Un futuro da agguantare

Ci possono essere vari modi di pensare il futuro, ma solo due sono i prevalenti: quello pessimista e quello ottimista. Chi redige questo giornale auspica (e perciò si batte per) un futuro senza governi; il titolo della testata è esso stesso una prospettiva; serve a ricordarci, anche quando ci tuffiamo nelle necessità quotidiane della sopravvivenza e dei problemi spiccioli, che senza una prospettiva generale tutto perde di senso, rischia di trasformarsi in trappola, o, nella peggiore delle ipotesi, può diventare un alibi per giustificare i compromessi, i cedimenti, l’allontanamento dalla militanza attiva.
Lo abbiamo scritto e rivendicato: l’orizzonte utopico è la linea immaginaria verso la quale ci muoviamo e, nonostante la concreta possibilità di non poterla raggiungere mai, grazie ad essa riusciamo a camminare, a non stare fermi, a non far crescere su di noi il muschio dell’inadeguatezza e la ruggine dell’immobilismo, in poche parole: a rimanere vivi, umani, ribelli e combattenti per un mondo migliore
Ma questa prospettiva non è un punto fissato sul calendario della storia. Essa va costruita giorno per giorno, tassello su tassello, anche se spesso quanto si costruisce viene travolto dalla furia della reazione. Le classi al potere proveranno sempre a bloccare il tempo di chi rivendica diritti negati, e, al contrario, a farlo procedere veloce per loro, per il loro sterminato bisogno di tecnologie e strumenti sempre più sofisticati per cristallizzare le condizioni dei subalterni.
L’attuale crisi pandemica mondiale ci sta mettendo davanti ad una prova difficile, frutto delle distorsioni indotte dal capitalismo sull’ambiente e sull’equilibrio della natura; ma di tutto si sta discorrendo tranne che delle cause che hanno generato una simile catastrofe. Così il sistema, che dovrebbe essere messo sotto accusa, cavalca la pandemia ergendosi a salvatore, mentre procede imperterrito nell’azione distruttiva che l’ha prodotta e che produrrà le successive. La gestione della crisi è condotta in maniera autoritaria, garantisce i massimi profitti alle multinazionali del farmaco e il potere alle classi politiche loro complici. Ogni riflessione sugli insegnamenti di questa esperienza, fatta soprattutto nei primi mesi della sua esplosione – “nulla sarà come prima” si diceva – è stata relegata nel dimenticatoio, soffocata da allarmismi ed emergenzialismi continui: la fobocrazia divenuta dominante.
Sul fronte della questione ambientale l’ottimismo è sempre più schiacciato dal peso di una realtà quasi irrimediabilmente fuori controllo. Il capitalismo, nelle sue varie forme: di mercato, alla cinese, neoliberista, imperialista, ha provocato la rottura di millenari equilibri conducendo l’umanità intera verso la catastrofe. Lo constatiamo ogni giorno. Eppure non sembra esserci una reazione adeguata da parte di quell’umanità, la più povera, la più sensibile, che ne sta già subendo le conseguenze più drammatiche. Mentre i giovani scendono in piazza, e milioni di migranti ambientali abbandonano le loro terre, i capi di Stato, i banchieri mondiali, i padroni dell’economia, fingono di preoccuparsi delle sorti del pianeta, ma poi emettono solo scoregge di parole per coprire i loro misfatti.
La guerra è la sola via che gli Stati percorrono in ogni angolo del globo: una guerra che soffoca popoli e territori, che condiziona ogni sforzo di instaurare relazioni amichevoli e solidali, necessarie in questa fase saliente della storia umana. Costruzione e commercio di armamenti, missioni militari, conflitti locali fomentati dalle diverse potenze, controllo delle risorse, delle vie di comunicazione e dello spazio, hanno fatto balzare il militarismo al primo posto tra le modalità di regolazione dei rapporti internazionali.
Anche dal punto di vista dell’affermazione di un pensiero laico, secolarizzato, nel Mondo le cose non vanno bene, ed è già evidente come le crisi sanitarie, ambientali, militari in cui l’umanità si trova invischiata, stiamo alimentando la ricerca di rassicuranti religioni (anche non chiamate così) o di regimi totalitari. Scrive Odifreddi su “Left” del 24 dicembre: “I cattolici nel mondo sono più di un miliardo, i mussulmani sono quasi due miliardi, mentre Facebook ha circa 3 miliardi di utenti. Al suo interno presenta, esattamente come le grandi religioni monoteiste, i suoi profeti e le sue liturgie che vengono condivise compulsivamente senza riflettere. Il pensiero religioso, come si vede può non essere per forza legato a una tradizione religiosa”.
Il quadro è dunque fosco ed ogni prospettiva rivoluzionaria, ogni tensione verso una società libera, fa fatica a farsi strada nonostante l’invivibilità e l’insostenibilità del sistema capitalista mondializzato siano sotto gli occhi di tutti. Torniamo ai due modi di affrontare questa situazione: il pessimismo e l’ottimismo. Noi che propendiamo per il secondo non pensiamo certamente che le cose di aggiusteranno da sé; siamo realisti, e quindi in grado di comprendere i meccanismi del condizionamento umano e di definire delle risposte alternative alle false risposte accomodanti che lasciano intatta la sostanza delle cose. Nel ’68 si scriveva sui muri: “siamo realisti: vogliamo l’impossibile”. Oggi c’è bisogno di desiderare l’impossibile, di reinventarsi l’utopia, di calare nel quotidiano i sogni, di imbevere di rabbia le nostre esistenze, di ritessere relazioni che siano protese alla rivolta individuale e collettiva. C’è bisogno della gioia di contrapporre un mare di NO alla rassegnata attitudine a dire SI. E questo va fatto adesso.

Noi siciliani non abbiamo il futuro nella nostra lingua; per dire “faremo” diciamo “dobbiamo fare”: qualcuno lo ha letto come un atto di pessimismo, invece rappresenta il prestare attenzione a quello che oggi possiamo mettere in campo con la nostra volontà, perché il futuro non sia solo una promessa ma la conseguenza delle azioni odierne. E’ oggi che ci giochiamo le possibilità di un futuro migliore.

Pippo Gurrieri

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