Contro la Russia contro la NATO

Guerra. Con i popoli che soffrono e che protestano

Sono anni, per non dire decenni, che poniamo al centro della nostra strategia di lotta la questione militarista. Dai tempi della guerra fredda, della grande mobilitazione contro la costruzione della base missilistica di Comiso, degli impegni contro i conflitti in Medio Oriente e nel Golfo Persico, nei Balcani, in Iraq, in Afghanistan, nei paesi africani e del Mediterraneo, contro la costruzione del MUOS in Sicilia, abbiamo tentato non solo di costruire fronti di opposizione che potessero realmente ostacolare o impedire i processi di militarizzazione e di guerra, ma anche di denunciare la vocazione bellica degli Stati, la centralità, nei loro interessi e nelle loro strategie, del militarismo. Per contro, ci siamo sforzati di sottoporre a tutte le forze di opposizione, ai movimenti ma anche alle popolazioni, l’importanza di un impegno antimilitarista e antibellico costante, strategico, non occasionale, non emozionale.
Purtroppo per tantissimi, gli stessi che in questi giorni riempiono le piazze e si riempiono la bocca delle parole “pace” e “no alla guerra”, per altro declinate ambiguamente, questi temi sono stati completamente ignorati, sottovalutati, relegati alle dichiarazioni di principio, e spesso neanche a quelle.
Si giunge, pertanto, a questa ennesima escalation militare, che vede al momento il teatro ucraino insanguinato dagli scontri, dai bombardamenti, dalle atrocità che ogni conflitto si trascina con sé, estremamente deboli, ancora una volta frastornati da un’informazione totalizzante, senza strategie adeguate di risposta che non un’emotività da quattro soldi da spendere in qualche sit-in caratterizzato dalla confusione, dal miscuglio tra soggettività sia umane che politiche incompatibili, a fianco di pacifisti filogovernativi, che nulla hanno mai detto e fatto contro il costante riarmo dell’Italia, contro l’incremento oltraggioso delle spese militari, contro i processi di potenziamento delle militarizzazione dei nostri territori, e che adesso invocano l’intervento della NATO per ripristinare la “pace”.
Questi ritardi, e le responsabilità di questi atteggiamenti di strafottente disinteresse, oggi non potranno che nuocere alla costruzione di una reale opposizione a questa e a tutte le guerre.
Il fallimento della diplomazia era scontato. Del resto la diplomazia condotta da Stati che si armano continuamente mentre mandano emissari a trattare la pace, è manifestazione di puro cinismo. E l’Europa negli ultimi anni è diventata un campo minato, sempre più armato, sempre più minaccioso, sempre più desideroso di diventare una nuova grande potenza dotata di un proprio esercito. Quale poteva essere l’esito di questa continua corsa agli armamenti? Se gli effetti immediati ne sono stati l’incremento delle povertà, i tagli ai servizi sociali, specie nelle società più deboli del Sud e dell’Est, e la feroce caccia ai migranti nelle diverse frontiere, di certo i signori della guerra non si potevano accontentare. Gli Stati europei, quasi tutti allineati nella NATO, al pari dei loro corrispettivi dell’Est, i filorussi alleati nell’OTSC (Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva), prima o poi dovevano aprire le danze macabre della guerra vera e propria.

E quanta pena fanno coloro che si mostrano allarmati perché una guerra esplode nel cuore della “vecchia” Europa. Come se non fosse stato cuore della vecchia Europa il teatro della Yugoslavia, quando, solo 21 anni fa, nel 1999, si scatenarono le secessioni e la NATO con l’Italia in testa (governo D’Alema) intervenne con migliaia di bombardamenti, che lasciarono morti e macerie, ferite ed odi etnici e un clima di guerra latente ancora oggi. Come se non sia guerra quella che Frontex, quindi l’UE, combatte giornalmente sulle coste mediterranee contro i migranti che tentato di sbarcare nel suolo europeo, o per procura, nei territori di frontiera di Turchia, Libia, Grecia, Marocco, organizzando la caccia, l’arresto, il rimpatrio e la segregazione nei lager di migliaia di esseri umani in fuga da altre guerre, da regimi dittatoriali, da condizioni sociali invivibili.
Come se non fosse guerra il continuo aumento delle spese militari (in Italia ormai sopra i 70 milioni di euro al giorno, grazie all’incremento di 1.352 milioni di euro rispetto al 2021), che sottraggono risorse alle più urgenti spese per la salute, l’istruzione, i trasporti, la sicurezza sul lavoro, l’occupazione, il degrado del Mezzogiorno: dovrebbero essere questi i “nemici” da combattere per migliorare le condizioni della popolazione. Ma l’orientamento dei governi è sempre più quello di puntare alla crescita del PIL basandosi sull’industria e il commercio degli armamenti, sul supporto militare alle compagnie petrolifere, veri centri decisionali delle politiche estere (si veda il ruolo dell’ENI), legando in un binomio indissolubile questione energetica e questione militare.
In realtà le alleanze militari esistono per perseguire la guerra come modo di fare politica con altri mezzi; e prima o poi la guerra la fanno, magari nascosta dal disinteresse perché svolta lontano migliaia di km, come nell’Africa Sub Sahariana o Orientale, e prima o poi scoppia anche nella “civilizzata” Europa. Una “civiltà”, quella europea, prodotta da crociate, guerre, genocidi, colonialismi, e questo DNA continua ad essere vivo negli Stati odierni.

