Il fervore elettoralistico

Il fervore elettoralistico è una costante della politica italiana
(d’altronde ci sono elezioni con una successione impressionante), cosicché
sembra che i partiti facciano qualche movimento, siano attivi e impegnati
sui problemi che la *nazione *deve affrontare. Un po’ meno infervorati sono
gli elettori che non vanno più a votare, tanto che la platea dei votanti si
è ridotta in questi ultimi anni a meno del 50% degli aventi diritto:
convincere le persone a recarsi alle urne sta diventando un’impresa sempre
più ardua per i partiti. Che però non si scoraggiano e proseguono il loro
impegno con abnegazione. Sempre certo per il bene del *popolo *e della
*nazione.*
Ad essere particolarmente infiammati in questi mesi sono i partiti della
sinistra, già orfana di un Draghi, di un Monti o di un Prodi, pervasi da un
afflato che li fa apparire seriamente intenzionati a mettere mano alle
questioni urgenti che ci affliggono. Così li vediamo tessere reti,
inventare le più ardite alchimie pur di riconquistare il favore degli
elettori e poter ritornare a governare in nome del popolo sovrano per
garantirne benessere e prosperità. In questo non si risparmiano, percorrono
lo stivale in lungo e in largo, accorrono in ogni dove è in corso una sfida
elettorale, vagliano candidature, interpellano personalità di provata
dirittura morale, a volte litigano, si separano e poi si riaggregano, ma
tutto sempre per il bene supremo e nell’interesse dei cittadini e delle
cittadine. C’è poi un’aggravante che rende ancora più impellente la
necessità di un’affermazione elettorale della sinistra (o almeno del
centro-sinistra): il governo di destra-destra straordinariamente incarnato
dalla prima donna italiana presidente del consiglio. E se questo governo,
in cui risuonano echi di un fascismo che fu e che nuovamente si invera
sotto i nostri occhi, ci trascina sempre più nel baratro di un
autoritarismo senza freni, spetta alla sinistra salvarci. Ecco!
Bene, tuttavia a questa sinistra, che adesso ha anche imbarcato il
movimento 5 stelle non più autodichiarantesi né di destra né di sinistra,
si potrebbe chiedere qual è l’idea di società che vuole contrapporre alla
destra-destra. Quali sono le sue proposte rispetto alle questioni veramente
fondamentali che oggi dovrebbero essere affrontate: guerra, ambiente,
clima, migrazioni, cui sono legate, e non certo in posizione subalterna,
tutte le altre: lavoro, uguaglianza, diritti, e via discorrendo. Ora
sarebbe troppo facile dimostrare per il recente passato come le politiche
dei governi di centro-destra si siano poste in perfetta continuità con
quelle del centro-sinistra, e viceversa, in una sorta di rincorsa alla
sottrazione dei diritti, all’indebolimento della classi lavoratrici e al
controllo degli sfruttati. Anzi, anche sul piano linguistico tali
espressioni sono bandite dalla comunicazione ufficiale: non esistono più
classi o sfruttati, né tantomeno padroni o sfruttatori, solo imprenditori
di se stessi e start up.
In un’intervista di qualche settimana fa al quotidiano La Stampa il
senatore Pd Graziano Del Rio, persona rispettabile, interpellato sugli
accordi del governo italiano con l’Egitto per fermare i migranti, alla
domanda su quali sono le proposte del Pd ha risposto: “Presto presenteremo
una proposta di legge: bisogna favorire canali di ingresso regolari e
nominativi. Chi vuol venire in Italia dovrebbe iscriversi a una lista con
nome e cognome, in modo che sappiamo chi entra nel Paese. Solo così puoi
scoraggiare le partenze e avere ingressi legali. Intendiamoci, nessuno ha
la ricetta magica in tasca per governare un fenomeno come questo, né noi né
la destra, ma insieme si potrebbe ragionare come un grande Paese europeo”.
E’ questo solo un esempio di una visione che rappresenta il migrante come
un potenziale pericolo (in cosa quindi si differenzierebbe dalla destra?) e
offre soluzioni risibili.
Nelle recenti elezioni regionali della Sardegna la candidata della
“sinistra”, Alessandra Todde, si è presentata con un programma infarcito di
tutto il consueto frasario modernista che crede di poter conciliare
capitalismo e giustizia, un riformismo tecnocratico capace di garantire la
transizione verso il nuovo mondo sostenibile e integrato, ecologista e
industriale, locale e globale. Eccone un estratto:
“Il mercato sardo del lavoro mostra un alto livello di precarietà e una
massiccia emigrazione giovanile, aggravata dall’invecchiamento demografico.
La strategia proposta punta a invertire l’emigrazione e attrarre talenti,
valorizzando l’alta formazione e l’inserimento lavorativo con un focus su
innovazione e smart working. Vanno coordinati gli sforzi per integrare
politiche attive, formazione, e servizi per l’impiego. È cruciale adattare
il mercato del lavoro alle dinamiche globali, promuovendo l’occupabilità e
l’integrazione dei migranti, con un occhio attento alla qualità e alla
dignità del lavoro”.
“Fare della Sardegna una Regione competitiva e attrattiva”, è scritto nel
programma. Quale destra non sottoscriverebbe tale affermazione?

Non si vuole qui dire che destra e sinistra sono la stessa cosa (ma è certo
che questa sinistra non ha una reale visione alternativa alla destra), e
non si starà qui a sostenere che le elezioni sono una truffa e che se
veramente contassero qualcosa le avrebbero abolite, cosa peraltro
intuitiva, tuttavia dal momento in cui oramai da qualche decennio
assistiamo ad una crisi irreversibile della democrazia rappresentativa,
della sua deriva verso forme autoritarie, tanto che si parla da più parti
di democratura, perché non avviare una riflessione profonda sul ruolo delle
elezioni e su modalità alternative di mettere in atto processi decisionali,
che promanino veramente da quel popolo che la politica istituzionale
utilizza come paravento e feticcio? Se non la sinistra-destra -che
spadroneggia sui media, si propone come valida alternativa alla
destra-destra e certamente non ha alcun interesse a modificare lo statu
quo, almeno quella che qualche anno fa veniva definita come sinistra
radicale dovrebbe avere più di un motivo e più di una ragione per sottrarsi
alla pantomima elettoralistica. A meno che non voglia rimanere prigioniera
in un sistema dal quale è già stata esiliata.

Angelo Barberi

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AUTONOMIA DIFFERENZIATA? NO GRAZIE

