R-esistenza!

Palestina. Per una coesistenza senza Stati

La carneficina che ha insanguinato le strade di Gaza nelle scorse settimane, dopo essere stata stoppata dalla tregua raggiunta tra Israele e Hamas, grazie alla mediazione del Qatar e l’avallo statunitense, è ripartita e Israele ha ripreso a bombardare Gaza con la medesima brutalità. Purtroppo siamo di fronte all’ennesima conferma che le sofferenze delle popolazioni nulla contano per gli Stati e i governi. La tregua, o pausa umanitaria come viene spesso definita, è in atto da diversi giorni e ha permesso lo scambio tra alcuni degli ostaggi israeliani in mano ad Hamas e dei palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane, per la gran parte donne e ragazzi. E’ stato comunque un momento di sollievo per gli abitanti di Gaza, che si sono così potuti rifornire, in modo assolutamente insufficiente, di cibo e di ogni altro bene necessario per cercare di sopravvivere al bombardamento che il governo israeliano ha subito intrapreso alla fine della tregua. L’attentato del 30 novembre, alla fermata degli autobus a Gerusalemme ovest, rivendicato da Hamas, dà nuova linfa all’interno di Israele ai fautori della guerra totale e all’obiettivo proclamato fin da subito di annientare Hamas.
Questo ennesimo conflitto israelo-palestinese, una continua scia di sangue dal 1947 ad oggi che ha visto fronteggiarsi in modo asimmetrico uno Stato e un esercito attrezzato con una popolazione a volte armata di sole pietre, segna probabilmente una svolta carica di conseguenze nefaste. Se l’attacco del 7 ottobre di Hamas è stato quanto di più efferato ci si potesse attendere, la reazione del governo sionista si è caricata di una ferocia e di un cinismo senza precedenti: uccidere in preda ad un moto di vendetta, senza risparmiare nessuno, donne, bambine, bambini, anziani, civili, colpevoli soltanto di abitare a Gaza. Dalle macerie di una città semidistrutta è difficile immaginare un qualsiasi futuro non di convivenza ma neppure di distensione; non potranno che nascere nuovi estremismi violenti, nuovi conflitti e nuove stragi. Da una parte, un popolo ridotto in catene, minacciato nella sua stessa esistenza, quale reazione può produrre se non quella di un’ulteriore estremizzazione, di vecchi e nuovi Hamas che solo nello scontro armato, seppure da una situazione di inferiorità, pensano di poter ottenere qualcosa, forse solo il semplice riconoscimento di esistere. Dall’altra, governi sempre più faziosi e irresponsabili che si reputano legittimati a perseguire una vera e propria pulizia etnica.
La Nakba, l’esodo palestinese seguito alla nascita dello Stato di Israele nel 1948, sempre rivendicata dalla destra sionista e negata dallo schieramento politico di centro sinistra israeliano, come sostiene lo storico Ilan Pappé, adesso è apertamente invocata dal governo e da strati sempre più estesi di popolazione. Come uscire da un tale groviglio che si avviluppa sempre più? Al momento prevalgono le contrapposizioni per cui da una parte e dall’altra si invocano torti e diritti: alla Nakba si contrappone il diritto di Israele all’esistenza, al lancio di missili il controllo di Gaza e l’occupazione di nuovi territori, alla minaccia e agli attacchi “terroristici” il regime di apartheid e la repressione, in un crescendo che provoca continue carneficine. Certo questo non significa che la condizione dei palestinesi sia equiparabile a quella degli israeliani. Pare abbastanza ovvio che in questo momento storico nessuno minacci di azzerare lo Stato israeliano; se qualcuno rischia la dispersione sono proprio i palestinesi, e l’azione dell’esercito israeliano a Gaza sembra proprio profilare questa eventualità. Per tacere dell’incessante attività dei coloni ebrei in Cisgiordania che continuano ad occupare territori.
Nel clima fazioso che si è venuto a determinare dopo l’attacco del 7 ottobre una propaganda senza scrupoli ha tirato in ballo la Shoah e l’antisemitismo per giustificare i crimini che l’esercito va commettendo contro una popolazione inerme, sottoposta a bombardamenti indiscriminati. Non è certo questo il modo per uscire dal cul de sac di uno scontro che dura da più di settant’anni. Dovrebbe invece essere avviato un processo che cominci a ridurre le ostilità e gli attriti, capace di “azzerare” un passato nefasto e riprogettare un futuro di reale convivenza pacifica. Ma certamente questo non può avvenire sotto la spinta di istituzioni o Stati. L’impotenza dell’Onu, che dovrebbe per statuto assicurare la convivenza pacifica, proprio in questo frangente è inequivocabile; persino le timide prese di posizione del Segretario generale Guterres sono state o attaccate con acrimonia o bellamente ignorate. Stati Uniti, Cina e Russia e i rispettivi satelliti si muovono nello scacchiere imperialista alla ricerca di sempre nuove influenze e le guerre sono occasione, come per la Russia l’Ucraina, per misurare forze e guadagnare posizioni. Il conflitto in corso in Palestina non fa eccezione: è uno dei tanti teatri del perenne scontro tra imperialismi.
Scontro che al momento opera a distanza e sullo sfondo del conflitto tra Israele e Hamas, poiché passate le prime settimane in cui sembrava che una qualsiasi scintilla potesse far precipitare in una guerra che coinvolgesse tutto il Medio Oriente, questa possibilità adesso pare scongiurata. Tuttavia il quadro generale non è certo confortante, l’atteggiamento degli Stati e delle potenze è sempre quello “di essere disposti a rischiare un conflitto parziale”, come sosteneva Anna Bravo, con la presunzione di potere evitare un conflitto generalizzato, limitandosi a schermaglie guerreggiate e diplomatiche. Ma fino a quando? 

Ritornando alla questione israelo-palestinese, lo storico israeliano Ilan Pappé, intervistato da vari giornali italiani, ha sostenuto con grande lucidità che fino a quando non cessa l’atteggiamento colonizzatore di Israele non sarà possibile trovare una qualche soluzione. A conclusione di un incontro tenuto presso la Biblioteca universitaria di Genova, Pappé ha detto: “La storia insegna che la decolonizzazione non è un processo semplice per il colonizzatore. Perde i suoi privilegi, deve restituire le terre occupate, rinunciare all’idea di uno Stato-nazione mono-etnico. I pacifisti israeliani pensano di svegliarsi un giorno in un paese democratico. Non sarà così semplice, i processi di decolonizzazione sono dolorosi: la pace inizia quando il colonizzatore accetta di stravolgere le proprie istituzioni, la costituzione, le leggi, la distribuzione delle risorse. Il giorno in cui finirà la colonizzazione della Palestina, alcuni israeliani preferiranno andarsene, altri resteranno in un territorio libero in cui non sono più i carcerieri di nessuno. Prima lo capiranno e meno questo processo sarà sanguinoso. In ogni caso la storia è sempre dalla parte degli oppressi, ogni colonialismo è destinato a finire”.

Ecco, ma dovrà essere una forte presa di posizione e di coscienza delle popolazioni coinvolte, palestinese e israeliana, capace di rigettare violenza e diffidenza, e un sostegno popolare fuori dalla Palestina ad invertire la rotta ed avviare un reale processo di coesistenza, senza Stati e senza eserciti. 

Angelo Barberi

    

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