La questione ucraina è solo una triste conferma di tutto ciò. I veri contendenti, Russia e USA, cercano entrambi ossigeno nella guerra. Putin per superare le difficoltà di una crisi economica fortissima foriera di proteste e malcontenti che il suo regime di polizia invano cerca di arginare; con i suoi stati satelliti-alleati in crisi di tenuta e in preda a forti movimenti di insubordinazione (Bielorussia 2020, Kazakhstan gennaio 2021) appena piegati dalla forte repressione statale; cerca di usare la guerra anche come arma di distrazione di massa, come vaccinazione nazionalistica della popolazione, anche se questo pare funzionare sempre meno. Tuttavia la politica di accerchiamento della NATO, che dalla caduta del muro do Berlino sconfina costantemente a Est, avendo inglobato quasi tutti gli stati dell’ex Patto di Varsavia, allo scopo di contenere una Russia in difficoltà e degradarla allo status di potenza regionale, ha fatto scattare una reazione opposta, i cui segnali sono stati la guerra in Georgia (Ossezia del sud e Abkhazia), l’annessione della Crimea, e il rilancio dell’esercito e degli armamenti.
Dall’altra parte, Biden alle prese con un forte calo di consensi, la magra figura rimediata con la fuga dall’Afghanistan e la riconsegna del paese ai talebani, cerca di risalire nei sondaggi alzando l’asticella dello scontro militare, aizzando il “nemico”, provocandolo, rafforzando una NATO data in agonia. L’Ucraina è stato il laboratorio di questa strategia: gli USA l’hanno armata, foraggiata di denaro (un miliardo di dollari nel solo mese di gennaio), guidata nelle politiche liberiste di privatizzazione e di derussizzazione, spingendola sempre più su un terreno scivoloso.
E’ sempre la solita guerra interimperialistica e intercapitalista per rafforzare il predominio economico e politico di ognuna delle parti, con un’Europa indecisa tra essere un cagnolino ubbidiente del padrone americano o un soggetto imperialista che mira a gestire i propri interessi nei territori orientali. Lo scontro sui gasdotti ne è conferma; dietro il gas che scorre nei nostri rubinetti passano le linee di una guerra che non potrà che acutizzarsi fino a quando esisterà la dipendenza dalle risorse energetiche di un qualche colosso militare mondiale.
I segnali di quanto sta accadendo c’erano tutti: all’intraprendenza russa ha fatto da contraltare il costante rafforzamento del fronte orientale della NATO con la massiccia presenza di basi, armi, eserciti in Romania, le manovre militari in Lettonia gestite dal quartier generale di Lago Patria (Napoli), secondo per importanza strategica in ambito NATO, con lo spostamento di truppe in Polonia, e di mezzi navali nel Mar Nero.

