La banalità della guerra

Tre mesi dopo. Tra distruzioni e distrazioni

Mentre la guerra in Ucraina prosegue con la sua scia di bombardamenti, stragi di civili e militari, distruzioni di città, nessuna delle parti in causa sembra avere la capacità e la volontà di tirarsi fuori dal vicolo cieco in cui si sono cacciate. Il presidente ucraino continua ad invocare imperterrito l’invio di nuove, più potenti e distruttive, armi; lo zar di Russia, ostinato a perseguire la sua politica di potenza, sembra convinto che forse il tempo e alcune leve nelle sue mani – minaccia atomica e minaccia alimentare, ad esempio – possano giocare a suo favore. Gli Stati Uniti, se per un verso assecondano le velleità di vittoria ucraine, dall’altro fanno trapelare dubbi e soluzioni alternative che prevedono un accordo con la Russia, emblematica l’uscita pubblica dell’ex factotum e intrallazzatore della politica estera statunitense, Henry Kissinger, che certo esprime umori presenti nell’establishment attuale. L’Unione europea, al di là di roboanti proclami, mostra una estrema incapacità di trovare non solo una precisa strategia d’azione, ma persino un minimo accordo comune sulle sanzioni da applicare alla Russia e anzi ciascuno Stato procede per conto proprio, scollegato dagli altri – si veda la quasi ridicola proposta di pace presentata dal nostro ministro degli Esteri, o la telefona di Draghi a Putin sulla questione grano, o la successiva sulla stessa questione fatta sempre a Putin da Macron e Scholz, per non parlare della posizione ungherese. La Gran Bretagna sembra essere ritornata il grande impero ottocentesco, il suo premier nuovo artefice della politica mondiale da definire sul campo con guerre e alleanze militari.
Quindi, come ben si sapeva fin dall’inizio e come la storia troppe volte ci ha sbattuto in faccia, cominciare una guerra è facile, smetterla no. Sulle vite di uomini, donne e bambini prevalgono la volontà di potenza degli Stati, un supposto orgoglio nazionalistico, spinte di gruppi e lobby militariste, moralismi diffusi, anche inerzia. Eccoci allora alla situazione di stallo di queste settimane, in cui si alternano conquiste e riconquiste da una parte e dall’altra e che qui seguiamo quasi fosse una partita di calcio, salvo poi attizzare sensi di colpa e compassione.

Tuttavia, dopo più di tre mesi di atrocità, alcuni dei toni trionfalistici ed eroici, coi quali i principali media italiani hanno raccontato questa guerra, si vanno smorzando e l’opinione pubblica appare sempre più provata e insofferente. Non solo quel “vincere” (riferito agli ucraini), che più volte ha campeggiato sulle prime pagine dei giornali, scricchiola sempre più e si apre a mille dubbi, ma tutta l’enfasi posta sulla nuova vitalità e importanza della Nato, indotta proprio dall’avventata invasione russa, e la riconquistata centralità dell’Unione europea si rivelano mera propaganda, che prova a nascondere conflitti, contraddizioni, rivalità inconciliabili. Dell’Ue si è detto e non è un mistero per nessuno, neppure per l’informazione istituzionale, che alla prova dei fatti l’Unione si è mostrata debole e frammentata. Sulla Nato l’adagio che più è circolato è quello secondo cui Putin sarebbe stato indotto ad invadere l’Ucraina per rompere l’accerchiamento della Nato, appunto, e invece ne ha avuto, come con soddisfazione ripetono in molti, “più Nato”, Svezia e Finlandia con la loro richiesta di adesione sono lì a dimostrarlo. Un’alleanza militare che sembrava sul punto di esalare l’ultimo respiro, è ritornata a rivestire un’importanza strategica e fondamentale per la “difesa” dei valori occidentali. In realtà non sembra che le cose stiano esattamente in questi termini. Rivalità e diversità di vedute attraversano l’organizzazione e non sono solo Ungheria e Turchia a fare emergere le crepe. L’egemonia statunitense e l’asse privilegiato con gli inglesi, non sono certo graditi a Francia e Germania, non a caso Macron aveva già decretato la fine virtuale dell’alleanza e non è detto che la guerra in Ucraina riesca veramente a risuscitarla.

Nel grande gioco che si è aperto con quest’ultima ed ennesima guerra non solo sembra terminata quella fittizia era della pace, contrabbandata nonostante le continue guerre succedutesi a partire dalla prima guerra del Golfo (per tacere delle precedenti), ma si stanno sempre più ingarbugliando questioni cruciali degli anni a venire, fondamentali per l’equilibrio e la sopravvivenza di questo nostro misero pianeta: emergenza climatica e ambientale in primis, spostamento sempre più consistente di gruppi e individui dai vari sud, frutto a sua volta di guerre e cambiamenti climatici, esasperazione delle relazioni internazionali in un perverso intrico di interdipendenze e contrapposizioni, di cui la vicenda del grano rappresenta una perfetta fotografia. In tutto questo governi  e potentati discutono su come continuare a fare funzionare la macchina della produzione e del profitto, preoccupati per il rallentamento del Pil, pronti a rinnegare i piccoli passi avanti fatti, più di facciata che reali, nella limitazione dell’uso delle fonti fossili – la Germania che ritorna al carbone mentre tutto sembra inesorabilmente dipendere dal gas e dal petrolio -, allarmati per l’impennata dell’inflazione che non riescono a tenere sotto controllo, aggrappati al ricatto del debito pubblico e ai vincoli macroeconomici che loro stessi hanno inventato. Anche quando le questioni vengono sollevate, come fa Massimo Giannini nel suo editoriale su La Stampa del 29 maggio in cui, citando Adam Tooze, direttore dell’European Insitute alla Columbia University, pone il problema di una Russia impantanata in una guerra di lunga durata in Ucraina – con conseguenze imprevedibili – , degli Stati Uniti imprigionati nella loro strategia militarista – che non è detto possa rimanere sotto controllo -, dello scontro al momento solo economico tra Cina e Usa, la soluzione prospettata è l’auspicio di un’Europa che finalmente acquisisca una propria linea politica autonoma, diventi un interlocutore forte e credibile sul piano internazionale, e per questo è centrale che costituisca un suo esercito attrezzato ed adeguato per poter navigare nel mare procelloso della competizione globale.
Piccolo campione di ambiguità e moralismo, il direttore del quotidiano del gruppo Gedi, il cui presidente è John Elkann, si trova in buona compagnia dei tanti – intellettuali, opinionisti, giornalisti, ecc. – che paiono comprendere la gravità della situazione, ma poi riconducono eventuali possibilità di trovare vie d’uscita a quelle stesse logiche che ci hanno portato al punto in cui siamo: per l’Italia, per l’Europa attrezzarsi a competere economicamente e militarmente in un quadro geopolitico mosso e instabile, confidando in ipotetiche doti razionali e umanitarie di cui il vecchio continente sarebbe per natura e cultura unico depositario.

Pertanto ancora una volta tocca a chi si oppone realmente alla guerra e a tutti i sistemi economico-militari che la provocano fare chiarezza e prendere le distanze dagli autocrati che opprimono i propri popoli e agiscono con la forza delle armi e ugualmente smascherare le finte democrazie che certo non rinunciano ad armamenti ed eserciti e concepiscono un’unica e sola libertà: quella del denaro. Se il compito non è agevole, quel piccolo e a volte sotterraneo movimento, che da sempre considera la guerra un abominio e le armi e gli eserciti uno spreco inaccettabile, continua a disertare e a fare sentire la propria voce. E chissà.

Angelo Barberi

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