SMANTELLARE LE FABBRICHE DI MORTE

Lukoil Priolo. Basta con l’aggressione coloniale

Il 1° e del 28 dicembre 2022, con due decreti-legge di dubbia costituzionalità ed incerta compatibilità con le norme europee – ma che il Parlamento a guida parafascista non mancherà di convertire -, il governo Meloni ha operato il salvataggio dell’ISAB di Priolo e delle altre fabbriche di morte del comprensorio Melilli-Priolo-Augusta, sottraendole alla chiusura e alla procedura di sequestro che la Magistratura siracusana, dopo oltre un decennio di denunce e tattiche dilatorie, aveva appena avviato. La soluzione trovata è quanto di peggio si potesse immaginare.
Il primo decreto, che è entrato in vigore il 6 dicembre scorso, all’indomani dell’applicazione dell’embargo europeo sugli idrocarburi russi, prevede infatti il commissariamento dello stabilimento da parte dello Stato che, per conto della russa “Lukoil”, dovrà per un biennio garantire gli stipendi ai dipendenti e tentare di mantenere accesi gli impianti. Nel far questo potrà avvalersi di una “società a controllo pubblico operante nel medesimo settore” (l’ENI). Il secondo decreto, non ancora pubblicato, solleva gli amministratori dalla responsabilità penale, consente la prosecuzione dell’attività – facendo prevalere su tutto il “riconoscimento dell’interesse strategico nazionale” – e impone (?!) al giudice non solo di consentire l’utilizzo dei beni sequestrati, senza entrare nel merito del sequestro, ma di trovare egli stesso la quadra attraverso “le prescrizioni necessarie” per un “bilanciamento tra le esigenze di continuità dell’attività produttiva e di salvaguardia dell’occupazione e la tutela della sicurezza sul luogo di lavoro, della salute e dell’ambiente”.
Alla mostruosità giuridica si accomuna l’ennesima beffa ambientale, considerato che l’ISAB di Priolo è una fabbrica-killer, responsabile da decenni della devastazione e dell’inquinamento da metalli pesanti di un largo tratto di costa e di mare siciliano, con innumerevoli morti sul lavoro e per malattie polmonari, tumori, malformazioni tra la popolazione locale, senza che tutt’oggi si sia mai provveduto – nonostante denunce, sentenze penali e centinaia di milioni di euro stanziati dallo Stato e dalla Comunità Europea – alla bonifica dei suoli e alla depurazione delle acque. In tale contesto, non sorprende il patetico tentativo effettuato dal governatore siciliano Schifani, esautorato “per incompetenza” dal governo nazionale, d’intestarsi addirittura la “soluzione” della vicenda!
Sembra ripetersi la storia degli stabilimenti ENI di Gela e FIAT di Termini Imerese dove l’intervento dello Stato e della Regione, col pretesto della difesa dell’occupazione, si è tradotto in un fallimentare tentativo di riconversione degli impianti e nella promessa di bonifiche mai realizzate, con miliardi di euro sprecati a favore di aziende insolventi, sequestri “congelati”, minacce di nuove devastazioni (termovalorizzatori, impianti per la produzione e il trattamento del gas naturale proveniente dal Nord Africa, ecc.), senza che l’occupazione e la qualità dell’ambiente ne abbiano tratto un reale beneficio. L’intervento odierno del governo Meloni impedisce di fatto la chiusura degli impianti di morte di Priolo, la depurazione delle acque del golfo di Augusta e la rinaturalizzazione integrale dei siti interessati – che sono di grande valore paesaggistico -, lasciando un futuro occupazionale precario e “assistito” per poche migliaia di addetti (i quali, anziché rimanere in attesa di nuove improbabili navi petroliere, potrebbero più utilmente essere impiegati nei lavori di bonifica già finanziati); delega inoltre alla maggiore azienda energivora italiana, l’ENI, responsabile tra l’altro del disastro gelese, il compito di trovare alternative farlocche allo stoccaggio di idrocarburi fossili e imbastire nuove speculazioni nocive per lo sviluppo locale.