Nord/Sud. Il neocolonialismo che avanza

I due maggiori partiti di estrema destra al governo in Italia, Fratelli d’Italia e Lega, si sono accordati su come scardinare l’impianto della Costituzione repubblicana. La proposta presidenzialista o semi-presidenzialista di Fratelli d’Italia, che di fatto amplia i poteri dell’esecutivo e ridimensiona quelli del Parlamento, smaschera una volta di più la finzione dei meccanismi di democrazia liberale che, quando la crisi economica e sociale minaccia fortemente gli interessi delle élites al potere, non esita a consegnare lo Stato alle correnti più autoritarie, di marca fascista o proto-fascista. Nuovo è invece il tentativo della Lega, attraverso la cosiddetta “autonomia differenziata” (D.D.L. Calderoli approvato il 23 febbraio 2023 dal governo nazionale e un mese dopo dalla Conferenza delle Regioni, col voto favorevole anche del governatore siciliano Schifani), di spezzettare l’Italia in tante repubbliche indipendenti quante sono le attuali regioni, svuotando ulteriormente di competenze Parlamento e Ministeri. Un mix perfetto in cui
l’equilibrio istituzionale verrebbe garantito attraverso uno Stato di polizia, che mentre mantiene anche le leve finanziarie e di politica estera, demanda tutto il resto a tanti staterelli satelliti, intasati di funzioni amministrative in parte oggi assolte dalle autonomie comunali, e dipendenti, per le prestazioni di servizi al cittadino, dall’aumento esponenziale delle proprie entrate fiscali e dal contributo economico che il governo centrale vorrà benignamente o meno concedere.  Riguardo alla Sicilia, per trattare delle conseguenze che vi porterà l’introduzione dell’ “autonomia differenziata” si deve obbligatoriamente fare riferimento all’ “autonomia speciale” concessa il 15 maggio 1946, con la quale l’Isola assunse competenza esclusiva in materia di beni culturali, agricoltura e foreste, usi civici, industria e commercio, urbanistica, lavori pubblici di carattere locale, miniere e saline, acque pubbliche, pesca e caccia, enti locali, beneficenza e opere pie (art. 14 dello Statuto). L’autonomia differenziata ne aggiungerebbe molte altre, fra le quali di primaria importanza l’istruzione, il lavoro, la mobilità e la salute.
Per sostenere finanziariamente la spesa regionale nelle materie già assegnate, gli artt. 36-38 dello Statuto stabilivano che toccasse alla Sicilia la totalità delle imposte fiscali, comprese quelle relative ad aziende operanti ma non residenti nell’Isola, più una quota che lo Stato avrebbe dovuto versare a titolo di solidarietà nazionale (fondo perequativo). Le prime ammonterebbero a circa 10 miliardi annui, mai versati; la seconda, che non viene corrisposta da un sessantennio, ha creato a favore della Regione un credito incalcolabile (si tratta comunque di parecchi miliardi). Dal 2019 si sono aggiunte, non ancora versate, le accise sull’energia (circa 9 miliardi all’anno) e, dal 2022, una indennità annua per le difficoltà di mobilità causate dall’insularità, pari a circa 6 miliardi (modifica dell’art. 119 della Costituzione).
Uno Stato così inadempiente, che ha potuto contare per decenni sull’inettitudine e la complicità dei politici siciliani di tutti gli schieramenti, contribuendo pesantemente ad allargare il divario tra il Nord e l’estremo Sud del paese, che garanzia potrebbe fornire introducendo in Sicilia ulteriori comparti che finanzierebbero i siciliani presumibilmente in proprio, o attraverso un ulteriore fondo nazionale perequativo, da costituirsi per di più “in base alle risorse disponibili” (art. 9 del DDL Calderoli)?
Un’autonomia speciale ulteriormente allargata non costituirebbe un’ulteriore beffa per i siciliani? non comporterebbe un nuovo aggravio di imposte, ticket, tasse e povertà? e che autonomia politica garantisce se mantiene in capo al governo italiano la facoltà di invalidare gli atti scomodi dell’Assemblea regionale e richiama addirittura la possibilità (art. 10 del DDL Calderoli) che il governo attivi discrezionalmente, per inadempienze nei confronti della nuova legge, quel “potere sostitutivo” che l’art. 120, comma 2, della Costituzione prevede in caso di “
pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica” della nazione?
Piuttosto che parlare di rimpolpare quell’autonomia siciliana che, nata nel 1946 per rintuzzare l’allora minaccia indipendentista, ha portato l’Isola all’attuale fallimento politico-sociale, non sarebbe il caso di risuscitare una rivendicazione sicilianista dal basso, che imponga una diversa organizzazione sociale fondata sull’eguaglianza economica tra tutti i siciliani e sulla libera federazione tra i Comuni dell’Isola e col resto d’Italia? che annoveri tra i suoi obbiettivi di lotta il recupero dei miliardi sottratti alla Sicilia non solo dal secondo dopoguerra ma anche nei decenni precedenti, quando lo Stato unitario ha utilizzato le risorse allora disponibili per finanziare prioritariamente lo sviluppo delle regioni del Nord industrializzato? Non sarebbe il caso di dar vita a una vera autonomia, ai vari livelli locali, che consenta ai siciliani di riappropriarsi della loro terra e delle loro risorse umane e materiali, e di allontanare da sé le servitù militari, le burocrazie statali e regionali, i grandi impianti industriali dannosi alla salute umana e all’ambiente, frutto di una politica colonialista che lo Stato italiano, con la connivenza dei suoi tentacoli locali, non ha mai smesso di perseguire?
Altro che i LEP! cioè quei livelli essenziali (leggi “minimi”) di prestazione che il ministro forcaiolo della Lega vorrebbe mantenere nelle regioni autonome più povere consentendo a quelle allo stato attuale più ricche, e ai cittadini più ricchi di esse, di raggiungere livelli sempre più elevati, fomentando così nuove diseguaglianze, disparità di diritti e di trattamento, affossando nelle regioni meridionali – ma anche in quelle del Nord, dove sono privilegiate le strutture private e non se ne garantisce l’accesso e la gratuità ai più poveri – la scuola pubblica, la sanità pubblica, i trasporti e i servizi pubblici in genere. Quei LEP che, indice della grande confusione del ministro Calderoli o, peggio, delle sue attitudini provocatorie, intenderebbe finanziare con quella parte del fondo per lo sviluppo e la coesione sociale (FSC) e dei fondi strutturali europei (POR), già destinati in gran parte alle regioni meridionali e largamente insufficienti, che non è stata ancora spesa per incapacità e sciatteria dei funzionari incaricati ma anche per l’astrusità delle regole europee, l’ostruzionismo e il ritardo con cui quei soldi vengono erogati dai Ministeri competenti (lo dimostra la bocciatura dell’ultima finanziaria regionale dove essi erano stati nominalmente inclusi senza il preventivo permesso del governo).
È finito il tempo della pura indignazione, dei sorrisetti di scherno e delle menate intellettuali. Dobbiamo mobilitarci senza indugio, affinché gli oppressi di Sicilia e del continente riannodino il filo della tradizione rivoluzionaria e delle lotte di massa, e impediscano che la legge sull’ “autonomia differenziata”, che fa tanto gola ai nuovi padroni/predoni d’Italia, possa essere approvata e fungere da apripista per progetti ancor più reazionari e antipopolari.

