L’eco-ansia si combatte con la lotta

Quindici morti, migliaia di sfollati, decine di migliaia di animali morti, danni al territorio stimabili in circa cinque miliardi di euro: ci ricorderemo a lungo dell’alluvione di maggio in Emilia Romagna. Specie se collegata alla crisi climatica in corso, che estremizza  i fenomeni naturali come le piogge facendoli diventare fonte crescente di eco-ansie e devastazioni ambientali. Qui il problema non è (soltanto) capire di chi sono le responsabilità se a ogni tempesta viene giù tutto o se si possono fare comparazioni col passato, né tantomeno provare ad attrezzarsi ora che il maltempo è diventato sistemico. Perché qui di “naturale” c’è rimasto ben poco.
Date per assodate le responsabilità del capitalismo nella creazione della crisi climatica, tanto che sempre più la comunità scientifica e quella accademica parlano di questa come l’era del Capitalocene, deve diventare chiaro che la lotta al riscaldamento globale è letteralmente vitale. Due sono le parole chiave da tenere a mente: mitigazione e adattamento. Nel primo caso si tratta di rendere rendere meno gravi gli impatti dei cambiamenti climatici prevenendo o diminuendo l’emissione di gas a effetto serra nell’atmosfera: ciò si può fare riducendo le fonti di questi gas (ad esempio mediante l’incremento della quota di energie rinnovabili o la diminuzione dell’uso delle fonti fossili) oppure potenziandone lo stoccaggio (ad esempio attraverso l’aumento delle dimensioni delle foreste o la cattura dell’anidride carbonica). Per quel che riguarda l’adattamento, invece, si tratta di anticipare gli effetti avversi dei cambiamenti climatici mettendo in campo misure adeguate che possano prevenire o ridurre al minimo i danni (ad esempio spostando le persone che vivono sulle zone costiere per difendersi dall’innalzamento del livello del mare). L’una non esclude l’altra, anzi entrambe le soluzioni devono andare di pari passo.
Fin qui i concetti sono condivisi dalle ong ambientaliste, dalla comunità scientifica e dai vari organismi delle Nazioni Unite. La differenza sta nel modo in cui si vogliono raggiungere tali obiettivi. Ed è qui che si instaura la prima faglia. Perché anche nel campo climatico il riformismo, seppure radicale, è la strada scelta da chi è consapevole della crisi in corso. Ma quale riformismo è praticabile di fronte a un territorio come quello italiano in cui, secondo i dati Ispra, quasi il 94% dei Comuni italiani è a rischio di dissesto idrogeologico e soggetto ad erosione costiera, e oltre 8 milioni di persone abitano nelle aree ad alta pericolosità? Quale riformismo è praticabile di fronte a un consumo di suolo, ancora dati Ispra, che cresce a una media di 19 ettari al giorno e una velocità che supera i due metri quadrati al secondo?
Una situazione che diventa ancora più sconcertante in Sicilia. Perché l’isola si trova al centro del Mar Mediterraneo, definito dai maggiori climatologi al mondo un “hotspot climatico”, vale a dire un luogo dove l’aumento delle temperature e gli effetti di tale aumento sono più intensi rispetto alle medie globali. Secondo uno studio dell’Organizzazione Mondiale Meteorologica, nei prossimi cinque anni il mondo sperimenterà nuovi record di temperatura e probabilmente il riscaldamento globale supererà gli 1,5 gradi  rispetto ai livelli preindustriali, una soglia oltre la quale potrebbero esserci conseguenze disastrose a catena per il pianeta potenzialmente irreversibili.
Se è vero che tendiamo a dimenticare tutto in maniera estremamente rapida, vale la pena ricordare ciò che è avvenuto a Floridia, nella provincia di Siracusa, tra l’11 agosto 2021 e il 26 gennaio 2022: nel paese si è avuto uno sbalzo termico da record, passando dai 48,8 gradi dell’estate 2021 (la più alta temperatura mai registrata in Europa da quando esistono i rilevamenti strumentali) al crollo delle temperature fino al -4,3 gradi sotto lo zero. Tutto è avvenuto in poco più di cinque mesi. Con l’arrivo di El Nino, il fenomeno climatico di riscaldamento delle acque marine, Floridia non sarà più l’eccezione ma lo standard, e la Sicilia più di tutte dovrà fronteggiare nei prossimi anni ondate di calore, siccità e alluvioni. Ecco perché va ripreso ed esteso il concetto di cura, nato a sinistra durante la pandemia e poi quasi subito accantonato. Di cure avranno bisogno le persone, soprattutto gli anziani e i contadini; di cure avranno bisogno città e paesi, sprovvisti come sono di alberi e reti idriche; di cure avranno bisogno gli animali, che ancor più degli esseri umani patiscono le alte temperature; di cure avranno bisogno gli ecosistemi, sempre più a repentaglio in nome del progresso. Come e ancor più del Covid, inoltre, la crisi climatica è un acceleratore di disuguaglianze. Chi ha soldi e potere potrà tranquillamente continuare a vivere nella propria opulenza, senza soffrire mai scocciature come la carenza d’acqua o la casa travolta da una piena. Mentre l’isola dovrà fronteggiare un inevitabile aumento delle migrazioni, che sempre più saranno migrazioni climatiche. E a nulla serviranno i soliti offensivi consigli dei tg a rimanere a casa nelle ore più calde, questa estate, se nel frattempo uffici e case resteranno i soliti forni di cemento. Di fronte all’ineluttabilità dei cambiamenti climatici, sempre più spesso i giovani parlano di eco-ansia. È ora di trasformare questa ansia in lotta, a partire dai territori che più di tutti patiscono e dovranno patire gli effetti di una crisi che è stata generata altrove, dalle classi dominanti. Come sosteneva lo storico dell’ambiente Jason W. Woore già nel 2017, “il capitalismo non ha un regime ecologico, è un regime ecologico”. Nel senso che da tempo perfino la natura viene inglobata nei meccanismi organizzativi del profitto. A tutto ciò va opposta, dunque, una lotta climatica che non può che essere anticapitalista e solidale. 

Andrea Turco

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