La Trappola

Elezioni: Se servissero a cambiare sarebbero vietate

Nel 50° anniversario del “mitico” ’68, in quest’anno di rievocazioni, celebrazioni e autocelebrazioni, pochi si soffermeranno su uno degli slogans che caratterizzarono il maggio francese e da Parigi si espansero in tutto il mondo: Elections: pièges à con, che si traduce in: Elezioni, trappola per fessi. Certamente non si doveva aspettare il ’68 per definire una trappola le elezioni, il dibattito sulla democrazia rappresentativa e l’astensionismo elettorale essendo nato praticamente con il primo appuntamento elettorale della storia. Ma sicuramente il ’68, tra le tante belle cose evidenziate, (dall’Immaginazione al potere al Vietato vietare), ha sviluppato una critica al sistema parlamentare chiara e senza esitazione alcuna. Da quel movimento proviene infatti il rilancio di una frase che non lascia dubbi: Se le elezioni servissero a qualcosa le avrebbero già proibite. La disse per prima l’anarchica Emma Goldman nel dibattito sul voto alle donne.

Il 4 marzo si voterà in Italia per eleggere il nuovo Senato e la nuova Camera e quindi il nuovo governo. Molti elettori sono ormai degli ex elettori, avendo rifiutato in massa di sottoporsi alla tosatura periodica; molto si è detto sulle motivazioni di questo rifiuto, e noi stessi, astensionisti per principio prima ancora che per tattica, abbiamo sempre specificato come la sola astensione non basti, e che la delega al potere e al sistema oramai passi attraverso tanti altri canali, e non viene meno se una metà dell’elettorato diserta le urne. Ma abbiamo anche scritto che non concedere il proprio consenso ai partiti il giorno delle elezioni rappresenta comunque un dato di fatto importante, una presa di distanza e un rifiuto del meccanismo truffaldino del voto, anche se tutto ciò si svolge nel silenzio di una scelta individuale e nella passività generale indotta da anni e anni di delega delle soluzioni dei propri problemi ad altri: politici, poliziotti, preti, padroni, boss e così via.

E che l’astensione rappresenti un fattore che mette in discussione la macchina del consenso ce lo dimostra l’enfasi con cui da tutte le parti si cerchi di presentarla come una minaccia alla democrazia; dal Presidente della Repubblica alla Conferenza Episcopale Italiana, dal Movimento 5 Stelle, che si vanta di averla arginata, ai gruppi politici più forti e anche quelli più scalcagnati, tutti enfatizzano il rischio astensione e si buttano a caccia del voto di chi non vota, un bacino enorme di persone, oramai prossimo al 50% degli aventi diritto. Governare con poco consenso, al di là delle formule matematiche falsificate per cui si calcolano le percentuali dei voti sul numero dei votanti, o che il nuovo presidente sarà sempre “il presidente di tutti gli italiani”, è come stare seduto su una sedia traballante, con la paura che le sue gambe possano spezzarsi da un momento all’altro.

Una analisi un pochino decente sul sistema rappresentativo ci mostra come sono sempre sparute minoranze a governare, e, anche nelle fila dell’opposizione, il concetto di rappresentanza non può essere disgiunto dal meccanismo che rende autonomo dai suoi elettori ogni eletto, gli concede la facoltà di cambiare casacca politica, gli concede l’immunità e non permette a chi lo ha delegato di ritirare la sua delega in caso di dissenso dal suo comportamento, se non alle successive elezioni.

Tutto questa argomentazione, che, ripetiamo, è stata oggetto di animati dibattiti sin dall’Ottocento, oggi va inserita nel quadro della realtà globalizzata e finanziarizzata, in cui un sistema capitalista sempre più presente e condizionante nella sfera sociale e individuale, ma nello stesso tempo dalla testa difficilmente individuabile, di fatto determina le scelte dei governi, meri esecutori di ordini. Tutto ciò riduce la ritualità del voto a qualcosa di estremamente inutile, se non a mantenere in piedi una farsa di democrazia in cui la rappresentanza da tempo non esiste, ma vi sono solo organi di gestione delle regole e delle decisioni che il sistema impone; il governo, i ministeri, le camere, sono solo questo. E gli eletti, i deputati e senatori, a loro volta svolgono il ruolo di procacciatori di consenso spicciolo attraverso la coltivazione di interessi particolari, sfruttando residuali margini di manovra necessari a far funzionare la macchina della delega e del consenso e ad assicurare quote di privilegio.

Appare quantomeno illusoria la pretesa di gruppi politici autodefinitisi “radicali” e “rivoluzionari”, di promuovere una rappresentanza altra o addirittura un’autorappresentanza, partecipando a questa farsa. Essi non si rendono conto di alimentare, in questo modo, una fiducia nel sistema e nelle istituzioni, che, nei fatti, è venuta meno lentamente ma inesorabilmente, sulla quale occorre semmai agire per farla diventare atteggiamento di contrapposizione, fiducia nella lotta, nella partecipazione in prima persona alla gestione della propria vita e dei propri problemi.

Partecipazione: l’altro termine su cui vige una grande ambiguità; per i partiti istituzionali essa si configura solo e solamente con l’apposizione della crocetta sulla scheda elettorale, e chi se ne sottrae viene accusato di qualunquismo e di perpetuare il malgoverno (ovviamente ognuno di questi accusatori pensa al malgoverno dei suoi avversari). Anche chi si definisce antisistema, ribelle e antagonista, non si rende conto di promuovere una falsa partecipazione, ben diversa da quella che nelle lotte sociali, nei movimenti, si riesce faticosamente a far crescere.

Non ci sono state conquiste, vittorie, passi avanti, scaturiti da un intervento parlamentare; solo dalle battaglie, dalle mobilitazioni dal basso sono venuti risultati che poi il parlamento e le istituzioni, dopo mille sforzi per impedirli, sono stati costretti a ratificare, per poi lentamente svuotarli di contenuto fino ad abolirli. Di esempi ne potremmo fare a bizzeffe, dallo statuto dei lavoratori, alla legge sull’aborto, ma confidiamo nell’intelligenza di chi ci legge.

Tutta la discussione sulla legge elettorale, sulla sua costituzionalità, sui suoi meccanismi truffaldini, per quanto possa far emergere elementi di scontro fra le congreghe politiche e distinzioni fra i diversi approcci, è in realtà pura lana caprina. Proporzionali o maggioritarie, scelte dagli elettori o nominate dall’alto, elezioni e candidature rappresentano una trappola utile a mantenere soggiogata una massa educata alla delega e alla passività sin dalla tenera età.

L’astensionismo contribuisce a spezzare questa catena.

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