Natale Musarra

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Il governo dei reati

Dalle leggi ad personam ai reati ad personam: è una delle tracce di continuità più evidenti tra i governi di centrodestra guidati da Silvio Berlusconi al governo di destra retto da Giorgia Meloni. Se però il Cavaliere, in fondo, inventava leggi per salvarsi il culo e perpetuare il sistema clientelare che gli ha consentito di stare al potere per più di 20 anni, la donna/madre/cristiana fa un passo in avanti in più, puntellando in senso ancora più securitario quello che ormai da tempo è il regime democratico.
Se n’è accorto persino il mondo liberale, oggi come ieri il vero reggente della destra al governo, che parla apertamente di rischio (oh, sono pur sempre liberali) di “autoritarismo democratico”. Che a loro pare un ossimoro e per chi scrive è una ridondanza. All’alba della nascita del governo Meloni, tra settembre e ottobre 2022, la galassia liberale – che pontifica sul giornale Il Foglio, gigioneggia sul canale tv La 7 e costruisce consenso sul sito Il Post – teorizzava che “ma quale ritorno del fascismo, questi avranno le mani legate in ambito economico dai vincoli dell’Unione europea e al massimo si rifaranno sui diritti civili, togliendo qualcosa lì giusto per fare la faccia feroce e dare un segnale ai propri che sono gli stessi di sempre”. Pur se in apparenza plausibile, la tesi non faceva i conti col desiderio di rivalsa di una destra enormemente rancorosa, ossessionata dall’egemonia gramsciana, vogliosa di ricostruirsi un posto al sole e pronta a imporre una visione che fa rima con nazione.
Nella definizione più comune, con il termine nazione si intende un insieme di persone che hanno in comune tradizioni storiche, lingua, cultura e origine. È un concetto che la destra italiana ripete in continuazione da quando è al governo – la sola Meloni lo ha espresso una quindicina di volte nel suo discorso di insediamento alle Camere – e che però poggia evidentemente su basi fragili. L’Italia vista da destra è un coacervo di etnie, identità plurime, conflitti di classe latenti ma pulsanti. Per questo serve compattare la nazione ed escludere tutto ciò che non è comune e conforme. A ciò serve la pioggia di reati che da quasi un anno ha inzuppato i codici penali e le vite di tante e tanti.
I primi a essere colpiti, per chi lo ricorda, sono stati i rave party: chi organizza e promuove un rave rischia ora da tre a sei anni a carcere e una multa da mille a diecimila euro, in base al nuovo articolo 633-bis del codice penale. A seguito della tragedia di Cutro, in cui sono morte 95 persone che tentavano di approdare nelle coste calabresi, il governo ha introdotto un nuovo reato, chiamato pomposamente “morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina”, con pene dai 10 ai 30 anni di carcere. Un reato inventato che, a detta di tutti gli esperti, non incide per nulla sui flussi migratori e che però serve, appunto, a perpetuare la logica del divide et impera: i cattivi sono gli scafisti, i buoni siamo noi che li individuiamo come tali con l’ausilio del codice penale. C’è poi la proposta della Lega, approvata dal consiglio dei ministri a metà aprile, che prevede “disposizioni sanzionatorie in materia di distruzione, dispersione, deterioramento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali o paesaggistici”: è il reato ad hoc cucito questa sulla pelle delle attiviste e degli attivisti di Ultima Generazione, il movimento ambientalista che più si è fatto notare nell’ultimo anno con le azioni di protesta rivolte, appunto, verso alcuni dei luoghi italiani più noti al mondo (il carbone vegetale disperso nell’acqua della Fontana della Barcaccia, a Roma, e la vernice colorata alla facciata di Palazzo Vecchio, a Firenze, le più clamorose). Definito dalla stessa maggioranza di governo come “il disegno di legge contro gli eco-vandali”, a poco serve far notare che il reato di imbrattamento esiste già e prevede pure l’aggravante: il testo, infatti, punta non solo a reprimere e frenare il dissenso ma, soprattutto, serve a creare una frattura, per alienare le possibili simpatie verso la causa portata avanti da Ultima Generazione. Senza considerare gli altri possibili reati che la maggioranza parlamentare intende introdurre: dal reato di “istigazione all’anoressia” al reato di “omicidio nautico”, dal reato di “occupazione abusiva di privato domicilio o dimora” fino al reato di “surrogazione di maternità”. Ipotesi di reato finora non contemplate nel codice penale: nei primi due casi servono evidentemente a trasmettere l’idea che si sta facendo qualcosa per combattere due fenomeni particolarmente odiosi, ma sempre con la mannaia della repressione e mai con lo strumento della prevenzione; gli altri due casi, invece, ancora una volta servono a imporre il cappio legalitario rispettivamente a un conflitto sociale (la questione abitativa) e all’assenza di un diritto (per chi non può avere figli). Poi, come fa notare Amnesty International, il governo si muove, con la scusa di presunti “ritocchi tecnici” invocati dal ministro Nordio, per depotenziare il reato di tortura. Un reato che fu introdotto in Italia tra mille difficoltà nel 2017 a 29 anni di distanza dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della Convenzione del 1984 contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani e degradanti. E che sia Salvini che Meloni avevano più volte promesso in passato di cancellare perché, parole loro, “impedisce agli agenti di fare il proprio lavoro”. I reati, come le leggi, per i nemici si applicano o, meglio ancora, si inventano di sana pianta; per gli amici, invece, si depotenziano o, meglio, ancora si cancellano. Un governo che brandisce lo strumento legale come un’arma è un pericolo non solo per la tanto decantata democrazia borghese ma è soprattutto un ostacolo per le lotte che devono attraversare l’Italia. È necessario dunque convergere e trasformare questo tentativo di divisione legislativa in un’unione di mobilitazioni e rivendicazioni. Uscendo fuori dagli angusti confini del perimetro legale.

Andrea Turco

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UCCIDIAMOLI A CASA LORO

Migranti. Il cinismo della Fortezza Europa

Sempre e comunque sulla pelle dei migranti. La tragedia di Cutro ha scosso per qualche giorno gli animi, riempito le pagine di giornali e telegiornali, ed è diventata occasione per il governo, che nonostante qualche difficoltà se l’è cavata, per rafforzare la sua politica securitaria. Così passata la tempesta e ripresa la normale routine, il quotidiano stillicidio di migranti sballottati lungo le rotte del Mediterraneo, a morirvi anche, può proseguire senza suscitare alcuno scandalo, un cenno appena sui media.
Ma il tremendo naufragio di Cutro in realtà è lo specchio fedele e allo stesso tempo deformante delle ipocrisie, della malafede, dei subdoli interessi che governano le nostre esistenze e che considerano la morte dei migranti, come dei lavoratori – nazionali o stranieri non fa differenza -, un mero accidente. E quando sono in vita una proficua funzione nelle logiche del profitto e della produzione.
La destra e il governo si sono spesi in tutti i modi fin da subito per addossare ogni responsabilità su scafisti e trafficanti di esseri umani, aprendo una vera e propria caccia con identikit e arresti, e additandoli come i nuovi mostri di tutte le turpitudini commesse nel Mediterraneo. Ignorando volutamente che la trama delle migrazioni clandestine è molto più intricata e che, se c’è da individuare dei responsabili, questi andrebbero cercati in Europa, in luoghi a loro molto vicini. Invece tutto il becero armamentario del razzismo e del nazionalismo è stato tirato fuori: dalla difesa dei confini a quell’aiutiamoli a casa loro, che è un modo per dissimulare le aspirazioni neocolonialiste. Infatti, nel suo empito di fedele servitore della patria, il ministro Piantedosi si è spinto a rimproverare i migranti per il loro comportamento irresponsabile e avventato; mentre un esempio di come il governo intenda rendere concreto il sostegno ai paesi di provenienza dei migranti si è avuto in occasione della visita della prima ministra negli Emirati Arabi, quando ancora tutti i corpi dei migranti annegati di fronte alla spiaggia di Cutro non erano stati recuperati. La visita è servita a ripristinare i normali rapporti commerciali con l’importante paese del Golfo Persico, intralciati da qualche tempo per la revoca, al tempo del secondo governo Conte, delle autorizzazioni ad esportare armi; revoca in parte già rivista nel 2021. Adesso si aprono invece nuove occasioni per potere fare affari, come trionfalmente ha dichiarato il ministro degli esteri Tajani. Infatti “nel Paese sono presenti oltre  600 imprese italiane … attive principalmente nei settori delle costruzioni .. energia …sicurezza/difesa… bancario… aerospaziale” , come riporta compiaciuto un articolo del Sole 24 ore. La popolazione dello Yemen, da anni costretta a subire una guerra alimentata anche dalle armi prodotte in Italia e vendute proprio a Emirati Arabi e altri paesi, può ringraziare Meloni e Tajani per la loro solerzia. Come possono ringraziare, ma senza alcuna ironia, Eni, Finmeccanica, Leonardo, e compagnia simile, per l’attivismo dei governi italiani nel supportare le iniziative economiche di questi colossi in alcuni dei paesi africani più tormentati da crisi politiche, sociali ed economiche. E dai quali partono i disperati alla ricerca di un approdo migliore.
Intanto il governo, coi suoi tempi, è andato a Cutro, ma non come Enrico IV a Canossa per umiliarsi e chiedere perdono, piuttosto con l’arroganza dei potenti per imporre le sue regole. Ne è uscito il cosiddetto “decreto Cutro” che inasprisce il carcere per i fantomatici scafisti, prevede l’incremento dei centri per il rimpatrio con l’obiettivo di averne almeno uno per ogni regione, riduce le possibilità di ottenere la protezione speciale, intende rimodulare il decreto flussi per permettere maggiori arrivi legali per motivi di lavoro. Servono a quanto pare braccia in alcuni settori: lavoratori agricoli stagionali e nel turismo, in particolare.
Dall’altra parte, quella che passerebbe per essere la sinistra dello schieramento istituzionale si è distinta per avere criticato il governo non solo per il mancato soccorso, ma anche per la scarsa sensibilità umana dimostrata. Il fenomeno migratorio è certo complesso e difficile, è la tesi della sinistra(destra), tuttavia non si può affrontare con la repressione, con la chiusura delle frontiere, con i respingimenti, con la criminalizzazione delle Ong. Questo pensiero è bene espresso da uno dei suoi più accreditati campioni nel côté intellettuale, il direttore de La Stampa che nel suo editoriale del 5 marzo scorso scrive, rivolgendosi direttamente alla Meloni: “Come lei, anche noi siamo convinti che nell’affrontare il dossier immigrazione l’Europa abbia peccato di cinismo e di egoismo, dal Trattato di Dublino del 2003 fino ad oggi[…] Ma a differenza di lei, pensiamo che tutto questo venga dopo e non c’entri col dovere primario e irrinunciabile […] salvare vite umane. […] Rispetto al 2022 i flussi migratori sono triplicati nei primi due mesi del 2023. Vanno gestiti, non esorcizzati o criminalizzati”. Come Giannini, molti altri esponenti politici o intellettuali della sinistra nostrana hanno insistito sulla necessità di governare il fenomeno migratorio, tuttavia nessuno si è preoccupato di spiegare cosa intenda precisamente con questa affermazione, se non genericamente salvare migranti in mare, garantire ipotetici corridoi umanitari, prevedere un decreto flussi più in linea con le richieste delle imprese. C’è poi veramente differenza tra questa posizione e il fantasioso aiutiamoli a casa loro o non lasciamoli partire della destra? Tanto più che nessun governo europeo di destra o di sinistra ha finora prospettato nulla di diverso del dare soldi a stati africani o mediorientali per trattenere i migranti nei loro territori: Turchia, Libia e adesso Tunisia, come vorrebbe il governo italiano.
E’ una storia che si ripete da più di un ventennio: ad ogni episodio eclatante che trova la ribalta nei media infuriano polemiche, fioccano i proclami, si invoca il senso di umanità, ma soprattutto si attivano diversivi. In un articolo apparso su Internazionale il 27 aprile del 2015 il giornalista Gwynne Dyer scriveva: “E quindi è venuto fuori che il problema non sono i rifugiati che scappano da luoghi devastati dalla guerra come la Siria o la Somalia, da crudeli dittature come l’Eritrea o dalle zone povere dell’Africa occidentale. Sono i malvagi trafficanti, i “nuovi schiavisti” come li ha definiti il presidente del consiglio italiano Matteo Renzi, che attirano i migranti lontano da casa facendo pagare duemila dollari a persona per un posto su un barcone di fortuna diretto in Europa”.
Ora quanti tra governi, opposizioni politiche, intellettuali e opinionisti sono disposti a individuare nelle guerre, nelle politiche neocoloniali, nelle devastazioni ambientali le vere origini delle migrazioni forzate? Anzi mi correggo, certamente converranno tutti che lì sono le cause dei nuovi esodi, ma poi acquietata la coscienza della propria onestà intellettuale, continueranno a provocare e a sostenere guerre e depredazioni, facendoci credere che sono fenomeni che ci trascendono e ci soverchiano.     

