Europa-guerra: avanti tutta!

La ricorrenza, il 24 febbraio scorso, dei due anni dallo scoppio della guerra russo-ucraino è stata l’occasione per immettere in circolo ulteriori abbondanti dosi di militarismo guerrafondaio. Non ha fatto mancare il suo contributo l’ineffabile presidente del consiglio Meloni che in qualità di presidente di turno del G7 è volata a Kiev per manifestare il suo sostegno convinto alla guerra in corso e per firmare un accordo bilaterale con l’Ucraina, simile a quelli già sottoscritti da Francia, Gran Bretagna e Germania, su cooperazione industriale, scambi di intelligence, sostegno alle riforme. La Nostra si è pure esibita in una di quelle dichiarazioni roboanti intrise di pathos: “Questa terra è un pezzo della nostra casa e noi faremo la nostra parte per difenderla”, ha detto rivolta ad un Zelensky sempre più avido di armamenti. E’ stata comunque una settimana in cui cariche istituzionali e governative europee si sono sprecate in dichiarazioni sul piede di guerra che prese alla lettera sarebbero da avventurieri da quattro soldi o da criminali. Tra queste spiccano quelle del presidente francese Macron che ha detto di non potere escludere l’invio di militari in Ucraina e quelle della von der Leyen che davanti al Parlamento europeo riunito in plenaria ha dichiarato: “Dobbiamo potenziare molto velocemente la nostra capacità industriale di difesa nei prossimi cinque anni”. Insomma per costoro siamo oramai entrati in un’economia di guerra.

Un’Europa divisa nella sostanza su tutto sembra qui marciare compatta e determinata in un’unica direzione: il riarmo e la preparazione di un clima prebellico. La guerra apertasi nel 2022 in Ucraina, è vero, ha segnato una svolta nelle guerre che si sono combattute negli ultimi trent’anni. Lo scontro, ancorché negato ufficialmente e realizzato per interposta persona, è in questo caso più direttamente tra potenze egemoni e rappresenta uno dei tasselli rilevanti nella ridefinizione delle relazioni geopolitiche future, in questo travagliato inizio di ventunesimo secolo. Tuttavia la pervicacia con la quale si minimizzano le guerre precedenti o addirittura si nega che l’Europa sia stata coinvolta in guerre dopo la fine della seconda carneficina mondiale, quando le guerre che sconvolsero la ex Iugoslavia negli anni Novanta erano già allora un monito per un’Europa che si prestava a fare da pedina nello scacchiere dello scontro mondiale, appare sospetto. E infatti è utile a far passare la narrazione di un pericolo estremo che occorre a tutti i costi fronteggiare con l’unico mezzo che ci è rimasto: la guerra. E invero, secondo questa rappresentazione, il nemico oggi è l’incarnazione dell’alterità assoluta rispetto a quei valori di cui l’Occidente si ammanta: libertà e democrazia. Nulla importa se tutto ciò è una costruzione ad hoc per orientare un’opinione pubblica sballottata di qua e di là in un mondo sempre più incerto e minaccioso. Una costruzione cui allegramente partecipano congiuntamente tutte le forze politiche e gli orientamenti culturali, salvo poche eccezioni.

Per rimanere al dibattito pubblico italiano come altrimenti interpretare posizioni quale quella della rivista Limes, il cui ultimo numero in edicola titola Stiamo perdendo la guerra, se non come propaganda di guerra. E’ vero, nell’editoriale che introduce il numero il suo direttore, presumibilmente, si prodiga in una raffinata analisi degli attuali equilibri mondiali, del ruolo che l’Italia vi ricopre e di quello che potrebbe ricoprirvi, ma infine come unica alternativa positiva, se si riuscirà ad evitare di precipitare dall’attuale “Guerra Grande” ad una aperta terza guerra mondiale, viene prospettata una pace armata a fare da deterrente, una sorta di nuova edizione della guerra fredda, dove l’Italia in questo caso dovrebbe avere un ruolo se non da protagonista da comprimaria. Eccoci così apparecchiato il nostro roseo futuro prossimo: “Guarda caso le aree critiche in cui avremmo maggior bisogno di limitato supporto e aperta benedizione americana appartengono alla classe di quelle che Washington non vuole evacuare ma di cui non può/vuole sostenere i costi. Dai Balcani inclusa Ucraina fino al Mediterraneo centrale (Stretto di Sicilia) e orientale, dal Nordafrica al Sahel. Sul piatto dovremmo mettere importanti risorse economiche, diplomatiche e militari. In cambio Washington dovrebbe offrire sostegno logistico e di intelligence, ma soprattutto esplicito appoggio all’impegno italiano, contro eventuali sabotaggi di «amici e alleati»”. Insomma siamo ancora all’antico adagio se vuoi la pace prepara la guerra, contrabbandato come lucido realismo e sano buonsenso da sacerdoti in atto sacrificale.

Di fronte ad una così massiccia propaganda e ad un intruppamento che coinvolge ampi strati della società, seppure passivamente, quali azioni intraprendere per contrastarli, quali strumenti rimangono a chi vuole opporsi alla deriva guerrafondaia? Forse non molto, eppure non ci si può fare annichilire da questo militarismo pervadente. Se ad oggi un movimento pacifista consapevole, che al momento non c’è, non ha una propria strategia efficace per contrastare le guerre, tuttavia dovrebbe riprendere a riflettere su alcune questioni dirimenti. Innanzitutto il rifiuto della guerra non può essere disgiunto da quello delle armi e degli eserciti. Qualsiasi posizione che si reputi contraria alla guerra senza metterne in discussione i suoi principali strumenti è solo autoinganno o complicità. Ancora, il ripudio della guerra deve essere una volta per tutte sottratto allo stanco esercizio retorico di richiamarsi al fantomatico articolo 11 della Costituzione. Una visione che pensa la guerra come abominio dovrebbe essere capace di prospettare una trasformazione radicale delle attuali strutture sociali che imprigionano energie e libertà e le piegano ai loro interessi. Altrimenti quale forza può opporre una gioventù ad un sistema che la induce alla scelta militarista? Non gli resta che abbandonarsi al “destino” e da qui il passo è breve per diventare manganellatore e, chissà, carnefice.

La storia che probabilmente non è maestra di vita altrimenti avrebbero ragione i sostenitori della sua fine, però potrebbe suggerirci che dovremmo sempre operare per lo scarto, per uscire dai binari in cui le forze del sistema ci costringono.

Come scrive Vasilij Grossman nel suo magistrale Vita e destino le forze delle potenze, degli stati e dei governi sono soverchianti ma vi è sempre una scelta che il singolo compie e su questa scelta occorre far leva, che diventi una scelta sempre più comune e contagiante di rigetto della guerra come delle istituzioni che la progettano, la sostengono e la mettono in atto.

Angelo Barberi

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