Permanente

Non abbiamo mai creduto che la guerra fosse da considerare un’eccezione nell’attuale sistema capitalistico e nelle sue diverse declinazioni: liberista, statalista, socialista, ecc. La nostra posizione è stata da sempre chiara e univoca: capitalismo e guerra sono un’unica cosa; la guerra non è uno strumento che il capitale usa quando ne ha bisogno, ovvero, come ripetono le varie scuole marxiste, quando deve superare le proprie crisi. Per cui vi sarebbe una “tendenza” alla guerra, che verrebbe fuori in determinati momenti storici, in congiunture economiche particolari, ed in altre invece no.
Anche perché il capitalismo le sue guerre le fa in tante maniere, e ciò gli permette di spacciare come pace l’assenza di guerra in un luogo, solo perché la caccia alle risorse, il procacciamento di parte dei propri profitti, le porcherie contro gli umani e l’ambiente attraverso la forza bruta delle armi da esso stesso prodotte, commerciate e usate, vengono fatti in altri luoghi.

Il capitalismo è guerra. Ma le guerre precedono il capitalismo stesso come modalità di governo delle controversie fra territori e fra entità che vi esercitano il potere. Sono connaturate con l’esercizio del potere, con le varie forme statuali che si sono sviluppate nel Mondo, tutte in qualche modo partorite da quei processi di organizzazione gerarchica delle società scaturite dall’affermarsi del patriarcato e dell’egemonia religiosa.
Ne consegue che è la miscela tra stato e capitalismo a produrre guerra e sfruttamento, ad innalzarne il livello e la pericolosità, e a rappresentare il vero nemico di chi è nemico del militarismo.
Purtroppo, una visione parziale dei problemi sociali porta a disperdere le energie di tantissime realtà politico-associative, indebolisce un fronte potenzialmente ampio e forte, costruisce narrazioni separate, incomplete, monche, insufficienti a farsi un’idea generale e completa della questione sociale. E diviene oggettivamente complice del sistema che sull’ideologia delle gabbie sociali costruisce in parte il proprio dominio.
Rompere le gabbie vuol dire costruire contaminazioni fra le varie situazioni; qualcuno le chiama intersezionalità; vuol dire cercare strategie comuni, collanti strategici. E l’antimilitarismo è sicuramente il principale fra questi, perché va al cuore del dominio statale e capitalistico.
Il conflitto in Ucraina ha già superato la sua fase emotiva, quella che ha portato in piazza milioni di persone; ce ne siamo occupati su questo giornale, scrivendo di bandiere della pace recuperate dai bauli e dalla naftalina, che presto sarebbero tornate debitamente ripiegate, a dimorarvi. Ce lo raccontano le piazze tornate mezze vuote, e le cronache dal fronte inabissatesi nella routine.
Lo scorso numero abbiamo aperto con un titolo che voleva sottolineare tutto ciò: La banalità della guerra. Perché la guerra è banale, eccetto per chi la subisce direttamente e drammaticamente. Ma in un mondo interconnesso e globalizzato la sua banalizzazione è necessaria per bloccare ogni interferenza, ogni opposizione.
La china intrapresa dagli eventi è ormai evidente: la Russia cerca di consolidare le sue conquiste territoriali a suon di bombardamenti e stragi; la NATO è decisa a continuare “fino alla vittoria”; la guerra potrebbe continuare all’infinito. L’Alleanza Atlantica si estende in paesi già suoi partner, come Finlandia e Svezia, rilancia il fronte Est e Baltico, rafforza il fronte Sud (la Sicilia in primo luogo). Si fabbricano altre armi, si inviano armamenti e soldati nei paesi limitrofi e si gonfia di ordigni e strumenti militari l’esercito ucraino. Le industrie di morte non sono mai state così in salute. All’orizzonte si prospetta uno scontro mondiale con la Cina, non più negato dal ”fronte occidentale” guidato dagli USA. E’ un presente di guerra; sarà un futuro di guerra. Tutte le crisi prodotte dal sistema capitalistico: climatica, alimentare, idrica, energetica, saranno gestite (lo sono già) in termini bellici. Saranno tutte “giuste cause” in cui ci chiederanno di arruolarci.

40 milioni di curdi, lo stesso numero degli ucraini, vengono intanto sacrificati alla ragion di Stato della NATO e ricacciati sotto i bombardamenti, gli attacchi, le carceri e le torture del regime di Erdogan. Quei porci vestiti a festa che hanno partecipato al vertice NATO di Madrid hanno definito questo “il male minore”. Lo sterminio del popolo curdo; la distruzione delle città e dei villaggi, l’occupazione militare del Rojava e la distruzione dell’esperienza del confederassimo democratico, sono state deliberate da questo manipolo di delinquenti in divisa o in doppiopetto, Draghi e Di Maio fra essi, dimostrando ancora una volta il volto cinico e sterminatore dei governi.

Occorre rendere evidente a più gente possibile questa politica predatoria e guerrafondaia. Occorre intensificare l’opposizione antimilitarista, sia rafforzando i movimenti “antichi” e quelli nuovi che attualmente rappresentano, con le loro lotte, le varie punte di diamante dell’opposizione alla guerra: in Sicilia (NO MUOS ed altri), in Sardegna (A Foras, contro RWM ed altri), in Toscana (No Base né a Coltano né altrove), in Friuli (Aviano), a Torino (contro Aerospace), e in altri luoghi. Occorre premere per un coinvolgimento totale dei movimenti ambientalisti nelle battaglie contro la guerra, e dei sindacati di base che già hanno dimostrato di poter uscire dalle logiche settarie. Occorre anche dedicarsi alla propaganda nelle piazze, nei quartieri, nelle università e nelle scuole, luoghi dove si attuano progetti di appiattimento culturale o di coinvolgimento diretto in progetti militari e dove si subiscono le ricadute economiche e politiche delle spese militari e dell’emergenzialismo continuo. Occorre mettere in conto che anche il gesto di una minoranza, o addirittura individuale, contro la macchina militarista, può avere un senso se attuato con motivazioni chiare e in connessione con l’opposizione generale.

Pippo Gurrieri

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