DISERTIAMO LA GUERRA

Russia-NATO. Con i dissidenti russi e ucraini

Inutile girarci intorno: si vis pacem para bellum. Lo avevano detto i latini, lo ha rideclinato von Clausewitz ai primi dell’Ottocento – La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi-, lo praticano senza tentennamenti gli Stati. La guerra in Ucraina (e le sue consimili altrove) è frutto di questa logica; una logica che nella novecentesca rivoluzione tecnologica alla volontà di dominio delle potenze ha aggiunto gli interessi economici del complesso militare industriale, sommando aberrazione ad aberrazione. Fino a quella estrema che nelle ultime settimane ha fatto paventare il ricorso all’arma nucleare, nefandezza massima che ha riscosso le coscienze di tanti e rinfocolato le proteste contro la guerra. Bene, finalmente una presa di posizione più aperta per farla finita con questa guerra, e nelle prossime settimane si capirà se queste mobilitazioni – che hanno avuto un primo sussulto nelle giornate dal 21 al 23 ottobre scorso con una serie di iniziative in molte città nell’ambito dell’appello lanciato da Europe for peace e avranno un altro passaggio importante con la manifestazione convocata a Roma il 5 novembre da svariate organizzazioni, tra le prime Rete italiana pace e disarmo e Sbilanciamoci- riusciranno a trovare parole, spazi, azioni per ribaltare quantomeno una narrazione che vede nella guerra una scelta necessaria e inevitabile; anzi prospetta un futuro in cui la guerra stessa deve farsi cultura e gli armamenti diventare l’unico strumento di difesa (e di attacco). Tuttavia, se questa opposizione alla guerra che sta emergendo vorrà dare vita ad un vero movimento per la pace, sarà utile sgombrare il campo da alcune ambiguità che già si addensano. 

Innanzi tutto la questione dell’invio di armi: il suo rifiuto deve essere netto. Non si può pensare di promuovere la pace e nel frattempo sostenere che si può ottenerla con le armi e con gli eserciti. Le logiche militari sono quelle degli Stati che lottano per piccole o grandi egemonie, non per liberare i popoli. Dopo le decine di migliaia di vittime e la distruzione di interi territori, non ci dovrebbero essere dubbi sul fatto che altre scelte avrebbero almeno risparmiato morti e orrori, ma non può essere solo questo o la minaccia di una guerra nucleare a far prendere le distanze dalla guerra.
Seconda questione, senza volere entrare nel merito delle relazioni tra Stati e blocchi – cosa probabilmente di non molto interesse per le aspirazioni delle popolazioni- un rapido sguardo alle dinamiche che hanno condotto all’attuale guerra non è inutile. La crisi protrattasi per parecchi anni piuttosto che aprire possibilità di dialogo si è incanalata in contrapposizioni sempre più profonde in cui ciascuna parte provvedeva a rappresentare l’altra come nemico irriducibile. Quante volte governi e diplomazie hanno avuto la possibilità di interrompere la spirale e non l’hanno fatto? Perché non c’è mai stato un serio tentativo di coinvolgere realmente le popolazioni interessate, al di fuori delle logiche nazionali e identitarie? Invece dalla nostra parte, quella della civiltà occidentale, le cui sorti sono state interamente delegate alla Nato, da anni si sono costruiti scenari di scontri armati prossimi venturi che la propaganda di guerra ha enfatizzato con le immagini delle esercitazioni militari nei cieli e sui mari in ogni dove nel mondo. E lo stesso sarà avvenuto dall’altra parte. Infatti, se vuoi la pace prepara la guerra!
Terza questione, questa guerra, che evidentemente non è una delle tante guerre neocoloniali ma mima già uno scontro tra potenze – Russia e Usa e, sullo sfondo, Cina – ha riacutizzato le contrapposizioni tra blocchi egemonici, ha avviato una nuova corsa agli armamenti, prefigura un mondo in cui saranno ancor più la forza e la deterrenza a definire le relazioni internazionali, decretando la fine di una parvenza di diplomazia per la pace, rappresentata fino ad oggi miseramente dall’Onu, e il ritorno ad una diplomazia primo novecentesca. In questo scenario così devastante non ci può essere spazio all’interno di un movimento per la pace per chi pretende – persona o rappresentante istituzionale – di agognare la fine delle ostilità e nel frattempo si adopera per promuovere eserciti ed armamenti, per incensare generali e forze armate, per rafforzare la divisione nemico-amico. Nessun tentennamento e nessuna ambiguità: il rifiuto delle armi, degli eserciti, del sistema egemonico e competitivo deve essere radicale e inequivocabile.
Quarto, è urgente, come scriveva Danilo Dolci, rompere il cerchio: inventare, trovare quel grimaldello che ci porti fuori dalla spirale di guerra, che disinneschi i meccanismi di contrapposizione, le faide col nemico. Invertire la tendenza: all’aggressione, alla violenza una volta tanto non rispondere con la violenza, con la forza, ma percorrere altre vie, immaginare altre soluzioni. Nel suo fondamentale La conta dei salvati Anna Bravo intitola due capitoli in questo modo: Senza armi contro Hitler: in Italia e Senza armi contro Hitler: in Danimarca.
Invece oggi, nella guerra probabilmente più raccontata dai media, si enfatizza l’uso delle armi, si esaltano i valori patriottici, gli eroismi e i sacrifici di chi combatte o subisce le armi come destino ineluttabile. Così l’orrore perpetrato chiede vendetta, preparando altri lutti e altre disgrazie.
L’auspicio è naturalmente che il 5 novembre vi sia una grande manifestazione che finalmente faccia sentire una voce per la pace e si pronunci per interrompere il frastuono delle armi che sibilano dai nostri teleschermi e dalle pagine dei giornali. In questo momento che vede il mondo intero indirizzarsi verso guerre sempre più pervasive, che durano già da più decenni, occorre che ciascuno, come sostiene Alex Zanotelli, faccia la sua parte e non si tiri indietro. Tuttavia, se un auspicabile movimento per la pace, non vuole trovarsi ostaggio di Stati e governi intrinsecamente propensi alla guerra, deve pronunciarsi apertamente contro eserciti, armi e diplomazie istituzionali. In caso contrario, ciascuno avrà pure appagato la propria coscienza umanitaria, ma il mondo continuerà ad andare a rotta di collo verso possibili autodistruzioni.    

Angelo Barberi

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