Il fascino discreto della Cop27

Ambiente. Il rituale degli Stati che uccide la Terra

Di buono c’è che è finita. Parlo della Cop27, l’annuale conferenza sul clima organizzata dalle Nazioni Unite che quest’anno si è tenuta a Sharm el-Sheik dal 6 al 18 novembre. Vi hanno partecipato 194 Paesi – mancavano tre Stati mica da ridere, mi riferisco a Russia, Cina e India che da soli producono oltre il 43% delle emissioni globali di anidride carbonica – ed è stata l’occasione per l’Egitto, Paese organizzatore, per rafforzare il proprio ruolo come fornitore energetico, in special modo di gas, soprattutto grazie al mega-giacimento di Zohr in cui, e ti pareva, è infilata anche Eni. Potrei chiudere qui il pezzo, perché davvero ciò che è uscito fuori da due settimane di dibattiti estenuanti e coperture giornalistiche enormi è poca roba, solo la riproposizione stanca e monotona dell’insostenibilità del capitalismo.
A me le Cop ricordano le elezioni, il momento in cui sembra che tutto debba accadere, su cui i riformisti e le riformiste concentrano le speranze, il momento dal quale si attendono decisioni epiche, che puntualmente finisce con delusioni e critiche per poi, l’anno successivo, ricascare allo stesso gioco. Ma perché concentrarsi su un appuntamento così vacuo e dispendioso, capace di far girare come fossero una trottola in giro per il mondo tra i 30 e i 40mila funzionari ogni anno, perché ritrovarci a criticare le contraddizioni dei leader che intendono salvare il mondo e poi si recano agli appuntamenti col jet privato, perché stupirsi della presenza massiccia dei lobbysti delle fonti fossili, perché stare lì a esaminare la validità e la plausibilità degli annunci, perché recitare la litania dei report delle ong e delle associazioni internazionali che ogni anno ci confermano quanto stiamo distruggendo il mondo? Anzi, più che alle elezioni, il simulacro della democrazia, le Cop somigliano a una liturgia a cui si partecipa anche se perfino il prete è senza fede. Tanto per fare un esempio, che copio dal professore Marco Grasso dell’università Bicocca di Milano, “gli Stati Uniti mandano 200 negoziatori, il Mali ne può mandare solo uno”. Da tali disparità, segno concreto dei rapporti di forza, come si può sperare di ottenere qualcosa che non sia un compromesso che insoddisferà chiunque? Sono 30 anni, dal summit di Rio del 1992, che i capi di stati e governi si incontrano e discutono dell’importanza di combattere la crisi climatica, il riscaldamento globale, i cambiamenti climatici, the climate change. Parole diverse per indicare lo stesso perverso processo di autodistruzione dell’essere umano che, nel nome del profitto, sta distruggendo il pianeta dove vive. Pongono ogni anno, dicono, “obiettivi sfidanti” perché hanno compreso l’entità della sfida in gioco. Eppure dal 1992 a oggi, nonostante o forse proprio grazie alle Cop, le emissioni globali di gas serra sono raddoppiate.
Tutti e tutte sappiamo che una delle cause dei malanni della terra è l’uso intensivo dei combustibili fossili: le istituzioni dichiarano di saperlo da almeno 30 anni, le multinazionali energetiche lo sanno (almeno) da 50 anni, come hanno appurato alcuni recenti documenti interni che nel 1972 avevano persino calcolato con precisione l’attuale livello di emissioni di anidride carbonica. E i potenti del mondo ogni anno inscenano lo stesso teatrino, che somiglia al capolavoro di Bunuel “Il fascino discreto della borghesia”, con una classe sociale capace solo di ripetere stancamente una triste formalità mentre fuori incombe la morte. Alla Cop27, giusto per rendere il livello di ipocrisia, si arrivava con una crisi energetica che ha spinto l’Europa a ripristinare in fretta e furia l’uso del carbone, il più inquinante delle fonti fossili, mentre si tenta di sostituire il gas di quella cattivona della Russia con altrettanto gas fornito a peso d’oro da parte di gentiluomini come gli emiri del Qatar o i militari dell’Algeria. Quel che più mi fa arrabbiare è l’adesione acritica al modello della Cop da parte dei movimenti e delle associazioni ambientaliste. Che sì, criticano gli aspetti più palesemente contraddittori ma in fondo ne accettano l’esistenza, ne discutono, si appassionano, lanciano analisi, danno pagelle. Chi è riuscito a recarsi in Egitto ne ha dato una copertura totale, raccontando scenari e retroscena, sintetizzando i singoli incontri, dando pareri che sono sembrati più tentativi di accreditarsi come esperto o esperta, approfittando della conferenza per posizionarsi a livello individuale, con lo scopo, neppure troppo mascherato, di diventare un influencer del clima. Esserci per autonararrarsi, insomma.
In fondo le Cop sono la riproposizione in chiave climatica della delega agli stati: prendeteli voi gli impegni politici, noi saremo l’opinione pubblica che vi pungolerà con i nostri punti di vista brillanti e i nostri bollettini tutti uguali. Le Cop vanno contestate e invece, parlando dei nuovi annunci e delle vecchie promesse come se fossero credibili, vengono legittimate. Come sostengo da tempo, l’ambiente non è un pranzo di gala e, se è meritoria la capacità del nuovo ambientalismo di saper dare una lettura complessa e globale dei fenomeni, va riconosciuto che per affrontare le questioni climatiche servono nuovi conflitti, nuove contrapposizioni, nuove solidarietà internazionali e intersezionali. Sappiamo già che la prossima Cop, la numero 28, si terrà a Dubai, negli Emirati Arabi, e sarà la riproposizione di quella egiziana. Parleremo anche in questo caso dei diritti umani negati, protesteremo contro quei cattivoni degli sceicchi che ci impediscono di andarli a contestare (eppure stiamo chiedendo il permesso, accettiamo qualsiasi visto e qualsiasi controllo), ci sorprenderemo che il fondo Loss e Damage, vale a dire il risarcimento delle perdite e dei danni prodotti dai cambiamenti climatici nei paesi poveri che è stato previsto dalla Cop27 e che dovrebbe essere garantito dagli stati ricchi, sarà rimasto lettera morta, indicheremo ancora una volta le connivenze tra stati e aziende. Facciamo che la Cop28 ci sia già stata, immaginiamo sin da ora un’alternativa conflittuale. 

Andrea Turco

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