni e i ricoveri di carri armati, blindati e mezzi di trasporto bellico. Le infrastrutture sorgeranno tutte all’interno di un’area di 112.000 mq in contrada Calamaio, oggi destinata a “centro artigianale” e di proprietà in parte del Comune di Sperlinga e per il resto di privati. L’amministrazione dell’ennese cederà ai militari pure l’ex Palazzo comunale e l’ex Centro diurno che attualmente ospita alcune classi del secondo circolo didattico di Nicosia (complessivamente gli immobili ricoprono una superficie di 6.500 mq). La realizzazione dell’area artigianale a Sperlinga (mai entrata in funzione), con relativi parcheggi, strade, linee elettriche e reti idriche e fognarie, è stata finanziata dalla Regione Siciliana con 3 milioni e 800 mila euro, mentre il Comune le ha destinato 200.000 euro, cioè quasi 300 euro per ogni suo abitante. A ciò si aggiunge la spesa di 280.000 euro – ancora con fondi della Regione – per l’impianto fotovoltaico da 70 Kw completato nel settembre 2018 per alimentare il complesso artigianale.

L’altra amara scoperta tra i documenti allegati al Patto di Sperlinga è che una buona porzione dell’Area 1 inciderà all’interno della Zona Speciale di Conservazione (ZSC) del Bosco di Sperlinga, Alto Salso, sito protetto per la sua rilevanza ambientale e paesaggistica con delibera del 21 dicembre 2015 del ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare. Classificato con il codice ITA060009, il Bosco di Sperlinga (principalmente quercete) ha un’estensione di 1.781 ettari su una dorsale incastonata tra i monti Erei a sud, le Madonie ad ovest e i Nebrodi a nord-est.

La popolazione non ha comunque creduto per nulla alle miracolanti promesse di sviluppo socio-economico e protezione ambientale sbandierate dagli amministratori locali e dai vertici dell’esercito e ha respinto al mittente l’ignobile progetto militare. Immediata la mobilitazione No poligono: sono state avviate petizioni on line e porta a porta con migliaia di sottoscrittori in poche ore, pubblicati appelli e pesanti censure anti-sindaci sui social, convocati incontri pubblici e consigli comunali aperti agli interventi dei cittadini e delle associazioni, organizzate trasmissioni informative da radio, emittenti tv locali e dalla testata Germinal Controvoce. Documenti e diffide sono stati diffusi da consiglieri comunali di maggioranza e opposizione, forze politiche e sociali, i NoMUOS, Legambiente, Arci Sicilia, Antudo e finanche dal Consiglio Pastorale della diocesi di Nicosia. Così, probabilmente su suggerimento delle forze armate e della prefettura, poche ore dopo un blitz dei sindaci a Palermo per incontrare i vertici dell’esercito e qualche ora prima di un consiglio comunale a Nicosia in cui si erano iscritti a intervenire decine di cittadini e associazioni, il 25 maggio le amministrazioni di Gangi e Nicosia hanno espresso l’intenzione di revocare l’accordo. Di contro, il sindaco di Sperlinga ha deciso di proseguire, da solo, nel processo di conversione del territorio in centro bellico-strategico per la Brigata meccanizzata “Aosta”, reparto d’élite delle forze di pronto intervento NATO, e i suoi partner internazionali, salvo poi revocare il patto il 30 maggio.

Intanto ci si interroga sulla legittimità di un accordo che appare non rispettare le normative in vigore per l’individuazione delle aree da sottoporre a esercitazioni militari. Dal 24 dicembre 1976 è in vigore la legge n. 898 che regolamenta le servitù militari e le norme sono state integrate all’interno del decreto legislativo n. 66 del 15 marzo 2010 relativo al nuovo Codice dell’ordinamento militare. Nello specifico, all’art. 322 del decreto si legge che “in ciascuna regione è costituito un Comitato misto paritetico di reciproca consultazione per l’esame, anche con proposte alternative della regione e dell’autorità militare, dei problemi connessi all’armonizzazione tra i piani di assetto territoriale e di sviluppo economico e sociale della regione e delle aree sub regionali e i programmi delle installazioni militari e delle conseguenti limitazioni”.