Angelo Barberi      

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Grazie Alfredo

5 mesi e mezzo di sciopero della fame, una protesta dura, lunga, che ha portato allo scoperto la faziosità della giustizia italiana e la legalizzazione di fatto della tortura attraverso il regime del 41 bis e dell’ergastolo ostativo. Grazie ad Alfredo Cospito l’Italia intera ha scoperto l’esistenza di un mondo invisibile, dimenticato e rimosso chiamato carcere, dove lo Stato mette in pratica le sue vendette. E’ stata smascherata l’ipocrisia di chi sbandiera articoli della Costituzione che parlano di rieducazione del detenuto, tolto il velo alle complicità che in tale sistema hanno tutti i partiti, fette di società che ragionano con la pancia, intellettuali forcaioli, fascisti celati sotto varie spoglie, mass media, antimafie ufficiali sempre pronte a sperticati plausi alle forze dell’ordine e alla magistratura.
Grazie a Cospito gli oltre 750 individui seppelliti nella tomba del 41 bis hanno potuto avere una voce che ne denuncia la tortura quotidiana, la privazione dei più elementari diritti, esercitate anche su persone anziane e malate.
La forza di Alfredo è la sua estraneità al mercato dei compromessi, è aver posto un problema sostanziale e non personale; è aver smontato l’emergenzialità continua della legislazione italiana; avere indicato delle vie d’uscita che lo Stato non vuole accettare pena il dover macchiarsi del peccato di cedimento verso un anarchico: la liberazione dei detenuti in 41 bis più vecchi e malati, per lasciarli almeno morire a casa loro. Un gesto che potremmo definire “di pietà” che questo Stato non vuol fare perché la sua ragione, la ragione del più forte, e il suo principio di intransigenza, non devono mostrare debolezze di sorta.
Meglio la linea dura, molto meglio un anarchico morto. Gettando in pasto agli anarchici un nuovo martire li si spingerà a scatenarsi nelle piazze o in azioni di protesta le più variegate, e allora lo Stato, il suo governo, le sue forze di polizia, la sua magistratura saranno pronti ad assolvere al loro compito di repressori, di ripristinatori dell’ordine violato, di cacciatori di sovbversivi. Cospito morto è più funzionale allo Stato di un Cospito vivo e magari vittorioso. Al diavolo i delinquenti e i “terroristi” condannati alla morte lenta del 41 bis, al diavolo i garantisti che se ne preoccupano e al diavolo anche quei quattro giudici che hanno espresso perplessità su tutta la vicenda richiedendo la cancellazione del 41 bis per Alfredo.
Lo Stato, e i fascisti al governo, sanno che il tempo gioca a loro favore e attendono o la capitolazione di Cospito o la sua fine.
L’attenzione dei media è già scemata; gli ordini di scuderia sono chiari: parlarne e scriverne lo stretto necessario. A gennaio furono le piazze attivate dagli anarchici a imporre che il silenzio venisse rotto, facendo emergere tutto il fango che la questione trascina con sé.
Uno degli argomenti usati da Nordio e dai magistrati è la collaborazione di Cospito, dal carcere, alla rivista Vetriolo; collaborazione, oltre tutto, sottoposta a censura preventiva. Hanno detto che dava ordini all’esterno come un qualsiasi boss mafioso. Come se al mondo vi fosse un solo anarchico che possa prendere o dare ordini da o a un altro anarchico. Ma anche tale pretesto è caduto qualche settimana fa, quando il Tribunale del riesame di Perugia ha annullato per la seconda volta l’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Alfredo e di altre cinque persone relativamente agli articoli pubblicati sulla rivista Vetriolo, smascherando l’infame operazione volta a provocare la morte di Alfredo.
Il 27 marzo i tribunali di sorveglianza di Milano e Sassari hanno rigettato la richiesta di arresti domiciliari fatta dai legali del compagno, poiché le sue condizioni di salute sono frutto di sue deliberate scelte. Ma questo era solo un passaggio obbligato per permettere agli avvocati difensori di adire a vie giudiziarie internazionali. Oltre l’ONU anche l’UE infatti si è espressa per una rimessa in discussione del 41 bis in Italia.
Ora sta al movimento anarchico saper fare la propria parte su una vicenda che può coinvolgere centinaia di migliaia di persone; non si tratta più di guardare alle aree di appartenenza, la cui libertà di azione non è comunque in discussione. Si tratta di approfittare di un consenso che la lotta di Alfredo ha contribuito a costruire e di mettere in campo una forza d’urto capace di strapparlo dal 41 bis e di cancellare il carcere duro, comunque lo si chiami. 

Alfredo deve vivere.