Il governo nazionale e il governo regionale, come si sa, sono nelle mani di amici dell’ENI, dei fautori della rigassificazione, della termovalorizzazione e del nucleare d’ultima generazione, e da loro non ci si può attendere alcuna sensibilità nei confronti delle questioni ambientali in Sicilia. Di fronte a tanta protervia e alla connivenza della stampa e dei politicanti sottomessi ai poteri forti dell’economia nazionale, risulta insufficiente l’azione spiegata dai pochi gruppi locali che da anni si battono contro questi impianti di morte e la cui strategia, finora sempre perdente, si è basata sulla convinzione che si potesse affidare allo Stato e alla magistratura la risoluzione dei problemi vitali del territorio.
È ancor più “fuori luogo” oggi insistere su una riconversione industriale “soft” dell’area, con fabbriche di biocarburanti e impianti energetici (gas) meno invasivi, che però non risolvono, come è accaduto a Gela, il problema occupazionale (l’hanno anzi incancrenito impedendo altri sbocchi) né quello degli inquinanti, dato che restringono la prospettiva di una bonifica integrale dei suoli e delle acque (a Gela, in otto anni, con 800 milioni di euro a disposizione, l’ENI ha realizzato solo l’1% delle bonifiche “programmate”!) É difatti proprio l’aspetto di area degradata a fare di questi siti di “interesse nazionale” spazi disponibili per ulteriori future devastazioni, collegate ai nuovi gasdotti con l’Africa, alle navi metaniere, a impianti per il trattamento dei rifiuti ecc. Credere che lo Stato e i capitalisti da esso foraggiati vogliano rinunciare per le loro esigenze, i loro mercati, i loro interessi geostrategici alle opportunità che offre un territorio già avvelenato – sostituendovi altri siti intatti sempre più difficili da reperire e trasformare -, è pura illusione. Come lo è il pensare che megaimpianti centralizzati, che richiedono grandi aree, ingenti capitali e consumo di suoli, possano essere ricondotti al controllo e alla partecipazione delle comunità.
Noi crediamo invece, da sempre, che una lotta ambientalista in Sicilia non possa prescindere da un’opposizione frontale ai progetti governativi e del capitale di stravolgimento delle peculiarità naturali dei territori e di asservimento delle comunità locali, e in particolare quelli che comportano pericoli per la vita e la salute degli abitanti. Tutte le fabbriche di morte, gli impianti fortemente inquinanti, le basi militari, anche gli edifici dismessi già simbolo di morte e di guerra, i quali solitamente hanno devastato paesaggi e ambienti tra i più belli dell’Isola, che erano e potrebbero tornare ad essere la promessa per uno sviluppo autocentrato delle popolazioni, rispettoso dell’ambiente, con alternative economiche legate alla terra e al mare, devono diventare proprietà comune, aperta, accessibile a tutti. L’obiettivo ultimo della lotta non può essere che l’OCCUPAZIONE (popolare e permanente) delle aree, la loro IMMEDIATA BONIFICA, LA DISTRUZIONE E LO SMANTELLAMENTO degli impianti, in qualche specifico caso il loro riuso a servizio delle comunità locali, la RINATURALIZZAZIONE dei luoghi. Un diverso atteggiamento, di mediazione politica, di compromesso economico, di collusione interessata, ritarderebbe o vanificherebbero questo processo e riconsegnerebbe quegli stessi luoghi alla speculazione capitalistica e al militarismo, ammantati di “verde” (mimetico) e di finta sostenibilità.
Occorre approfittare delle opportunità che si offrono in questo periodo di sbandierata transizione ecologica ed energetica, di dismissioni industriali, di smagliature nel sistema economico per tentare di sperimentare lotte radicali e soluzioni alternative ai problemi annosi provocati dalla rapacità del blocco politico-affaristico-mafioso che ancora domina in Sicilia.

Natale Musarra

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