Sono membri del Comitato misto paritetico 5 rappresentanti del ministero della Difesa, 2 rappresentanti del ministero dell’Economia e 7 della regione. “Il Comitato è consultato semestralmente su tutti i programmi delle esercitazioni a fuoco di reparto o di unità, per la definizione delle località, degli spazi aerei e marittimi regionali, del tempo e delle modalità di svolgimento, nonché sull’impiego dei poligoni della regione”, riporta il decreto legislativo. “Ciascun Comitato, sentiti gli enti locali e gli altri organismi interessati, definisce le zone idonee alla concentrazione delle esercitazioni di tiro a fuoco nella regione per la costituzione di poligoni, utilizzando prioritariamente, ove possibile, aree demaniali. Una volta costituite tali aree militari, le esercitazioni di tiro a fuoco devono di massima svolgersi entro le aree stesse. Per le aree addestrative, terrestri, marittime e aeree, sia provvisorie sia permanenti, si stipulano disciplinari d’uso fra l’autorità militare e la regione interessata”. Nessun potere decisionale dunque di Comuni ed Esercito e obbligo di seguire iter procedurali del tutto diversi da quanto si è convenuto invece a Sperlinga.

“L’entusiasmo manifestato inizialmente dagli amministratori è stato particolarmente apprezzato dal generale Scardino, delegato del ministero della Difesa, nell’intervista rilasciata dopo la firma dell’accordo”, spiega Stefano Vespo, insegnante e copromotore del Comitato Identità e Sviluppo che si batte contro il nuovo poligono militare. “Egli ha invertito il motto che ha reso famosa Sperlinga, Quod Siculis placuit, sola Sperlinga negavit, in ciò che i Siciliani hanno rifiutato, a Sperlinga è piaciuto. Probabilmente incoraggiato e rassicurato da tanto consenso, il generale si è lasciato andare alla promessa che questa base sarà soltanto il primo passo verso l’allargamento dell’area addestrativa, in cui verranno accolti altri reparti italiani. Insomma, a suo dire sarà il primo passo verso qualcosa di più grande. Il vuoto demografico dell’interno della Sicilia verrà colmato da attività di addestramento militare? Prevedono una militarizzazione più ampia della nostra isola?”

L’hub logistico-addestrativo assume sempre più le sembianze del progetto che più di quarant’anni fa il ministero della Difesa aveva previsto in un’immensa aerea a cavallo di tre province (Messina, Palermo ed Enna), ma fermamente respinto da una straordinaria mobilitazione di cittadini, allevatori, coltivatori e amministratori locali e regionali. Nel novembre del 1979 il Comitato misto paritetico per le servitù militari espresse parere favorevole alla realizzazione sui Nebrodi di un poligono di tiro di oltre 23.000 ettari. Il consenso unanime dei membri civili del Comitato fu strappato su una relazione del Comando dell’Esercito secondo cui “l’area era preferibile per la mancanza di abitazioni stabili, per la scarsissima presenza di edifici rurali abitati stagionalmente, per le condizioni di arretratezza economica (circa 1.000 capi di bestiame e solo piccoli appezzamenti di terreno coltivati)”. Nel verbale della seduta del Comitato paritetico fu pure enfatizzata “la facilità con cui si può arrivare agli espropri per il numero limitato dei proprietari e per il consenso delle popolazioni che non hanno dato luogo a manifestazioni di protesta”.

Nel settembre del 1982 iniziarono le operazioni planimetriche conoscitive da parte del Genio militare su alcuni immobili ricadenti nei comuni di Mistretta, Gangi, Geraci Siculo e Nicosia; subito dopo si passò alla “consistenza” dei territori a Castel di Lucio, Capizzi e Caronia. L’opposizione popolare costrinse le forze armate a fare un primo passo indietro: il 4 gennaio 1983 l’allora responsabile dell’Esercito in Sicilia, il generale Gualtiero Stefanoni, annunciò il “ridimensionamento del poligono di addestramento per reparti di artiglieria” a circa 17.000 ettari. “Di questi, 10.000 costituiranno la zona di sicurezza e 7.000 derivano dalla somma di quattro aree minori che serviranno per schierarvi le bocche da fuoco, cannoni ed obici”, spiegò Stefanoni. “In una di queste aree verranno costruite alcune infrastrutture dove ospitare magazzini per i materiali, camerate per alloggiare i reparti in addestramento ed infrastrutture di servizio, quali spaccio, mense, docce, officine…”. Quasi una fotocopia dell’odierno hub di Sperlinga-Gangi-Nicosia.