Pippo Gurrieri

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Benzina NATO su fuoco russo

Ucraina. Finchè c’è guerra c’è speranza

In un crescendo di prese di posizioni, conferenze, incontri, cene persino, le élite mondiali sembra proprio vogliano precipitarci in un perenne stato di guerra. Non passa giorno od occasione in cui un qualche esponente di un qualche governo o un qualche burocrate di un qualche organismo internazionale non prova ad esasperare o estremizzare anche episodi marginali per spingere sempre più verso un clima di guerra che mano a mano ci va stringendo in una morsa alla quale pare non sia possibile sottrarsi.
Mentre la guerra in Ucraina continua con tutte le sue scelleratezze e atrocità in uno stallo inestricabile che prolunga sofferenze senza fine, la propaganda ci fa credere che si tratta di una guerra per l’affermarsi di presunti valori positivi in contrapposizione ad altri presunti valori negativi: questione di vita o di morte, per cui non si può che andare fino in fondo per una vittoria salvifica. Nel frattempo si tace o si sorvola sul fatto che questa è una guerra per il posizionamento nei sempre instabili equilibri geopolitici tra Usa-Nato e Russia, in prima istanza e tra Usa-Nato e Cina sullo sfondo.
Queste ultime settimane poi hanno visto un affollarsi di situazioni che hanno fatto registrare un’impennata nella “normalizzazione” della guerra e nella sclerotizzazione delle posizioni. Tre eventi spiccano sul quotidiano stillicidio guerrafondaio: la visita di Zelensky a Bruxelles, la conferenza di Monaco sulla sicurezza e il blitz di Biden a Kiev. Il 9 febbraio scorso il presidente ucraino è stato accolto nella capitale europea dalle cariche delle massime istituzioni europee, i presidenti della Commissione e del Consiglio, Von der Leyen e Michel, poi è intervenuto all’Europarlamento e successivamente ha incontrato i 27 leader dei paesi Ue. La grande parata è servita a ribadire ancora una volta l’incondizionato sostegno politico, economico e militare all’Ucraina e a lanciare segnali di apertura per un suo prossimo ingresso nell’Ue.
Più nel dettaglio è entrata la conferenza di Monaco sulla sicurezza, l’incontro annuale in cui capi di Stato, governi, vertici militari, industriali e analisti discutono di assetti geopolitici. La questione urgente dell’edizione di quest’anno è stata come rifornire di armi in maniera celere ed efficace l’Ucraina. La presidente della Commissione europea von der Leyen ha suggerito di adottare lo stesso metodo del contrasto alla pandemia: stipulare contratti con l’industria degli armamenti per aumentare la produzione e destinarla all’Ucraina. Anche l’alto rappresentante per gli Affari esteri dell’Ue, Josep Borrel, è stato perentorio: “
Zelensky e l’Ucraina non hanno abbastanza munizioni, ma hanno molta determinazione. Devono essere riforniti meglio. Questa guerra avviene sul territorio europeo e ha conseguenze per la nostra sicurezza. Dobbiamo accelerare il nostro sostegno all’Ucraina, rafforzare l’industria della difesa, produrre più munizioni anche per tutti noi. La priorità deve restare l’Ucraina. Dobbiamo passare dalle parole ai fatti”.
Infine con un vero e proprio coup de theatre il presidente Usa si è recato a Kiev il 20 febbraio, una visita a sorpresa, ma preparata accuratamente, che il mondo occidentale ha vissuto con soddisfazione e una buona dose di esaltazione, mentre la Russia l’ha interpretato come un atto di aperta ostilità. “L’amico americano” e “Sfida a Putin”, sono stati i titoli di prima pagina di due importanti quotidiani italiani, e certamente questa visita rappresenta un ulteriore tassello verso un mondo sempre più armato e contrapposto.
Più volte abbiamo scritto su questo giornale che se gli sviluppi della crisi ucraina al momento sono imprevedibili, non è escluso che ad un certo punto si riesca a trovare un compromesso che eviti il precipitare in una guerra di più ampia portata (anche se questo potrebbe sempre accadere), tuttavia rimarranno scorie permanenti che disegnano già un futuro più instabile e pericoloso. Due aspetti su tutti sembrano evidenti. Il primo, questa guerra sta funzionando come il perfetto alibi per legittimare la possibilità di ricorrere allo scontro bellico quale unico strumento per regolare i rapporti tra stati e potenze. Non si tratta più, come è accaduto nel recente passato, di un accidente per cui l’intervento militare era giustificato da un’emergenza incarnata da un dittatore pazzo e sanguinario che doveva essere eliminato, tanto che ad esempio tali operazioni venivano e vengono nominate “missioni di pace”. Adesso la guerra viene rappresentata come strutturale e permanente, consustanziata con il nuovo mondo multipolare di questo scorcio di XXI secolo. Da qui la corsa alle armi che come una febbre sta dilagando, senza che l’industria bellica e i vertici degli eserciti si debbano preoccupare di fomentarla, e la continua enfasi sull’insufficienza dei dispositivi di difesa. Perché ipocritamente è sempre e comunque un nemico da cui dobbiamo difenderci a giustificare il ricorso alle armi.
L’altro aspetto rilevante è che questa guerra sarebbe il sintomo dell’insicurezza e della precarietà sempre più diffuse. Pertanto la priorità per i governi e per gli stati è quella di affrontare tale emergenza, ogni altra questione deve essere accantonata. Lo si è visto con le cosiddette crisi energetiche e del grano. La principale vittima di questa logica è quella che invece dovrebbe essere la nostra fondamentale preoccupazione, cioè il cambiamento climatico e la distruzione dell’ambiente (che la guerra esaspera ed accentua). Negli ultimi tre anni, la pandemia e la guerra, che avrebbero dovuto farci operare un cambiamento radicale, sono invece servite per cancellare qualsiasi dibattito sulla pericolosa china imboccata e sul persistere di un modello di produzione autodistruttivo. Anzi governi e multinazionali si intestano una finta transizione ecologica che non solo lascia intatte le strutture di potere ma maschera un fondamentale immobilismo e l’aggravarsi del mutamento climatico.
Tuttavia, nonostante l’assordante silenzio dei principali media, le piazze per la pace e contro la guerra il 24 e il 25 febbraio hanno manifestato la loro netta opposizione alla deriva guerrafondaia. Su queste piazze occorre far leva e, se è vero che la gran parte delle persone è contraria all’invio di armi all’Ucraina, devono essere aumentati gli sforzi per fare dilagare la protesta contro i signori della morte.     

Angelo Barberi

 

 

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Condannato a morte

“La corte suddetta: rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali”. Con queste lapidarie parole la Corte di Cassazione ha sentenziato il 24 febbraio la condanna a morte per Alfredo Cospito.
Il compagno è giunto, al momento in cui chiudiamo questo numero del giornale, ad oltre 140 giorni di sciopero della fame con cui ha messo in gioco il suo corpo e la sua vita come forma estrema di ribellione al sistema carcerario. Il rigetto del ricorso è la manifestazione di arroganza di una magistratura piegata alle direttive politiche del momento; esso calpesta la cultura giuridica borghese e la stessa evidenza dei fatti, in perfetta continuità con l’atteggiamento vendicativo e forcaiolo che ha a suo tempo determinato la condanna di Cospito e la sua sepoltura nel 41 bis.
Non si è trattato, tuttavia, di un atto imprevedibile; i continui interventi del ministro Nordio, garantista con i ladroni privati e di Stato ma politicamente avversario di ogni individuo o movimento che si oppone all’ordine capitalistico borghese; le indicazioni della procura torinese, entità tradizionalmente accanita contro attivisti NO TAV e anarchici, assieme a tanti altri episodi recenti, facevano pendere la bilancia verso la condanna a morte di Alfredo, vista la sua sempre più decisa volontà di proseguire ad oltranza nella sua protesta.
I calcoli di un governo composto dagli eredi degli stragisti di piazza Fontana, di piazza della Loggia, dell’Italicus, della stazione di Bologna, del rapido 904, sono apparsi chiari sin da subito, e l’opposizione parlamentare ha dimostrato di non possedere alcuno spessore in grado di ostacolare la sua marcia, come si è evinto dalla fuorviante e ridicola bagarre sulle presunte rivelazioni di Donzelli, imbeccato da Del Mastro, su consiglio della presidente del consiglio, e sotto l’ala protettiva del ministro dell’inGiustizia. Si tratta di calcoli che hanno previsto e pianificato la morte di Alfredo Cospito in conseguenza del lunghissimo sciopero della fame, al fine di provocare una forte risposta delle piazze, e non solo degli anarchici, da poter poi leggere e gestire come un’emergenza di ordine pubblico funzionale al governo per far concentrare l’attenzione su “terroristi”, distruttori di bancomat, occupanti di scuole e università, distogliendola dal coinvolgimento sempre più diretto dell’Italia nella guerra in Ucraina, dall’attacco alle condizioni economiche delle classi più deboli e da tutte le politiche fallimentari, filopadronali e repressive già in atto, dalla strage di migranti a Cutro agli assalti squadristi a Firenze, alla polizia nella scuola di Piazza Armerina. Per tali ragioni Cospito va sacrificato sull’altare della ragion di Stato e dell’opportunismo politico dei partiti.
Noi siamo convinti che Alfredo abbia già vinto: ha vinto perché è riuscito, nonostante l’isolamento in cui l’hanno costretto, a non farsi sotterrare in una tomba statale; è riuscito a rompere il silenzio sulla sua vicenda e, fattore più importante, a riaprire il dibattito sul 41 bis e su tutte le vittime di questo sistema di tortura, ridando slancio ad una battaglia rimasta sempre in sordina, e ridando speranza ai tanti sepolti vivi da questo trattamento e dall’ergastolo ostativo.
E’ nostro desiderio che Alfredo Cospito possa uscire vivo da questa vicenda, per poter continuare la lotta assieme a tutto il movimento anarchico, a tutte le forze che hanno contribuito e stanno contribuendo a questa battaglia, a tutti quegli intellettuali che hanno rotto il muro del silenzio, dell’omertà e della complicità, prendendo la parola per denunciare la sporca operazione imbastita sin da quando lo si volle colpevole di fatti da cui si è sempre dichiarato estraneo, e quando lo si volle murare vivo nel regime del 41 bis, con delle forzature giuridiche da regimi fascisti, nel silenzio di tanti, molti dei quali sedevano nei banchi del governo precedente quello attuale a trazione fascio-leghista. 

