L’autunno caldo di mister Draghi

Politica economica. La grande predazione

Acclamato fin da subito quale unico e imprescindibile salvatore della disastrata situazione italiana, il presidente del Consiglio Draghi miete continui consensi e successi. Prevalentemente alla sua figura/azione è attribuita la performance dell’economia italiana che sta crescendo in questi mesi a ritmi più sostenuti rispetto ad altri paesi più quotati, come Francia e Germania, e si avvia a recuperare le perdite registrate nell’anno più difficile della pandemia. L’ultimo successo in ordine di tempo dell’ex banchiere è il tributo che gli ha riservato l’assemblea generale di Confindustria il 23 settembre scorso, applaudendolo a scena aperta e dichiarando per bocca del suo presidente:” Draghi non è un uomo della provvidenza, non è uomo della possibilità, è un uomo della necessità”. Un ringraziamento, certo, per il trattamento riservato dal governo agli industriali (decine e decine di miliardi in sussidi e aiuti), ma anche un invito – o avvertimento, chissà – a proseguire su questa strada. Infatti nel prosieguo del suo discorso il presidente Bonomi ha snocciolato un preciso programma politico: “Facciamo invece un appello al governo su almeno tre nodi essenziali. Primo: basta gestioni in house dei servizi da parte di Comuni e Regioni, servono gare vere aperte ai privati e non impugnate poi al TAR come accaduto negli ultimi anni per quasi tutte quelle sul Trasporto Pubblico Locale. Secondo: più accesso ai privati nell’offerta di servizi sanitari secondo gli standard del Servizio Sanitario Nazionale, come indicato dall’Autorità Garante del Mercato nelle proposte inviate al governo”. E sul fisco è stato perentorio: “[…] L’OCSE ha indicato ancora una volta la via, come fa da tanti anni: meno tasse su impresa e lavoro, tagliando il cuneo fiscale. Quindi non solo interventi sull’IRPEF, non solo una radicale revisione di tutti i bonus introdotti da destra e sinistra,[…] Ma anche via l’IRAP e un sistema di imposizione sui redditi societari più attrattivo rispetto a quello attuale”.
Draghi, naturalmente, si è preso gli elogi, ma nel suo discorso con un pizzico di modestia istituzionale ha tenuto a precisare che: “La crescita che abbiamo davanti è in una certa misura un rimbalzo, legato alla forte caduta del prodotto interno lordo registrata l’anno scorso”. Tuttavia poco dopo ha aggiunto: “La sfida per il Governo – e per tutto il sistema produttivo e per le parti sociali – è fare in modo che questa ripresa sia duratura e sostenibile”. Per raggiungere questo risultato il presidente del Consiglio intende proporre un patto sociale, o come lo ha chiamato “una prospettiva economica condivisa”, che coinvolga tutti, sindacati inclusi. Non a caso pertanto il 27 settembre si è tenuto a palazzo Chigi un incontro governo-sindacati, principalmente sul tema della sicurezza sui luoghi di lavoro, ma il risultato più importante raggiunto, a detta delle parti in causa, è stato l’avvio di un “metodo di confronto”. “Siamo rimasti con l’impegno che nei prossimi giorni – ha dichiarato Landini – ci sarà un’ulteriore convocazione per entrare nel merito di tutti i temi indicati nella piattaforma sindacale per approfondire le altre questioni”. La mossa di Draghi di incontrare i sindacati, subito dopo l’incoronazione confindustriale, è stata letta da molti giornalisti, più o meno mainstream, come la volontà del governo di non appiattirsi troppo su una delle parti sociali. Tuttavia quegli stessi commentatori hanno dimenticato di precisare che era stato lo stesso Bonomi nella sua relazione ad auspicare proprio un patto tra industriali e sindacati, appellandosi ai tre segretari generali di Cgil-Cisl-Uil, presenti all’assemblea, chiamandoli persino per nome: Luigi, Maurizio, Pierpaolo.
Ad ogni modo quello che c’è di interessante nelle relazioni dei due presidenti e nel dibattito pubblico istituzionale che si è sviluppato nei giorni a seguire è la definizione di un’idea di società, al di là dei piccoli distinguo dei vari attori in campo – governo, partiti, sindacati, industriali – che si può definire neocorporativa, in cui l’interesse supremo della nazione coincide con un presunto benessere di tutti e di ciascuno. Prospettiva certo non nuova in questi ultimi anni, ma sempre più pervasiva, capace di tenere tutto insieme, sovranismi e globalismi, al servizio di élite sempre più potenti. In questo senso Draghi è stato esplicito. Nel ripercorrere la storia economica italiana dal secondo dopoguerra, si è chiesto che cosa abbia interrotto la crescita degli anni 50-60, cosa abbia “rotto il giocattolo”, per usare le sue parole. La risposta è che in Italia si sono guastate alla fine degli anni 60 le relazioni industriali, cioè c’è stata la stagione delle lotte sociali. Per questo in questa nuova fase è necessario preservare “la pace sociale”, costruire appunto un patto tra lavoratori e industriali. Sulla stessa lunghezza d’onda il presidente di Confindustria: “Noi- ha detto rivolgendosi ai sindacati – non siamo partiti in lotta. Di fronte ai ritardi e alle sempre più gravi fratture sociali della nostra Italia, lavoro e impresa devono costruire insieme accordi e indicare strade e strumenti che la politica stenta a vedere”.
Intanto mister Draghi si accinge ad attraversare il suo autunno caldo con sicumera e determinazione crescenti. Superato, per così dire, lo scoglio del rincaro dell’energia con un’elemosina da destinare ai soggetti più deboli – che non ha per nulla risolto il problema -,  in agenda c’è fondamentalmente l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, i cui primi finanziamenti europei sono arrivati nel mese agosto per un importo di 24 miliardi di euro circa. Ma gli investimenti sono/dovrebbero essere inquadrati all’interno di un piano di riforme, la più urgente delle quali sembra essere quella fiscale. Per questo motivo davanti alla platea di Confindustria Draghi ha ribadito l’adagio che più circola nella politica italiana: “Non è tempo di prendere ma di dare”. Mettendo subito in chiaro che non vi sarà nessuna riforma che stravolgerà l’attuale assetto del sistema fiscale, così come confermato anche dall’indagine conoscitiva della commissione Finanza del Parlamento, resa nota a giugno. Le varie proposte in campo intendono modificare gli attuali scaglioni Irpef al fine di agevolare e di fare arrivare qualche spicciolo in più alla tanto “tartassata” classe media, coccolata e blandita da tutta la politica; classe a cui in fondo credono di appartenere tutti gli italiani. Ora è noto a tutti che il sistema fiscale italiano si è evoluto negli ultimi 40 anni diventando sempre più regressivo e addossando il peso della tassazione sulle classi più basse. Quindi la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi soggetti e le grandi diseguaglianze nella distribuzione del reddito non paiono preoccupare Draghi, che non ha alcun interesse ad attuare una riforma che realizzi quella progressività, prevista dalla Costituzione, alla quale tutti a parole si richiamano. Come auspica il presidente di Confindustria bisogna essere fiscalmente attrattivi, quindi niente imposte per rendite, transazioni e speculazioni finanziarie, profitti e super profitti. In un paese e in clima politico-culturale in cui ci si scandalizza se si vuole introdurre un’imposta straordinaria per patrimoni superiori ad 1 milione di euro e dove parlare di salario minimo è tabù anche per i sindacati, è invece normale avere oltre 2 milioni di famiglie in povertà assoluta, il 10% di disoccupati e un continuo stillicidio di licenziamenti e morti sul lavoro.

Angelo Barberi

 

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