Ripensare radicalmente l’economia, la politica, la società

Dopo il coronavirus.


Seguire il dibattito intorno alla politica economica nazionale ed europea nella condizione di irrealtà che stiamo vivendo – ma foriera di ineludibili conseguenze sulle nostre esistenze presenti e future – può dare la misura di quello che intende apparecchiarci chi dirige le nostre sorti.
Ci troviamo immersi in una situazione che non è improprio definire distopica. Un intero pianeta assediato da un virus – che al momento si è rivelato poco mortale, anche grazie alle misure di contenimento e distanziamento che sono state adottate -, bloccato nelle sue più consuete attività, miliardi di persone costrette a vivere in un isolamento straniante, altrettante gettate allo sbaraglio in una condizione di precarietà assoluta, senza casa e senza cibo. Ecco di fronte ad uno scenario così drammaticamente pregnante, governi, poteri economici e media si comportano come se ci trovassimo di fronte ad una qualsivoglia crisi economica, di fronte ad un qualsivoglia evento eccezionale che passata la tempesta o la nuttata – come diceva De Filippo – ci restituirà alle nostre normali – si fa per dire, perché non sarebbe normale contare decine di guerre, mostruose disuguaglianze, precarietà e violenza diffuse – esistenze.

La perversione, l’arroganza, la cecità e il cinismo delle classi dirigenti italiane ed europee (e mondiali) stanno nei provvedimenti che dovrebbero nelle loro intenzioni fare ripartire l’economia – un’economia di guerra e di depredazione, per intenderci -.  Simbolo di questi provvedimenti è quello che nel gergo economico-giornalistico viene sintetizzato nell’espressione immettere liquidità nel sistema. Fornire soldi – attraverso un prestito garantito – alle imprese affinché riprendano la loro attività. Il governo italiano si appresterebbe a far arrivare al mondo imprenditoriale ben 400 miliardi di euro, di cui la metà destinata a chi esporta. In questi giorni è forte la pressione di gruppi industriali per una rapida riapertura delle attività produttive. Addirittura le Confindustrie di Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna hanno prodotto un documento in cui paventano l’ecatombe dell’economia italiana se a breve non si riavvia la produzione.
Proprio in questi giorni è in corso anche un duro braccio di ferro nell’Unione europea riguardo alla gestione futura del debito che i vari Stati hanno contratto nell’emergenza. La sospensione del Patto di stabilità, decisa nei giorni successivi all’espandersi dell’epidemia, ha messo i singoli Stati nelle condizioni di aprire le maglie del debito per fronteggiare la crisi. Ma ritornati alla normalità come dovrà avvenire la gestione di questo debito? L’Italia, in un primo momento sostenuta da Francia e Spagna, ha proposto l’emissione di eurobond, titoli attraverso cui finanziarsi sul mercato ma  garantiti dall’Unione. Olanda e Germania sostengono invece che gli Stati in difficoltà potranno fare ricorso al Fondo salva Stati (Mes), il cui prestito dovrà essere seguito da un piano di ristrutturazione stabilito, con vincoli più o meno pressanti, dagli organi europei. Insomma un po’ quello che è accaduto con la Grecia.
Tutto qui, il piatto è servito: il mercato, la finanza, il Pil. E via si ricomincia come nulla fosse successo. Anzi più determinati e agguerriti di prima nel perseguire crescita e accumulazione.

Il premier Conte da giorni scomoda la Storia e vorrebbe essere ricordato come il salvatore di un modello economico e sociale il cui feticcio è rappresentato dai famigerati eurobond – uno strumento finanziario in mano a banche e speculatori . Ma se la Storia potesse insegnarci qualcosa ci direbbe che il breve lungo Novecento del trionfo del capitale, i cui artigli ancora ci avvinghiano in un abbraccio mortale, al suo culmine ci fa dono di un pianeta esanime, di un mondo profondamente diseguale e attanagliato da guerre e crisi.
Che poi non bisogna essere studiosi di economia per capire che finanziare le imprese in un momento di incertezza economica è pressoché inutile. Produrre in assenza di domanda non fa che aggravare la situazione. Senza contare il fatto che sono anni, dalla crisi del 2008, che si pompa liquidità nell’economia senza schiodarla dalla sua magra – per la stragrande maggioranza della popolazione – sopravvivenza. Eppure all’annuncio dei provvedimenti che il governo italiano si appresta ad assumere, l’unico inconveniente rilevato ha riguardato la farraginosità della burocrazia italiana che tarderebbe l’effettivo invio del denaro alle imprese, riducendone così l’efficacia. I grandi giornali italiani se ne sono fatti portavoce e si sono persino scomodate illustri penne del giornalismo nostrano. Ad esempio sul Corriere della Sera del 9 aprile, Gian Antonio Stella, in un articolo intitolato E ora siate semplici, dopo avere stigmatizzato la lentezza della burocrazia italiana, così chiosa : “Ma se questa, come viene ripetuto tutti i giorni, è la più grave catastrofe umana, sociale ed economica degli ultimi tre quarti di secolo, non val la pena di dare finalmente una brusca sterzata al modo ormai indifendibile di fare le leggi?”. Non è da meno Massimo Gramellini che, nella sua quotidiana rubrica sempre sul Corriere dopo aver preso atto che la questione, superata la fase di crisi, si gioca sulla ripresa dell’economia, scrive: “Che fare? Lavori pubblici e reddito di sussistenza, proprio perché sono le prime ricette che vengono in mente a tutti, rappresentano inevitabilmente dei cliché […] Servono capitali e cervelli freschi, in grado di pensare idee nuove e, in Italia, una parola nuova: sbrurocrazia”. Ecco individuato un nuovo e comodo capro espiatorio!
Più buonista Massimo Giannini che in un articolo su Repubblica, sempre del 9 aprile, significativamente intitolato La borsa e la vita, dopo avere anch’egli sottolineato l’influsso negativo della burocrazia, a proposito del far ripartire o meno l’economia, la cosiddetta fase 2, si schiera decisamente a favore appunto della vita e non della borsa. L’importante però che quando tutto riprenderà a funzionare lo faccia nei modi canonici: crescita del Pil, degli investimenti, dell’export.
Se è vero che stiamo vivendo una svolta epocale, certo questo dibattito e la stragrande maggioranza di quello che si legge o si ascolta sui principali media italiani non sembrano essersene accorti.
Ma a dispetto di quello di cui si dibatte nel giornalismo tricolore, sarà necessario un profondo e radicale ripensamento e dell’economia e della società e della politica perché, come ritengono molti studiosi, la pandemia attuale è il frutto avvelenato (e un primo serio avvertimento) del rapporto squilibrato e predatorio che noi esseri umani abbiamo con la natura, di cui la crisi ambientale e climatica sono le più lampanti evidenze.

Angelo Barberi

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