Noi siamo portatori di una cultura della vita, e non della morte come invece i fascisti e gli apparati di Stato, che lo vogliono morto per regolare i conti con gli anni ’70, e ci batteremo perché Alfredo non sia mai solo, rispettando le sue scelte.

Pippo Gurrieri 

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PER UMANA COMPASSIONE

L’arresto di Matteo Messina Denaro

Come Totò Reina, come Bernardo Provenzano, anche Matteo Messina Denaro è stato probabilmente “scaricato” dai vertici palermitani di Cosa Nostra. Conveniva ad essi togliere dalla circolazione un pericoloso concorrente che, per quanto ammalato, conservava un forte carisma e rappresentava pur sempre quel passato stragista che si affannano ad archiviare definitivamente. Allo stesso tempo, l’uscita di scena del superlatitante poteva consentire di alleggerire la pressione delle forze dell’ordine sui resti dell’organizzazione e sui suoi traffici.
L’autista del boss dichiarava con messaggio cifrato ai magistrati che l’interrogavano a caldo d’averlo accompagnato “per umana compassione”. Di lì a poco, enigmaticamente, lo stesso Messina Denaro rilasciava un riconoscimento scritto ai carabinieri dei Ros per il comportamento rispettoso usato nei suoi confronti.
Se da un lato Cosa Nostra non ha mosso un dito per avvertirlo o sottrarlo alla cattura, dall’altro sembra proprio che il capo mafia si aspettasse un tale epilogo alla sua latitanza “dorata”. Costretto ad “esporsi”, per curare un cancro allo stadio terminale, finanche fuori dal suo territorio di elezione – Castelvetrano e paesi limitrofi -, senza un’adeguata protezione, senza quegli “spifferi” dai palazzi del potere e dalle questure che gli avevano finora consentito di sfuggire alle retate faticosamente imbastite nei suoi confronti, braccato da un imponente spiegamento di corpi speciali e di tecnologie d’avanguardia, era inevitabile che stavolta fosse arrestato senza poter tentare la fuga od opporre resistenza. Si legga il bel libro di Marco Bova su Matteo Messina Denaro, latitante di Stato, che racconta come sono state affossate le indagini condotte in questi trent’anni e riporta la predizione di uno sconsolato ex procuratore della DNA, Vincenzo Macrì, che solo “quando verranno meno le protezioni di cui dispone” egli potesse venir catturato.
Non è vero tuttavia che si volesse consegnare, come si vociferava da quando, qualche mese addietro, la sua malattia era divenuta un segreto di Pulcinella. Un capo dei capi non si consegna, specie se ha da alimentare una leggenda e non scontentare i suoi tanti ammiratori. Messina Denaro è sempre stato uno spaccone. Ma in questo caso si può ben dire che la spacconeria abbia coinciso con un rischio calcolato: non aveva grandi speranze di mantenersi a lungo in libertà, e forse neppure la convenienza a farlo, se doveva continuare a curarsi in strutture oncologiche specializzate. Per gli uomini dei Ros c’è da sperare allora che la brillante operazione condotta contro un uomo che da mesi si sapeva malato di cancro non sia l’ennesima beffa ch’egli rifila allo Stato.
Si comprenderebbe meglio così perché a Campobello di Mazara, dove pure poteva contare su solidarietà antiche, d’interesse ma soprattutto amicali e parentali, avesse allentato le precauzioni usate in passato. Non si nascondeva più, frequentava pregiudicati e rischiava ogni giorno d’essere riconosciuto o fermato in macchina a qualche posto di blocco, frequentissimi in quella zona. È anzi probabile che, imitando il padre Francesco quando, gravemente ammalato, gli aveva ceduto il comando alcuni mesi prima di morire, abbia anch’egli già disposto per la sua successione.
Uomo scaltro e abile con le armi e con gli affari, capace di tenere costantemente sotto traccia le attività della sua cosca, nonostante continue perquisizioni, confische e sequestri, Matteo Messina Denaro è riuscito in questi anni nell’impresa di mantenere per buona parte intatta l’organizzazione trapanese di Cosa Nostra, commistione di pezzi delle istituzioni, della massoneria, dell’imprenditoria, della borghesia delle professioni e della sanità locali. A reggerla sono personaggi legati da vincoli familiari che si tramandano fin dalla metà dell’Ottocento se non prima. Basti considerare che il capostipite della famiglia Messina Denaro, anch’egli un Matteo, figurava in un’inchiesta borbonica del 1842 tra i campieri dediti alla camorra dell’allora nobiluomo trapanese Gian Maria D’Alì: il bisnonno del senatore Antonio D’Alì, l’uomo politico più influente della provincia di Trapani, incappato di recente in una condanna definitiva a sei anni di carcere, che tra i suoi campieri di fiducia contava appunto il padre, Francesco, dell’attuale Matteo Messina Denaro.
Segno di una continuità e contiguità criminale, ma anche politico-affaristica, che ha finito per radicare profondamente la mafia nelle attività economiche e sociali di uno tra i territori più ricchi della Sicilia nonostante, paradossalmente, i suoi principali esponenti fossero ormai proiettati sui mercati internazionali, ben più redditizi, della droga, dei rifiuti tossici e delle armi. Anzi, è proprio grazie al riciclaggio dei traffici criminali, alla caratteristica commistione tra imprese legali e illegali, all’accondiscendenza delle classi agiate e dei loro referenti politici, più che all’intermediazione parassitaria che storicamente esercita sui territori, che la mafia trapanese ha acquistato pervasività e consenso sociale. Non è raro ancora oggi, nell’area tra Castelvetrano e Campobello di Mazara, ma anche nell’alcamese, trovare tra la gente comune chi parla entusiasticamente dei Messina Denaro come benefattori dell’umanità e formula minacce o aggredisce chi osa affermare il contrario. Sorprende il fatto che solo oggi, tramite il “battage pubblicitario” seguito all’arresto del boss, il giornalismo d’inchiesta e l’opinione pubblica nazionale “scoprano” quello che nella Sicilia occidentale è sempre stato in piena evidenza.
Non vi è settore economico, dall’olivicoltura all’eolico, dall’edilizia al turismo, dalla grande distribuzione al pubblico impiego che non sia supino ai voleri di Cosa Nostra e non dipenda da proventi criminali, estorti con la violenza o incutendo paura o distruggendo vite umane, e reinvestiti nei circuiti economici legali. Si tratta di una tipologia di capitalismo “assistito” da Cosa Nostra che è tutt’uno col potere di mediazione e amministrazione che impone alla vita sociale. È in tal senso, secondo Isaia Sales, che la mafia mostra di avere “una certa affinità, una certa consustanzialità” con le forme del potere statale.
E difatti, se ci atteniamo alle pratiche mafiose: prelievo forzato della ricchezza (=tassazione), controllo del territorio e monopolio della violenza (=sicurezza e polizia), mediazione nei conflitti e assistenza agli affiliati (=giustizia e welfare), imposizione di manodopera e reclutamento (=agenzie di collocamento e concorsi pubblici), finanziamenti illeciti e riciclaggio (=borsa e banche d’affari), aziende di copertura e cartelli criminali  (=imprese di Stato e multinazionali); e consideriamo l’esistenza persino di organi elettivi e di rappresentanze all’estero; è giocoforza ammettere che ci troviamo di fronte a un “alter ego” dello Stato legale, a un “alter-Stato” che non si contrappone necessariamente ma si interconnette sempre più spesso con lo Stato legale. Una istituzione “parallela”, come la definiva Falcone, che riceve legittimazione più dall’alto che dal basso della piramide sociale e che, a detta del procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo, è oggi divenuta una “componente strutturale del tessuto sociale ed economico” dell’intera nazione (“La Repubblica” del 18 gennaio scorso).