Il ruolo giocato dall’Italia, con i suoi ultimi governi e ministeri a guida PD e 5 Stelle, è stato ed è quantomai indicativo: l’Italia non può più essere considerata una semplice appendice della NATO, ma ha un proprio protagonismo militare, una propria strategia avventurista sia in Africa che nei paesi dell’Est. Le basi di Vicenza, Aviano e di tutta la Sicilia sono direttamente coinvolte e iperattive; è presente con truppe proprie in Lettonia (missione “Baltic Guardian” della NATO), in Romania con 4 caccia Typhon (missione “Air Black Storm”) che adesso stanno diventando 8 con i caccia intercettori Eurofighter 2000, in Mar Nero con la fregata FREMM “Morgattini”, il cacciamine “Viareggio” e la portaerei Cavour con i suoi F-35. Uno spiegamento autorizzato con uno stanziamento di 78 milioni di euro, che vede ancora lo spostamento di altre truppe (3.400 soldati) nell’area calda, e una stabilizzazione della presenza oltre che nell’Est Europa anche nel Sud-Est (Albania, Macedonia del Nord, Montenegro, Grecia, Turchia). Quella italiana è a tutti gli effetti una politica guerrafondaia responsabile dell’escalation che ha portato alla guerra; e le scelte di armare ulteriormente l’Ucraina fanno diventare il nostro paese, come gli altri dell’UE, attori non più indiretti di un conflitto che rischia di estendersi in maniera irreparabile. E non è un caso se da parte di Biden e Putin si cominci parlare di terza guerra mondiale o di attivazione del sistema nucleare. Al punto in cui siamo non ci dovremmo meravigliare più di nulla.
Intanto a far le spese di questa politica è la popolazione, su cui si sono scaricati i costi dell’avventurismo militarista tricolore, mentre è ancora piegata dalla crisi economica e dalle restrizioni legate alla pandemia. L’ultima conseguenza di queste scelte è rappresentata dall’aumento dei prezzi dell’energia e dei beni di prima necessità, cui si cerca di far fronte – guarda un po’ – con il ritorno delle centrali a carbone (alla faccia della riconversione verde) e l’acquisto del molto più caro gas liquefatto degli USA (uno degli obiettivi del Pentagono) al posto di quello russo.
Ma non va sottovalutata, anzi va additata come l’ennesimo atto di un regime democratico basato sulla repressione, la proclamazione dello stato d’emergenza per tutto l’anno a causa della guerra. Un atto che la dice lunga sulla via intrapresa dal potere tricolore draghino basato sul consenso unanime di partiti e padroni e sull’emergenzialismo come modalità di gestione del paese bypassando e calpestando i diritti più elementari.

E’ chiaro come la luce del sole quanto non importino a nessuno tra Russia, USA, UE, gli interessi del popolo ucraino; più si riempiono la bocca di falso pietismo, più emerge il tornacontismo economico ed egemonico di questa sporchissima operazione. Il popolo ucraino era già afflitto da povertà, emigrazione massiccia, bassi salari, inflazione, sanità decadente, 8 anni di guerra fratricida nel Donbass, corruzione e violenza; subiva le conseguenze della cura liberista che rafforzava le oligarchie e la finanza occidentale: ma nessuno si agitava per aiutarlo, nessuno stanziava somme per alleviarne le ferite. Agitazione e stanziamenti riguardavano solo il riarmo e la forza muscolare da mostrare ai tavoli diplomatici, ciò che ha poi trascinato l’Ucraina in guerra.
Ora si varano sanzioni che Putin è pronto a scaricare sul popolo russo additandone le colpe ai nemici e provocando nuove alleanze strategiche (vedi Cina): nulla di nuovo sotto il sole, la storia non fa che ripetersi. Sanzioni che, peraltro, come in Italia, stanno avendo ripercussioni sul caro vita secondo un effetto boomerang del tutto prevedibile (mancanza di farina e gas, crisi del turismo, ecc.), di cui ne fa le spese la popolazione.
Le guerre le pagano sempre i popoli, ma le decidono sempre uomini di Stato e generali che né le fanno né le soffrono. Per questo gli Stati sono la vera minaccia per la pace e per i popoli. Per questo gli eserciti e le guerre vanno boicottati, e questo va fatto sempre, anche e soprattutto quando non fischia il suono delle sirene e non si odono i botti delle bombe. Per questo le industrie di armamenti, le fabbriche di morte vanno immediatamente chiuse e riconvertite in impianti utili alle esigenze dei territori e dei popoli. L’autodeterminazione di un popolo non è mai scaturita da una guerra, ma solo dalla propria capacità di ribellarsi, di insorgere e di mettere in piedi un moto rivoluzionario di liberazione.
Noi ribadiamo la piena solidarietà ai popoli e ci sentiamo vicini a quello ucraino schiacciato da un conflitto interimperialistico, e a tutte le popolazioni che protestano e che vengono represse; ma non agli Stati, non alla Russia, non alla NATO e neanche allo Stato ucraino. Le guerre le possono fermare solo le popolazioni imponendo lo smantellamento degli armamenti e sottraendo ai governi la possibilità di decidere sui loro destini.
Per quanto ci riguarda, la lotta alla guerra continueremo a farla dove viviamo, contro le strutture militari che ci vengono imposte da decenni. Se ognuno farà la propria parte il Mondo, sarà più al sicuro.

 

 

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