Il governo dei reati

Dalle leggi ad personam ai reati ad personam: è una delle tracce di continuità più evidenti tra i governi di centrodestra guidati da Silvio Berlusconi al governo di destra retto da Giorgia Meloni. Se però il Cavaliere, in fondo, inventava leggi per salvarsi il culo e perpetuare il sistema clientelare che gli ha consentito di stare al potere per più di 20 anni, la donna/madre/cristiana fa un passo in avanti in più, puntellando in senso ancora più securitario quello che ormai da tempo è il regime democratico.
Se n’è accorto persino il mondo liberale, oggi come ieri il vero reggente della destra al governo, che parla apertamente di rischio (oh, sono pur sempre liberali) di “autoritarismo democratico”. Che a loro pare un ossimoro e per chi scrive è una ridondanza. All’alba della nascita del governo Meloni, tra settembre e ottobre 2022, la galassia liberale – che pontifica sul giornale Il Foglio, gigioneggia sul canale tv La 7 e costruisce consenso sul sito Il Post – teorizzava che “ma quale ritorno del fascismo, questi avranno le mani legate in ambito economico dai vincoli dell’Unione europea e al massimo si rifaranno sui diritti civili, togliendo qualcosa lì giusto per fare la faccia feroce e dare un segnale ai propri che sono gli stessi di sempre”. Pur se in apparenza plausibile, la tesi non faceva i conti col desiderio di rivalsa di una destra enormemente rancorosa, ossessionata dall’egemonia gramsciana, vogliosa di ricostruirsi un posto al sole e pronta a imporre una visione che fa rima con nazione.
Nella definizione più comune, con il termine nazione si intende un insieme di persone che hanno in comune tradizioni storiche, lingua, cultura e origine. È un concetto che la destra italiana ripete in continuazione da quando è al governo – la sola Meloni lo ha espresso una quindicina di volte nel suo discorso di insediamento alle Camere – e che però poggia evidentemente su basi fragili. L’Italia vista da destra è un coacervo di etnie, identità plurime, conflitti di classe latenti ma pulsanti. Per questo serve compattare la nazione ed escludere tutto ciò che non è comune e conforme. A ciò serve la pioggia di reati che da quasi un anno ha inzuppato i codici penali e le vite di tante e tanti.
I primi a essere colpiti, per chi lo ricorda, sono stati i rave party: chi organizza e promuove un rave rischia ora da tre a sei anni a carcere e una multa da mille a diecimila euro, in base al nuovo articolo 633-bis del codice penale. A seguito della tragedia di Cutro, in cui sono morte 95 persone che tentavano di approdare nelle coste calabresi, il governo ha introdotto un nuovo reato, chiamato pomposamente “morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina”, con pene dai 10 ai 30 anni di carcere. Un reato inventato che, a detta di tutti gli esperti, non incide per nulla sui flussi migratori e che però serve, appunto, a perpetuare la logica del divide et impera: i cattivi sono gli scafisti, i buoni siamo noi che li individuiamo come tali con l’ausilio del codice penale. C’è poi la proposta della Lega, approvata dal consiglio dei ministri a metà aprile, che prevede “disposizioni sanzionatorie in materia di distruzione, dispersione, deterioramento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali o paesaggistici”: è il reato ad hoc cucito questa sulla pelle delle attiviste e degli attivisti di Ultima Generazione, il movimento ambientalista che più si è fatto notare nell’ultimo anno con le azioni di protesta rivolte, appunto, verso alcuni dei luoghi italiani più noti al mondo (il carbone vegetale disperso nell’acqua della Fontana della Barcaccia, a Roma, e la vernice colorata alla facciata di Palazzo Vecchio, a Firenze, le più clamorose). Definito dalla stessa maggioranza di governo come “il disegno di legge contro gli eco-vandali”, a poco serve far notare che il reato di imbrattamento esiste già e prevede pure l’aggravante: il testo, infatti, punta non solo a reprimere e frenare il dissenso ma, soprattutto, serve a creare una frattura, per alienare le possibili simpatie verso la causa portata avanti da Ultima Generazione. Senza considerare gli altri possibili reati che la maggioranza parlamentare intende introdurre: dal reato di “istigazione all’anoressia” al reato di “omicidio nautico”, dal reato di “occupazione abusiva di privato domicilio o dimora” fino al reato di “surrogazione di maternità”. Ipotesi di reato finora non contemplate nel codice penale: nei primi due casi servono evidentemente a trasmettere l’idea che si sta facendo qualcosa per combattere due fenomeni particolarmente odiosi, ma sempre con la mannaia della repressione e mai con lo strumento della prevenzione; gli altri due casi, invece, ancora una volta servono a imporre il cappio legalitario rispettivamente a un conflitto sociale (la questione abitativa) e all’assenza di un diritto (per chi non può avere figli). Poi, come fa notare Amnesty International, il governo si muove, con la scusa di presunti “ritocchi tecnici” invocati dal ministro Nordio, per depotenziare il reato di tortura. Un reato che fu introdotto in Italia tra mille difficoltà nel 2017 a 29 anni di distanza dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della Convenzione del 1984 contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani e degradanti. E che sia Salvini che Meloni avevano più volte promesso in passato di cancellare perché, parole loro, “impedisce agli agenti di fare il proprio lavoro”. I reati, come le leggi, per i nemici si applicano o, meglio ancora, si inventano di sana pianta; per gli amici, invece, si depotenziano o, meglio, ancora si cancellano. Un governo che brandisce lo strumento legale come un’arma è un pericolo non solo per la tanto decantata democrazia borghese ma è soprattutto un ostacolo per le lotte che devono attraversare l’Italia. È necessario dunque convergere e trasformare questo tentativo di divisione legislativa in un’unione di mobilitazioni e rivendicazioni. Uscendo fuori dagli angusti confini del perimetro legale.

Andrea Turco

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