Lottare contro la mafia e contro lo Stato, manifestazioni speculari di autoritarismo, sopraffazione e violenza, è un obbligo morale, oltre che politico e sociale, da assolvere fianco a fianco con chi si batte con coraggio leonino perché le comunità locali siciliane prendano coscienza e si ribellino alle imposizioni statali, ai ricatti mafiosi, ai politici collusi e acquiescenti che rappresentano lo Stato nei territori più compromessi, e provino a costruire, dal basso, delle vere alternative solidali e resistenti all’ingerenza statale e all’infezione mafiosa.

Natale Musarra

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Fuori Alfredo dal 41 bis!

Cospito. La vendetta statale contro gli anarchici

Alfredo Cospito ha superato, al momento in cui chiudiamo questo numero di Sicilia libertaria, i 110 giorni di sciopero della fame; le sue condizioni di salute sono sempre più gravi e la sua vita è seriamente in pericolo.
In questi tre mesi e mezzo la filiera del comando governativa e statale ha brillato per il suo silenzio: dal ministro della Giustizia Nordio al presidente della Repubblica Mattarella, le due figure istituzionali che possono intervenire in autonomia per por fine alla durissima protesta del compagno con un provvedimento che cancelli l’osceno 41 bis, non è arrivato nessun segnale. O meglio, è arrivato un segnale di linea dura, che è anche una conferma della volontà di annientamento psico-fisico attuato nei confronti del compagno e di rivendicazione sia della tortura legale rappresentata dal 41 bis, sia della condanna a morte rappresentata dall’ergastolo ostativo.
Solo dopo l’incalzare delle proteste e delle azioni messe in atto sia in Italia che all’estero, grazie a cui il  caso Cospito ha potuto fare irruzione come prima notizia nei media, in parlamento, nei ministeri, arrivano le repliche, tutte improntate a paventare il pericolo anarchico, le presunte azioni terroristiche (come una pietra in una vetrata a Barcellona…), seguite dalla minaccia: “Lo Stato non scende a patti chi minaccia”. Ma chi vuole patteggiare con lo Stato? Intanto, se non ci fossero state  le mobilitazioni degli anarchici, di Cospito e della sua battaglia non si sarebbe parlato se non  in giornali e trasmissioni di nicchia.
Con un ribaltamento dialettico, adesso un governo che cerca di nascondere le proprie difficoltà, prova a criminalizzare le proteste e a mettere in secondo piano la vicenda che le ha generate.
D’altronde, dai 100 giorni della coalizione governativa arrivano continui segnali che ci dicono come sia il pugno di ferro il metodo scelto per affrontare le questioni di “ordine pubblico”: scioperi, occupazioni di case e scuole, cortei, sbarco di migranti e navi delle Ong; non a caso la Lega torna a riproporre i decreti sicurezza vecchia maniera, e il decreto “anti rave”, biglietto da visita del governo di destra-destra, è entrato a far parte del nostro quotidiano, con tutta la sua minacciosa valenza repressiva. In questa direzione va certamente lo spostamento dell’udienza sul 41 bis a Cospito al 20 aprile al 7 marzo, poi al 24 febbraio in seguito al ricorso dei legali: data scelta in spregio delle condizioni di salute del compagno, e che comporterebbe un prolungamento dello sciopero della fame fino a 130 giorni! Una scelta che non si può che definire omicida.
La linea dura pagherà? Potrà anche darsi, anche se Alfredo dovesse andare incontro a quel tragico destino che egli ha messo bene in conto quando ha deciso la sua protesta ad oltranza. Dato che è da escludere una sua resa incondizionata. Quella sua, infatti, non è un forma di lotta per impietosire le istituzioni e le anime buoniste della borghesia intellettuale, ma una forma di lotta decisa e precisa con la quale un anarchico affronta lo scontro politico con lo Stato, uno scontro che va anche oltre la situazione personale e pone problemi fondamentali come il ruolo e la natura del carcere, la tortura legalizzata che vi si applica, a prescindere dalle motivazioni delle condanne.
In tanti si sono attivati, hanno preso posizione, chiedendo quel trasferimento per motivi sanitari  che è stato attuato giorno 30 gennaio da Sassari ad Opera (Milano); persino un appello disperato al papa è venuto da Luigi Manconi, uno dei primi intellettuali a prendere posizione contro l’assurda assegnazione di Alfredo al 41 bis.
Non passano ore senza che qualcuno non si accorga che c’è un anarchico in prigione che da oltre 3 mesi non si nutre in segno di protesta contro una sentenza che dovrebbe far rabbrividire anche i più severi legislatori e magistrati: un’accusa di stragismo che non ha né capo né coda, fondata solo sulla volontà di annientamento di un individuo che non ha mai rinnegato le proprie scelte, ma che comunque – e questo è il fatto – non ha ucciso né ferito qualcuno con quel gesto dimostrativo compiuto ai danni del portone della scuola dei carabinieri di Cuneo, contro la quale ha scagliato un petardo di 300 grammi di polvere pirica. Ben altra cosa rispetto alle stragi che hanno colpito l’Italia, molte delle quali ancora senza colpevoli, pur avendoci consegnato, sia la storia che le indagini giudiziarie, mandanti ed esecutori come provenienti da quel bacino politico di cui il partito di maggioranza di questo governo è erede.
La nostra certezza è che la destra neofascista al governo voglia regolare i conti proprio con coloro che furono le prime vittime dello stragismo tricolore: gli anarchici; regolando così (in maniera vendicativa) i conti con il proprio passato.
Tanti mafiosi e tantissimi fascisti, razzisti, suprematisti, stupratori, ladroni di Stato, hanno ricevuto trattamenti di gran lunga migliori di Alfredo Cospito, e molti, anzi, circolano liberamente. L’arresto di Messina Denaro viene usato per giustificare il 41 bis e smorzare le proteste di questi giorni con una confusione mediaticamente ben architettata. Se non fosse che la mafia con lo Stato ci è andata molto spesso a braccetto, e 30 anni di latitanza, affari finanziari, presenza nell’economia reale non si fanno senza connubi, complicità, reciproco sostegno. Il pugno duro contro un anarchico (e contro gli altri e le altre compagn* detenut*, alcuni dei quali nelle stesse condizioni di Alfredo) è in tutta evidenza, frutto di una precisa decisione politica. E come tale va affrontato.
Cosa si aspettano con la linea dura? che Alfredo desista? Davvero improbabile dopo tre mesi e mezzo; Alfredo lo ha detto chiaramente che è meglio morire lottando che spegnersi lentamente sepolto in una cella.
Nè possono aspettarsi che si stia tutti a guardare che Alfredo muoia lentamente mentre le facce di bronzo del governo, le stesse che recitano la parte piagnucolosa durante la giornata della memoria, evitano accuratamente di entrare nel merito della questione (il 41 bis per un petardo dimostrativo), ma lanciano allarmi contro il pericolo anarchico. Cosa si aspettavano? Gli anarchici non lasceranno che questo omicidio di Stato si compia, o che si compia impunemente. Ovunque, in Italia,  in Europa e nel Mondo, le azioni del movimento e di tutti i solidali s’infittiranno.
Perché saremo una minoranza, e tra noi saremo anche divisi da diverse valutazioni sui metodi di azione da adottare o sulle modalità organizzative, ma quando uno di noi è in galera, e soprattutto sta affrontando con coerenza estrema uno scontro con il Potere, utilizzando l’unica arma che ancora gli rimane, che è il mettere in gioco il proprio corpo e la propria vita, noi anarchici ci coalizziamo e reagiamo. Lo abbiamo sempre fatto, è la nostra storia, e molte volte abbiamo anche smontato le montature di Stato e spento la boria totalitaria e fascista di chi detiene le redini del comando politico. 