Nel novembre del 1984, l’on. Vittorio Olcese, al tempo sottosegretario alla Difesa, rispondendo a un’interrogazione parlamentare dichiarò che “l’estensione del poligono sarà di 13.717 ettari di cui solo 525 verranno utilizzati per la zona di arrivo dei colpi”. Un anno più tardi il Comandante della Regione Militare, generale Biagio Cacciola, presentò alla Regione Siciliana un nuovo progetto che prevedeva l’esproprio di 450 ettari di territorio in gran parte ricadente nel comune di Mistretta, per installarvi le infrastrutture fisse del poligono e una caserma capace di “ospitare stabilmente 100 militari a cui si aggiungerebbero periodicamente 250-300 uomini per le esercitazioni”, e di “altri 12.000 ettari da utilizzare in maniera saltuaria per il periodo di esercitazione, dai 120 ai 200 giorni l’anno per non più di 5 ore al giorno”. Sulla stampa siciliana comparve l’elenco dei sistemi d’arma da impiegare tra i boschi dei Nebrodi: i carri armati “Leopard” M60 ed M47, gli obici semoventi da 155 mm “M109”, i lanciamissili controcarro “Tow”, gli obici da campagna a traino meccanico FH-70 con una gittata massima fino a 30 km, ecc..

Il congelamento del dissennato progetto di militarizzazione dei Nebrodi fu sancito nel febbraio del 1987 dall’ordine del giorno votato all’unanimità dalla Commissione Difesa del Senato, che asseriva “l’assoluta incompatibilità del poligono con i programmi di sviluppo socio-economico della zona, previsti dagli Enti locali, nonché dalla CEE”. Ciononostante nel febbraio 1989 il subentrato comandante della Regione Militare Sicilia, generale Natale Dodoli, ebbe la sfacciataggine di riproporre il poligono quale “valida alternativa” al Parco naturale in via di istituzione nei Nebrodi. “Le aree addestrative che l’Esercito utilizza in diverse regioni sono rimaste immuni dall’inquinamento e dalla speculazione edilizia”, fu il leitmotiv narrativo del generale.

Ancora nel 1992 gli attivisti No War siciliani esprimevano i timori che il megaprogetto potesse essere riproposto. “E’ forte l’impressione che le autorità militari abbiano solo rinviato di qualche anno le procedure di avvio degli espropri, sperando che intanto si smorzino le opposizioni espresse dalla popolazione locale”, scrissero i rappresentanti del Comitato per la pace e il disarmo unilaterale di Messina. “Le nuove esigenze strategiche delle forze armate italiane e il potenziamento tecnologico e numerico della Regione Militare della Sicilia, spingono a medio termine per la realizzazione del progetto. Non può neanche essere scartata la possibilità di uno spostamento del poligono su altre aree dell’Isola, come ad esempio la piana di Lentini sino alla provincia di Enna, o alcune zone meno densamente abitate ed economicamente più marginali delle Madonie e degli stessi Nebrodi”.

