ZERO Capitalismo

Clima e carnevalate. Il mondo post-Cop
Ci sono campi, settori, ambiti dove è più evidente la distanza siderale tra i desideri di chi partecipa e la realtà delle forze in gioco. Uno di questi è il clima. E la prova più evidente è nelle Cop, le conferenze sui cambiamenti climatici che si organizzano ogni anno in maniera itinerante – ogni volta in uno stato diverso, come fosse un premio – sotto l’egida dell’Onu. Nel periodo compreso tra novembre e dicembre la copertura mediatica della Cop28 di Dubai è stata notevole, confermando l’attenzione crescente che la mobilitazione ecologista degli ultimi anni è riuscita a ottenere. Ma le buone notizie terminano qui. Perché è impossibile non solo appassionarsi ma anche solo riuscire a tradurre per le persone non addette ai lavori il dibattito presunto tecnicistico che emerge da questi incontri che si fanno via via sempre più mastodontici – almeno 100mila persone sono volate negli Emirati Arabi Uniti e per molte di queste la conferenza ha significato soltanto un’opera di posizionamento. Davvero possiamo esultare perché alla Cop28 di Dubai, per la prima volta dal protocollo di Kyoto del 1992, sono stati citati i combustibili fossili nella dichiarazione finale (e tra l’altro solo con questa formula vaga, senza menzionare né il petrolio né il gas)? Davvero possiamo esultare perché gli stati hanno promesso un processo di “transizione dalle fonti fossili”, qualunque cosa significhi, senza indicare tempi e modalità, in ritardo di almeno 30 anni dalle richieste, dalle sensibilità e dalle necessità?
Bastano una manciata di dati per rovesciare tutte le aspettative e le narrazioni attorno a queste conferenze. Tra il 1992, e il 2022 sono state prodotte più emissioni di gas serra di quante non ne siano state emesse tra il 1750 e il 1990, come a dire che da quando esiste una politica mondiale di contrasto al riscaldamento globale il tasso di emissioni è aumentato. Le Cop dovevano risolvere un danno e invece l’hanno ingrandito. Quello che è cambiato è il centro di produzione di tali emissioni, con gli Stati Uniti che sono rimasti pressoché costanti, la Cina che ha soppiantato l’Europa e la diversa geografia dei cosiddetti petrostati, la cui economia cioè si basa principalmente sullo sfruttamento degli idrocarburi, che sono passati da quelli latinoamericani a quelli mediorientali.
Prima ci accorgeremo che il “governo globale del clima” ha fallito, semplicemente perché affidarsi ai governi non ha mai portato a niente di buono, prima riusciremo a costruire un’alternativa. Come osserva il ricercatore Emanuele Profumi, l’inganno maggiore delle Cop risiede nel fatto che “benché il riscaldamento globale sia da considerarsi un caso tipico di fallimento del mercato (a causa dell’incapacità di contabilizzare correttamente le esternalità negative, vale a dire le emissioni in eccesso), esso sia risolvibile solo attraverso la creazione di nuovi mercati in grado di dare un prezzo alla natura”. Di più: grazie anche alle politiche della Cop le emissioni sono considerate da aziende e stati non più come un problema di inquinamento da risolvere, neppure una mera conseguenza della produzione industriale ma un prodotto, una merce. Ancora una volta, dunque, il regime capitalistico metabolizza le crisi e fa diventare occasione di profitto pure i suoi effetti deleteri. Non a caso anche i governi e le aziende hanno preso a cianciare di green economy, imboccati in questo senso pure da alcune associazioni ambientaliste per le quali l’unico modo di contrastare il capitalismo “cattivo” di carbone, petrolio e gas è crearne un altro, identico nei modi e nella forma ma senza le emissioni, che definiscono “verde” e dunque implicitamente buono. Ecco, se è questo il modello per cui tifare alla prossima Cop, allora si fa prima a organizzare una contro-Cop e a immaginare a un mondo post-Cop, dove nessuna persona senta più la necessità di delegare i propri destini a delegazioni nazionali che alle conferenze sui cambiamenti climatici hanno il compito di riempire l’agenda di ministri e sottosegretari: è ciò che è emerso da alcune confidenze della truppa italiana, che dal ministro Fratin alla viceministra Gava pareva proprio un’armata Brancaleone, tra slogan nazionalistici a caso (il piano Mattei pure per dare da mangiare all’Africa intera!) e messaggi di ringraziamenti a Eni per aver inserito le energie più care al cane a sei zampe (cattura e stoccaggio di carbonio e biocarburanti). D’altra parte c’è un’informazione che ha deciso di attivarsi, e meno male. Ma lo fa sempre nell’alveo di una visione cieca e meschina di un progressismo liberale per il quale le Cop sono comunque un momento di democrazia, l’unico luogo dove i “Paesi vulnerabili”, come li definiscono loro, hanno voce in capitolo. Rovesciando come al solito la realtà. Un solo esempio in questo senso: al momento della decisione finale il presidente della Cop28 Sultan Al Jaber ha prima fatto votare la bozza del documento finale, senza preoccuparsi delle assenze proprio dei “Paesi vulnerabili”, e ha poi aperto la discussione, con i rappresentanti dei “Paesi vulnerabili” che infatti hanno protestato per il sopruso. Solo che ai giornalisti presenti a Dubai ciò non è interessato perché non era funzionale al racconto che propinano da anni sulle Cop come unico, benché imperfetto, strumento di democrazia climatica. Sono le stesse persone, per intenderci, che continuano a giustificare l’ignobile presenza alle Cop delle aziende fossili – a Dubai c’erano oltre 2mila delegati di aziende come Eni, Shell, Q8 e così via – perché “ehi, anche con loro bisogna dialogare”. Cioè questi se potessero si metterebbero a dialogare pure coi militari: ai quali, figurarsi, manco viene chiesto di conteggiare le proprie emissioni. Qui non si tratta di comprendere perché “qualcosa è andato storto nonostante le buone intenzioni”, come ho letto da qualche parte, ma di assumere che da lì, dalle Cop, semplicemente non può mai venire niente di buono. Lo hanno capito le attiviste e gli attivisti di Earth Social Conference, il controvertice della Cop che si è tenuto in Colombia dal 5 al 10 dicembre, organizzato dai movimenti per la giustizia climatica. In un’intervista rilasciata prima dell’inizio della Cop28, Karim, un’attivista di Earth Social Conference, aveva predetto come sarebbe andata: “finirà con un accordo non vincolante, verrà stipulato dietro le quinte e si cercherà di uscire dal vertice con la percezione di non aver fallito completamente. L’accordo non comporterà alcuna deviazione significativa dal business as usual. A consolarci saranno le speranze della Cop29 del prossimo anno. E il mondo resterà sull’autostrada verso l’inferno climatico con i piedi ben saldi sull’acceleratore”. Karim e le persone come lei non hanno doti divinatorie, semplicemente hanno smesso di far passare per realtà i propri desideri. Va invece raccolto l’invito a creare sin da ora una rete internazionale che vada oltre le velleità governative e cominci a creare un mondo post-Cop, dove al posto dei governi e delle loro delegazioni fantoccio, al posto di chi ha creato il danno e promette di avere la cura, ci sia chi vuole costruire un altro mondo. In fondo zero emissioni vuol dire zero capitalismo.

Andrea Turco

Questa voce è stata pubblicata in Articoli. Contrassegna il permalink.