Non lasceremo uccidere Alfredo Cospito, né dallo sciopero della fame né dal regime di tortura del 41 bis.

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No al 41 bis per Alfredo Cospito!

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SMANTELLARE LE FABBRICHE DI MORTE

Lukoil Priolo. Basta con l’aggressione coloniale

Il 1° e del 28 dicembre 2022, con due decreti-legge di dubbia costituzionalità ed incerta compatibilità con le norme europee – ma che il Parlamento a guida parafascista non mancherà di convertire -, il governo Meloni ha operato il salvataggio dell’ISAB di Priolo e delle altre fabbriche di morte del comprensorio Melilli-Priolo-Augusta, sottraendole alla chiusura e alla procedura di sequestro che la Magistratura siracusana, dopo oltre un decennio di denunce e tattiche dilatorie, aveva appena avviato. La soluzione trovata è quanto di peggio si potesse immaginare.
Il primo decreto, che è entrato in vigore il 6 dicembre scorso, all’indomani dell’applicazione dell’embargo europeo sugli idrocarburi russi, prevede infatti il commissariamento dello stabilimento da parte dello Stato che, per conto della russa “Lukoil”, dovrà per un biennio garantire gli stipendi ai dipendenti e tentare di mantenere accesi gli impianti. Nel far questo potrà avvalersi di una “società a controllo pubblico operante nel medesimo settore” (l’ENI). Il secondo decreto, non ancora pubblicato, solleva gli amministratori dalla responsabilità penale, consente la prosecuzione dell’attività – facendo prevalere su tutto il “riconoscimento dell’interesse strategico nazionale” – e impone (?!) al giudice non solo di consentire l’utilizzo dei beni sequestrati, senza entrare nel merito del sequestro, ma di trovare egli stesso la quadra attraverso “le prescrizioni necessarie” per un “bilanciamento tra le esigenze di continuità dell’attività produttiva e di salvaguardia dell’occupazione e la tutela della sicurezza sul luogo di lavoro, della salute e dell’ambiente”.
Alla mostruosità giuridica si accomuna l’ennesima beffa ambientale, considerato che l’ISAB di Priolo è una fabbrica-killer, responsabile da decenni della devastazione e dell’inquinamento da metalli pesanti di un largo tratto di costa e di mare siciliano, con innumerevoli morti sul lavoro e per malattie polmonari, tumori, malformazioni tra la popolazione locale, senza che tutt’oggi si sia mai provveduto – nonostante denunce, sentenze penali e centinaia di milioni di euro stanziati dallo Stato e dalla Comunità Europea – alla bonifica dei suoli e alla depurazione delle acque. In tale contesto, non sorprende il patetico tentativo effettuato dal governatore siciliano Schifani, esautorato “per incompetenza” dal governo nazionale, d’intestarsi addirittura la “soluzione” della vicenda!
Sembra ripetersi la storia degli stabilimenti ENI di Gela e FIAT di Termini Imerese dove l’intervento dello Stato e della Regione, col pretesto della difesa dell’occupazione, si è tradotto in un fallimentare tentativo di riconversione degli impianti e nella promessa di bonifiche mai realizzate, con miliardi di euro sprecati a favore di aziende insolventi, sequestri “congelati”, minacce di nuove devastazioni (termovalorizzatori, impianti per la produzione e il trattamento del gas naturale proveniente dal Nord Africa, ecc.), senza che l’occupazione e la qualità dell’ambiente ne abbiano tratto un reale beneficio. L’intervento odierno del governo Meloni impedisce di fatto la chiusura degli impianti di morte di Priolo, la depurazione delle acque del golfo di Augusta e la rinaturalizzazione integrale dei siti interessati – che sono di grande valore paesaggistico -, lasciando un futuro occupazionale precario e “assistito” per poche migliaia di addetti (i quali, anziché rimanere in attesa di nuove improbabili navi petroliere, potrebbero più utilmente essere impiegati nei lavori di bonifica già finanziati); delega inoltre alla maggiore azienda energivora italiana, l’ENI, responsabile tra l’altro del disastro gelese, il compito di trovare alternative farlocche allo stoccaggio di idrocarburi fossili e imbastire nuove speculazioni nocive per lo sviluppo locale.
Il governo nazionale e il governo regionale, come si sa, sono nelle mani di amici dell’ENI, dei fautori della rigassificazione, della termovalorizzazione e del nucleare d’ultima generazione, e da loro non ci si può attendere alcuna sensibilità nei confronti delle questioni ambientali in Sicilia. Di fronte a tanta protervia e alla connivenza della stampa e dei politicanti sottomessi ai poteri forti dell’economia nazionale, risulta insufficiente l’azione spiegata dai pochi gruppi locali che da anni si battono contro questi impianti di morte e la cui strategia, finora sempre perdente, si è basata sulla convinzione che si potesse affidare allo Stato e alla magistratura la risoluzione dei problemi vitali del territorio.
È ancor più “fuori luogo” oggi insistere su una riconversione industriale “soft” dell’area, con fabbriche di biocarburanti e impianti energetici (gas) meno invasivi, che però non risolvono, come è accaduto a Gela, il problema occupazionale (l’hanno anzi incancrenito impedendo altri sbocchi) né quello degli inquinanti, dato che restringono la prospettiva di una bonifica integrale dei suoli e delle acque (a Gela, in otto anni, con 800 milioni di euro a disposizione, l’ENI ha realizzato solo l’1% delle bonifiche “programmate”!) É difatti proprio l’aspetto di area degradata a fare di questi siti di “interesse nazionale” spazi disponibili per ulteriori future devastazioni, collegate ai nuovi gasdotti con l’Africa, alle navi metaniere, a impianti per il trattamento dei rifiuti ecc. Credere che lo Stato e i capitalisti da esso foraggiati vogliano rinunciare per le loro esigenze, i loro mercati, i loro interessi geostrategici alle opportunità che offre un territorio già avvelenato – sostituendovi altri siti intatti sempre più difficili da reperire e trasformare -, è pura illusione. Come lo è il pensare che megaimpianti centralizzati, che richiedono grandi aree, ingenti capitali e consumo di suoli, possano essere ricondotti al controllo e alla partecipazione delle comunità.
Noi crediamo invece, da sempre, che una lotta ambientalista in Sicilia non possa prescindere da un’opposizione frontale ai progetti governativi e del capitale di stravolgimento delle peculiarità naturali dei territori e di asservimento delle comunità locali, e in particolare quelli che comportano pericoli per la vita e la salute degli abitanti. Tutte le fabbriche di morte, gli impianti fortemente inquinanti, le basi militari, anche gli edifici dismessi già simbolo di morte e di guerra, i quali solitamente hanno devastato paesaggi e ambienti tra i più belli dell’Isola, che erano e potrebbero tornare ad essere la promessa per uno sviluppo autocentrato delle popolazioni, rispettoso dell’ambiente, con alternative economiche legate alla terra e al mare, devono diventare proprietà comune, aperta, accessibile a tutti. L’obiettivo ultimo della lotta non può essere che l’OCCUPAZIONE (popolare e permanente) delle aree, la loro IMMEDIATA BONIFICA, LA DISTRUZIONE E LO SMANTELLAMENTO degli impianti, in qualche specifico caso il loro riuso a servizio delle comunità locali, la RINATURALIZZAZIONE dei luoghi. Un diverso atteggiamento, di mediazione politica, di compromesso economico, di collusione interessata, ritarderebbe o vanificherebbero questo processo e riconsegnerebbe quegli stessi luoghi alla speculazione capitalistica e al militarismo, ammantati di “verde” (mimetico) e di finta sostenibilità.
Occorre approfittare delle opportunità che si offrono in questo periodo di sbandierata transizione ecologica ed energetica, di dismissioni industriali, di smagliature nel sistema economico per tentare di sperimentare lotte radicali e soluzioni alternative ai problemi annosi provocati dalla rapacità del blocco politico-affaristico-mafioso che ancora domina in Sicilia.

Natale Musarra

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