Amara profezia alla luce di quanto accade in questi giorni. Le forze armate non ha mai smesso del resto di perseguire il sogno di dotarsi di sterminati territori dove simulare attacchi di guerra planetari. “Un’altra aerea dove potrebbe essere ottenuto un grande spazio addestrativo, una specie di National Training Center (NTC) di Fort Irwin, è quella siciliana del bacino minerario, sito nella parte occidentale della provincia di Caltanissetta”, scriveva nel 1999 il capitano Alfonso de Salvo in un articolo su Le Servitù militari. Disinformazioni ed Equivoci pubblicato sul Rassegna dell’Esercito, bimestrale della forza terrestre. “Si tratta di un territorio esposto ad un’imminente emergenza ecologica, causata dall’insipienza dei curatori fallimentari della società che gestiva le miniere centrate su Bosco S. Cataldo e che potrebbe portare all’apparizione di campanari (o marmitte dei giganti), formazioni imbutiformi simili alle doline, causate in natura, dal dilavamento dei giacimenti salini da parte delle acque sotterranee. E’ un fenomeno già presente in natura e che rende salate le acque del fiume Salso, ma, per l’imprevidenza umana, potrebbe avere conseguenze difficilmente ipotizzabili. Creare in questo comprensorio un’area addestrativa, oltre a ribadire il controllo del territorio da parte dello Stato, potrebbe permettere il monitoraggio ed il controllo preventivo dell’imminente emergenza naturale. Dal punto di vista militare, ciò potrebbe compensare la distruzione del poligono sui Monti Nebrodi. Questo poligono, originariamente, avrebbe dovuto occupare un’area di 9 chilometri quadrati ma, grazie a una serie di disinteressati sit-in di contadini e campeggiatori si è ridotto a un francobollo. Per fortuna l’area intorno a S. Cataldo-Bosco (che peraltro è già sotto il controllo della Regione Sicilia, e quindi dello Stato) è, sì amplia, ma brulla e potenzialmente pericolosa”.

Sicurezza, sviluppo e difesa dell’ambiente, le stesse parole d’ordine per rendere meno indigesto, ventiquattro anni dopo, il Patto di Sperlinga. E nello sfondo pure lo spettro di un National Training Center modello “Fort Irwin”, l’immensa aerea per i giochi di guerra di US Army nel deserto del Mojave, California. 

Antonio Mazzeo

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L’eco-ansia si combatte con la lotta

