La rivoluzione climatica

Ambiente. La crisi è figlia del sistema capitalista

Sul web gira un meme che cita una scena del film I Simpson, in cui uno sconsolato Bart sbuffa “questa è l’estate più calda della mia vita” e un sardonico Homer commenta “questa è l’estate più fresca del resto della tua vita”. È un efficace modo per sintetizzare l’irreversibilità della crisi climatica in atto, che quest’anno si è fatta sentire fin da maggio, con temperature pazzesche che già sfioravano i 40 gradi. Gli effetti li abbiamo visti immediatamente: terreni già secchi a giugno, incendi sparsi, desertificazione al Sud e siccità al Nord. I giornali si sono concentrati sulla scomparsa di ampi tratti del Po, mentre quando a prosciugarsi erano e sono i nostri fiumi le grandi testate non hanno scritto nulla. Non è una sollevazione meridionalista, o meglio non solo, nel senso che il racconto della crisi climatica è un racconto della crisi del cuore produttivo del Paese, di aziende che non ce la fanno più e di Comuni che, incredibile, sono costretti a razionare l’acqua che sgorga dai rubinetti. Come se questa non fosse la realtà quotidiana delle estati siciliane da almeno 30 anni a questa parte. Ma è proprio questa narrazione a essere tossica: il cuore del problema, secondo i media e le istituzioni, è che la crisi climatica comporta problemi e rinunce al nostro modo di vivere, in cui la sfera del “nostro” è antropocentrica, occidentale, nordista. In una parola capitalistica. Ogni estate i toni dei media e delle istituzioni si fanno più preoccupati, per poi riprendere a esaltare, come se niente fosse successo, le multinazionali del fossile e della plastica, gli apparati militari, l’ultima innovazione tecnologica che ci salverà e che poi puntualmente fallisce. Al sistema capitalistico, che ha creato un aumento delle temperature di 1,2 gradi dai tempi dell’era industriale di metà Ottocento, si chiede di risolvere il problema che non solo egli stesso ha creato ma che è insito in se stesso. Questo modello di sviluppo è autodistruttivo e predatorio dal punto di vista ambientale, e a nulla servono i tentativi riformistici di migliorarlo, di cambiarlo. Il caso più emblematico in questo senso è quello relativo alle emissioni di gas serra. Dal protocollo di Kyoto del 1997 gli Stati hanno stabilito che una delle priorità è la diminuzione della produzione di anidride carbonica. Ebbene dal 2008 a oggi le emissioni globali di CO2, cioè il principale gas responsabile del riscaldamento globale, sono aumentate del 12%. E questo nonostante le annuali COP, le conferenze mondiali sul clima su cui ogni anno la galassia ambientalista concentra le proprie attenzioni, finiscano con gran fanfare di annunci e impegni. Per dire della credibilità di questi convegni, la prossima COP si terrà a novembre in Egitto, dove a uno Stato autoritario si accompagna la presenza del più grande giacimento del gas del Mediterraneo, in cui ovviamente si è infilata la nostra Eni. L’altra parolina magica è “decarbonizzazione”, o ancora “neutralità climatica”: in pratica Stati e aziende non intendono smettere di produrre – solo così non si emette CO2 – ma promettono di compensare in modo tale che a un tot di emissioni corrispondano un tot di emissioni sottratte all’atmosfera. Il modo più classico e più facile, ma anche il più ingannevole, è la piantumazione di alberi. È un esercizio che ho visto applicare persino alle scorse elezioni comunali, da parte di candidati e candidate che si facevano fotografare sorridenti mentre maneggiavano fusti coi quali, evidentemente, non avevano dimestichezza e poi scrivevano sui social che così avevano compensato le emissioni della campagna elettorale. Peccato che quegli alberi ci metteranno anni prima di essere in grado di assorbire anidride carbonica, e dobbiamo dare per buona l’ipotesi che gli stessi candidati e candidate saranno lì anche in questi mesi di caldo estremo a fornire agli alberi la giusta dose quotidiana di acqua. Solo che al pianeta di tutti questi trucchetti meschini e di equilibrismi puerili non frega nulla. Col risultato che il caldo di questi mesi è solo l’anticipo di ciò che è già realtà. “Dobbiamo adattarci a situazioni di questo tipo, perché è lo scenario dei prossimi decenni” ha detto Antonello Pasini, fisico climatologo del Cnr. O, per dirla con uno slogan, il clima non sta cambiando, il clima è già cambiato. Allora serve aggredire le cause di questi cambiamenti. A partire dal modello estrattivista, perpetuato nel Novecento dalle fonti fossili e che le energie rinnovabili si apprestano pericolosamente a riprodurre, con la sola differenza che durante la produzione di energia non emettono anidride carbonica – e in compenso replicano l’estrazione di profitto da territori e persone. E proseguendo, ad esempio, con la questione delle perdite d’acqua: se è vero che in Italia oltre il 40% dell’acqua si disperde a causa di una rete idrica che è un vero colabrodo, l’unica strada percorribile non può essere quella dell’efficienza. Perché anche in questo caso il problema sta, è proprio il caso di dirlo, a monte, cioè nell’idea che ogni risorsa naturale vada consumata e sfruttata. Nell’era dei dati abbiamo la pretesa di calcolare l’impatto ambientale di qualunque nostro gesto, chiediamo la diminuzione dell’impronta carbonica di aziende e servizi, ribadiamo che la lotta ambientale è strettamente correlata alle questioni sociali. Da una parte i nuovi movimenti ambientali sono consapevoli che la tutela del pianeta significa la lotta al capitalismo, dall’altra non riusciamo ancora a far convergere su quest’asse i malumori per il caldo sfiancante, l’indignazione per il premier Draghi che chiede se vogliamo la pace o il condizionatore, le proteste di chi è rimasto senza acqua, il dolore di chi ha visto andare in fumo la propria terra. Per questi motivi da tempo preferisco parlare di crisi climatica e non di cambiamento climatico, come fanno in tanti e tante, o di climate change (ancora peggio). Perché l’aumento delle temperature è il sintomo di ciò che serve rovesciare. Sono le crisi di sistema, di solito, a portare alle rivolte. Altro che transizione ecologica, quel che ci vuole è una rivoluzione climatica.

Andrea Turco

 

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