Quindici morti, migliaia di sfollati, decine di migliaia di animali morti, danni al territorio stimabili in circa cinque miliardi di euro: ci ricorderemo a lungo dell’alluvione di maggio in Emilia Romagna. Specie se collegata alla crisi climatica in corso, che estremizza  i fenomeni naturali come le piogge facendoli diventare fonte crescente di eco-ansie e devastazioni ambientali. Qui il problema non è (soltanto) capire di chi sono le responsabilità se a ogni tempesta viene giù tutto o se si possono fare comparazioni col passato, né tantomeno provare ad attrezzarsi ora che il maltempo è diventato sistemico. Perché qui di “naturale” c’è rimasto ben poco.
Date per assodate le responsabilità del capitalismo nella creazione della crisi climatica, tanto che sempre più la comunità scientifica e quella accademica parlano di questa come l’era del Capitalocene, deve diventare chiaro che la lotta al riscaldamento globale è letteralmente vitale. Due sono le parole chiave da tenere a mente: mitigazione e adattamento. Nel primo caso si tratta di rendere rendere meno gravi gli impatti dei cambiamenti climatici prevenendo o diminuendo l’emissione di gas a effetto serra nell’atmosfera: ciò si può fare riducendo le fonti di questi gas (ad esempio mediante l’incremento della quota di energie rinnovabili o la diminuzione dell’uso delle fonti fossili) oppure potenziandone lo stoccaggio (ad esempio attraverso l’aumento delle dimensioni delle foreste o la cattura dell’anidride carbonica). Per quel che riguarda l’adattamento, invece, si tratta di anticipare gli effetti avversi dei cambiamenti climatici mettendo in campo misure adeguate che possano prevenire o ridurre al minimo i danni (ad esempio spostando le persone che vivono sulle zone costiere per difendersi dall’innalzamento del livello del mare). L’una non esclude l’altra, anzi entrambe le soluzioni devono andare di pari passo.
Fin qui i concetti sono condivisi dalle ong ambientaliste, dalla comunità scientifica e dai vari organismi delle Nazioni Unite. La differenza sta nel modo in cui si vogliono raggiungere tali obiettivi. Ed è qui che si instaura la prima faglia. Perché anche nel campo climatico il riformismo, seppure radicale, è la strada scelta da chi è consapevole della crisi in corso. Ma quale riformismo è praticabile di fronte a un territorio come quello italiano in cui, secondo i dati Ispra, quasi il 94% dei Comuni italiani è a rischio di dissesto idrogeologico e soggetto ad erosione costiera, e oltre 8 milioni di persone abitano nelle aree ad alta pericolosità? Quale riformismo è praticabile di fronte a un consumo di suolo, ancora dati Ispra, che cresce a una media di 19 ettari al giorno e una velocità che supera i due metri quadrati al secondo?
Una situazione che diventa ancora più sconcertante in Sicilia. Perché l’isola si trova al centro del Mar Mediterraneo, definito dai maggiori climatologi al mondo un “hotspot climatico”, vale a dire un luogo dove l’aumento delle temperature e gli effetti di tale aumento sono più intensi rispetto alle medie globali. Secondo uno studio dell’Organizzazione Mondiale Meteorologica, nei prossimi cinque anni il mondo sperimenterà nuovi record di temperatura e probabilmente il riscaldamento globale supererà gli 1,5 gradi  rispetto ai livelli preindustriali, una soglia oltre la quale potrebbero esserci conseguenze disastrose a catena per il pianeta potenzialmente irreversibili.
Se è vero che tendiamo a dimenticare tutto in maniera estremamente rapida, vale la pena ricordare ciò che è avvenuto a Floridia, nella provincia di Siracusa, tra l’11 agosto 2021 e il 26 gennaio 2022: nel paese si è avuto uno sbalzo termico da record, passando dai 48,8 gradi dell’estate 2021 (la più alta temperatura mai registrata in Europa da quando esistono i rilevamenti strumentali) al crollo delle temperature fino al -4,3 gradi sotto lo zero. Tutto è avvenuto in poco più di cinque mesi. Con l’arrivo di El Nino, il fenomeno climatico di riscaldamento delle acque marine, Floridia non sarà più l’eccezione ma lo standard, e la Sicilia più di tutte dovrà fronteggiare nei prossimi anni ondate di calore, siccità e alluvioni. Ecco perché va ripreso ed esteso il concetto di cura, nato a sinistra durante la pandemia e poi quasi subito accantonato. Di cure avranno bisogno le persone, soprattutto gli anziani e i contadini; di cure avranno bisogno città e paesi, sprovvisti come sono di alberi e reti idriche; di cure avranno bisogno gli animali, che ancor più degli esseri umani patiscono le alte temperature; di cure avranno bisogno gli ecosistemi, sempre più a repentaglio in nome del progresso. Come e ancor più del Covid, inoltre, la crisi climatica è un acceleratore di disuguaglianze. Chi ha soldi e potere potrà tranquillamente continuare a vivere nella propria opulenza, senza soffrire mai scocciature come la carenza d’acqua o la casa travolta da una piena. Mentre l’isola dovrà fronteggiare un inevitabile aumento delle migrazioni, che sempre più saranno migrazioni climatiche. E a nulla serviranno i soliti offensivi consigli dei tg a rimanere a casa nelle ore più calde, questa estate, se nel frattempo uffici e case resteranno i soliti forni di cemento. Di fronte all’ineluttabilità dei cambiamenti climatici, sempre più spesso i giovani parlano di eco-ansia. È ora di trasformare questa ansia in lotta, a partire dai territori che più di tutti patiscono e dovranno patire gli effetti di una crisi che è stata generata altrove, dalle classi dominanti. Come sosteneva lo storico dell’ambiente Jason W. Woore già nel 2017, “il capitalismo non ha un regime ecologico, è un regime ecologico”. Nel senso che da tempo perfino la natura viene inglobata nei meccanismi organizzativi del profitto. A tutto ciò va opposta, dunque, una lotta climatica che non può che essere anticapitalista e solidale. 

Andrea Turco

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AUTONOMIA DIFFERENZIATA? NO GRAZIE

Nord/Sud. Il neocolonialismo che avanza

I due maggiori partiti di estrema destra al governo in Italia, Fratelli d’Italia e Lega, si sono accordati su come scardinare l’impianto della Costituzione repubblicana. La proposta presidenzialista o semi-presidenzialista di Fratelli d’Italia, che di fatto amplia i poteri dell’esecutivo e ridimensiona quelli del Parlamento, smaschera una volta di più la finzione dei meccanismi di democrazia liberale che, quando la crisi economica e sociale minaccia fortemente gli interessi delle élites al potere, non esita a consegnare lo Stato alle correnti più autoritarie, di marca fascista o proto-fascista. Nuovo è invece il tentativo della Lega, attraverso la cosiddetta “autonomia differenziata” (D.D.L. Calderoli approvato il 23 febbraio 2023 dal governo nazionale e un mese dopo dalla Conferenza delle Regioni, col voto favorevole anche del governatore siciliano Schifani), di spezzettare l’Italia in tante repubbliche indipendenti quante sono le attuali regioni, svuotando ulteriormente di competenze Parlamento e Ministeri. Un mix perfetto in cui
l’equilibrio istituzionale verrebbe garantito attraverso uno Stato di polizia, che mentre mantiene anche le leve finanziarie e di politica estera, demanda tutto il resto a tanti staterelli satelliti, intasati di funzioni amministrative in parte oggi assolte dalle autonomie comunali, e dipendenti, per le prestazioni di servizi al cittadino, dall’aumento esponenziale delle proprie entrate fiscali e dal contributo economico che il governo centrale vorrà benignamente o meno concedere.  Riguardo alla Sicilia, per trattare delle conseguenze che vi porterà l’introduzione dell’ “autonomia differenziata” si deve obbligatoriamente fare riferimento all’ “autonomia speciale” concessa il 15 maggio 1946, con la quale l’Isola assunse competenza esclusiva in materia di beni culturali, agricoltura e foreste, usi civici, industria e commercio, urbanistica, lavori pubblici di carattere locale, miniere e saline, acque pubbliche, pesca e caccia, enti locali, beneficenza e opere pie (art. 14 dello Statuto). L’autonomia differenziata ne aggiungerebbe molte altre, fra le quali di primaria importanza l’istruzione, il lavoro, la mobilità e la salute.
Per sostenere finanziariamente la spesa regionale nelle materie già assegnate, gli artt. 36-38 dello Statuto stabilivano che toccasse alla Sicilia la totalità delle imposte fiscali, comprese quelle relative ad aziende operanti ma non residenti nell’Isola, più una quota che lo Stato avrebbe dovuto versare a titolo di solidarietà nazionale (fondo perequativo). Le prime ammonterebbero a circa 10 miliardi annui, mai versati; la seconda, che non viene corrisposta da un sessantennio, ha creato a favore della Regione un credito incalcolabile (si tratta comunque di parecchi miliardi). Dal 2019 si sono aggiunte, non ancora versate, le accise sull’energia (circa 9 miliardi all’anno) e, dal 2022, una indennità annua per le difficoltà di mobilità causate dall’insularità, pari a circa 6 miliardi (modifica dell’art. 119 della Costituzione).
Uno Stato così inadempiente, che ha potuto contare per decenni sull’inettitudine e la complicità dei politici siciliani di tutti gli schieramenti, contribuendo pesantemente ad allargare il divario tra il Nord e l’estremo Sud del paese, che garanzia potrebbe fornire introducendo in Sicilia ulteriori comparti che finanzierebbero i siciliani presumibilmente in proprio, o attraverso un ulteriore fondo nazionale perequativo, da costituirsi per di più “in base alle risorse disponibili” (art. 9 del DDL Calderoli)?
Un’autonomia speciale ulteriormente allargata non costituirebbe un’ulteriore beffa per i siciliani? non comporterebbe un nuovo aggravio di imposte, ticket, tasse e povertà? e che autonomia politica garantisce se mantiene in capo al governo italiano la facoltà di invalidare gli atti scomodi dell’Assemblea regionale e richiama addirittura la possibilità (art. 10 del DDL Calderoli) che il governo attivi discrezionalmente, per inadempienze nei confronti della nuova legge, quel “potere sostitutivo” che l’art. 120, comma 2, della Costituzione prevede in caso di “
pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica” della nazione?
Piuttosto che parlare di rimpolpare quell’autonomia siciliana che, nata nel 1946 per rintuzzare l’allora minaccia indipendentista, ha portato l’Isola all’attuale fallimento politico-sociale, non sarebbe il caso di risuscitare una rivendicazione sicilianista dal basso, che imponga una diversa organizzazione sociale fondata sull’eguaglianza economica tra tutti i siciliani e sulla libera federazione tra i Comuni dell’Isola e col resto d’Italia? che annoveri tra i suoi obbiettivi di lotta il recupero dei miliardi sottratti alla Sicilia non solo dal secondo dopoguerra ma anche nei decenni precedenti, quando lo Stato unitario ha utilizzato le risorse allora disponibili per finanziare prioritariamente lo sviluppo delle regioni del Nord industrializzato? Non sarebbe il caso di dar vita a una vera autonomia, ai vari livelli locali, che consenta ai siciliani di riappropriarsi della loro terra e delle loro risorse umane e materiali, e di allontanare da sé le servitù militari, le burocrazie statali e regionali, i grandi impianti industriali dannosi alla salute umana e all’ambiente, frutto di una politica colonialista che lo Stato italiano, con la connivenza dei suoi tentacoli locali, non ha mai smesso di perseguire?
Altro che i LEP! cioè quei livelli essenziali (leggi “minimi”) di prestazione che il ministro forcaiolo della Lega vorrebbe mantenere nelle regioni autonome più povere consentendo a quelle allo stato attuale più ricche, e ai cittadini più ricchi di esse, di raggiungere livelli sempre più elevati, fomentando così nuove diseguaglianze, disparità di diritti e di trattamento, affossando nelle regioni meridionali – ma anche in quelle del Nord, dove sono privilegiate le strutture private e non se ne garantisce l’accesso e la gratuità ai più poveri – la scuola pubblica, la sanità pubblica, i trasporti e i servizi pubblici in genere. Quei LEP che, indice della grande confusione del ministro Calderoli o, peggio, delle sue attitudini provocatorie, intenderebbe finanziare con quella parte del fondo per lo sviluppo e la coesione sociale (FSC) e dei fondi strutturali europei (POR), già destinati in gran parte alle regioni meridionali e largamente insufficienti, che non è stata ancora spesa per incapacità e sciatteria dei funzionari incaricati ma anche per l’astrusità delle regole europee, l’ostruzionismo e il ritardo con cui quei soldi vengono erogati dai Ministeri competenti (lo dimostra la bocciatura dell’ultima finanziaria regionale dove essi erano stati nominalmente inclusi senza il preventivo permesso del governo).
È finito il tempo della pura indignazione, dei sorrisetti di scherno e delle menate intellettuali. Dobbiamo mobilitarci senza indugio, affinché gli oppressi di Sicilia e del continente riannodino il filo della tradizione rivoluzionaria e delle lotte di massa, e impediscano che la legge sull’ “autonomia differenziata”, che fa tanto gola ai nuovi padroni/predoni d’Italia, possa essere approvata e fungere da apripista per progetti ancor più reazionari e antipopolari.

Natale Musarra

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Il governo dei reati

Dalle leggi ad personam ai reati ad personam: è una delle tracce di continuità più evidenti tra i governi di centrodestra guidati da Silvio Berlusconi al governo di destra retto da Giorgia Meloni. Se però il Cavaliere, in fondo, inventava leggi per salvarsi il culo e perpetuare il sistema clientelare che gli ha consentito di stare al potere per più di 20 anni, la donna/madre/cristiana fa un passo in avanti in più, puntellando in senso ancora più securitario quello che ormai da tempo è il regime democratico.
Se n’è accorto persino il mondo liberale, oggi come ieri il vero reggente della destra al governo, che parla apertamente di rischio (oh, sono pur sempre liberali) di “autoritarismo democratico”. Che a loro pare un ossimoro e per chi scrive è una ridondanza. All’alba della nascita del governo Meloni, tra settembre e ottobre 2022, la galassia liberale – che pontifica sul giornale Il Foglio, gigioneggia sul canale tv La 7 e costruisce consenso sul sito Il Post – teorizzava che “ma quale ritorno del fascismo, questi avranno le mani legate in ambito economico dai vincoli dell’Unione europea e al massimo si rifaranno sui diritti civili, togliendo qualcosa lì giusto per fare la faccia feroce e dare un segnale ai propri che sono gli stessi di sempre”. Pur se in apparenza plausibile, la tesi non faceva i conti col desiderio di rivalsa di una destra enormemente rancorosa, ossessionata dall’egemonia gramsciana, vogliosa di ricostruirsi un posto al sole e pronta a imporre una visione che fa rima con nazione.
Nella definizione più comune, con il termine nazione si intende un insieme di persone che hanno in comune tradizioni storiche, lingua, cultura e origine. È un concetto che la destra italiana ripete in continuazione da quando è al governo – la sola Meloni lo ha espresso una quindicina di volte nel suo discorso di insediamento alle Camere – e che però poggia evidentemente su basi fragili. L’Italia vista da destra è un coacervo di etnie, identità plurime, conflitti di classe latenti ma pulsanti. Per questo serve compattare la nazione ed escludere tutto ciò che non è comune e conforme. A ciò serve la pioggia di reati che da quasi un anno ha inzuppato i codici penali e le vite di tante e tanti.
I primi a essere colpiti, per chi lo ricorda, sono stati i rave party: chi organizza e promuove un rave rischia ora da tre a sei anni a carcere e una multa da mille a diecimila euro, in base al nuovo articolo 633-bis del codice penale. A seguito della tragedia di Cutro, in cui sono morte 95 persone che tentavano di approdare nelle coste calabresi, il governo ha introdotto un nuovo reato, chiamato pomposamente “morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina”, con pene dai 10 ai 30 anni di carcere. Un reato inventato che, a detta di tutti gli esperti, non incide per nulla sui flussi migratori e che però serve, appunto, a perpetuare la logica del divide et impera: i cattivi sono gli scafisti, i buoni siamo noi che li individuiamo come tali con l’ausilio del codice penale. C’è poi la proposta della Lega, approvata dal consiglio dei ministri a metà aprile, che prevede “disposizioni sanzionatorie in materia di distruzione, dispersione, deterioramento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali o paesaggistici”: è il reato ad hoc cucito questa sulla pelle delle attiviste e degli attivisti di Ultima Generazione, il movimento ambientalista che più si è fatto notare nell’ultimo anno con le azioni di protesta rivolte, appunto, verso alcuni dei luoghi italiani più noti al mondo (il carbone vegetale disperso nell’acqua della Fontana della Barcaccia, a Roma, e la vernice colorata alla facciata di Palazzo Vecchio, a Firenze, le più clamorose). Definito dalla stessa maggioranza di governo come “il disegno di legge contro gli eco-vandali”, a poco serve far notare che il reato di imbrattamento esiste già e prevede pure l’aggravante: il testo, infatti, punta non solo a reprimere e frenare il dissenso ma, soprattutto, serve a creare una frattura, per alienare le possibili simpatie verso la causa portata avanti da Ultima Generazione. Senza considerare gli altri possibili reati che la maggioranza parlamentare intende introdurre: dal reato di “istigazione all’anoressia” al reato di “omicidio nautico”, dal reato di “occupazione abusiva di privato domicilio o dimora” fino al reato di “surrogazione di maternità”. Ipotesi di reato finora non contemplate nel codice penale: nei primi due casi servono evidentemente a trasmettere l’idea che si sta facendo qualcosa per combattere due fenomeni particolarmente odiosi, ma sempre con la mannaia della repressione e mai con lo strumento della prevenzione; gli altri due casi, invece, ancora una volta servono a imporre il cappio legalitario rispettivamente a un conflitto sociale (la questione abitativa) e all’assenza di un diritto (per chi non può avere figli). Poi, come fa notare Amnesty International, il governo si muove, con la scusa di presunti “ritocchi tecnici” invocati dal ministro Nordio, per depotenziare il reato di tortura. Un reato che fu introdotto in Italia tra mille difficoltà nel 2017 a 29 anni di distanza dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della Convenzione del 1984 contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani e degradanti. E che sia Salvini che Meloni avevano più volte promesso in passato di cancellare perché, parole loro, “impedisce agli agenti di fare il proprio lavoro”. I reati, come le leggi, per i nemici si applicano o, meglio ancora, si inventano di sana pianta; per gli amici, invece, si depotenziano o, meglio, ancora si cancellano. Un governo che brandisce lo strumento legale come un’arma è un pericolo non solo per la tanto decantata democrazia borghese ma è soprattutto un ostacolo per le lotte che devono attraversare l’Italia. È necessario dunque convergere e trasformare questo tentativo di divisione legislativa in un’unione di mobilitazioni e rivendicazioni. Uscendo fuori dagli angusti confini del perimetro legale.

Andrea Turco

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